Io donna del Corriere della sera
Etty Hillesum. La luce dal lager
Riscoperte. Ebrea olandese, morì non ancora trentenne ad Auschwitz. Lasciando un diario che testimonia una struggente fede nella vita e nell'umanità. Ora il comune di Roma le dedica quaranta giorni di convegni e iniziative. «Penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa sempre arricchire l'uomo di nuove prospettive»
di Elisabetta Rasy
Il 9 marzo 1941 una ragazza olandese di ventisette anni comincia a tenere un diario: "devo affidare il mio animo represso a uno stupido foglio di carta a righe". È colta, ha già una laurea in giurisprudenza e segue dei corsi di lingue slave. Ma non è la cultura il suo problema, il suo problema è la vita: vuole scrivere per indirizzarla "verso un fine ragionevole e soddisfacente". È inquieta e contratta: "Mi sento molto impacciata, non ho il coraggio di lasciarmi andare" dice a proposito dei suoi desideri di scrittura. Ma è anche spregiudicata: con la scrittura "è come nel rapporto sessuale: alla fine, il grido liberatore rimane sempre chiuso in petto per timidezza". Comincia così, con queste confessioni incerte, uno dei documenti più importanti e luminosi del Novecento, anzi un vero e proprio dono del cuore più nero del secolo agli anni a venire. La ragazza si chiama Etty Hillesum: quando muore - ad Auschwitz, il 30 novembre 1943 - il suo nome resta sepolto per quasi quarant'anni. Nel campo è stata annientata anche la sua famiglia: il padre professore di lettere classiche, la madre russa fuggita in Olanda dopo un ennesimo pogrom, il fratello Mischa precoce talento musicale. L'altro fratello, Jaap, che a diciassette anni aveva scoperto una nuova vitamina guadagnandosi l'accesso a tutti i laboratori accademici, ora medico, morirà poco dopo. Qualche cifra in più nello sterminato numero degli ebrei scomparsi in Europa nella Seconda guerra mondiale. Etty, però, dietro sé lascia proprio quel diario iniziato in un giorno di sconforto, più una manciata di lettere dal campo di Westerbork, tappa di passaggio per Auschwitz, dove si è fatta rinchiudere volontariamente ("Mi sembra una curiosa sopravvalutazione di se stessi, quella di ritenersi troppo preziosi per condividere con gli altri un "destino di massa""). Il diario lo ha affidato a un'amica prima di scomparire, perché a guerra finita lo consegnasse all'unico scrittore che conosce, Klaas Smelik. Ma Smelik, lì per lì, non ha fortuna. Sono stati necessari trentacinque anni perché qualcuno trovasse interessanti quegli otto quaderni coperti da una scrittura minuta e quasi indecifrabile sui quali Etty, dal marzo del '41 e per oltre un anno e mezzo, ha segnato lo svolgersi dei suoi pensieri. Ma quando il libro viene pubblicato per la prima volta in Olanda, nel 1981, le pagine di Etty fanno velocemente il giro del mando, in molte lingue (in italiano sono pubblicate da Adelphi), in migliaia di copie, suscitando un appassionato interesse e paragoni con il Diario di Anna Frank, la ragazzina - olandese anche lei - che qualche mese dopo rifece il percorso di Etty verso lo sterminio. E ora a Roma, grazie a un'iniziativa del comune capitolino cui si sono associati organismi universitari e culturali di diversi Paesi, l'Istituto di cultura tedesco Goethe e la comunità ebraica nonché un nutrito numero di biblioteche cittadine e gli istituti carcerari romani, l'opera e la figura di Etty Hillesum saranno al centro di un percorso di ricerca - dal 19 gennaio alla fine di febbraio - articolato in numerosi seminari, incontri e spettacvoli teatrali. Inoltre, una mostra fotografica della sua famiglia e del suo mondo intitolata E. H.: il cuore pensante tra le baracche e il fango. Filosofi, storici, scrittori estrarranno i temi centrali del suo pensiero: la testimonianza e la memoria, l'incontro con l'Altro come orizzonte del sé, il rifiuto dell'odio, l'amore per l'esistenza e per la creazione divina nonostante tutto, la teologia responsabile verso gli uomini e verso Dio che questa ebrea senza confini confessionali propone. Ma chi legge il Diario di Etty e persino le sue Lettere dall'inferno di Westerbork, dove i fiori di lupini e talvolta l'arcobaleno si stagliano contro la brughiera devastata, l'immagine che si propone è quella di una giovane donna che, conoscendo forse per la prima volta l'emozione amorosa, prova lo straordinario desiderio di conoscere se stessa. Sigaretta in mano, così ce la mostra una foto, piccoli orecchini, sguardo spalancato e pensoso su un mondo tutto da capire e da amare. Etty, diversamente da Edith Stein, la suora ebrea che incontrerà fugacemente nel campo, non cerca la santità ma la verità della vita. Divide la sua giovinezza, prima di Westrbork, tra la casa sulla Museumplein - dove vice con una piccola comunità formata dal proprietario, il sessantaduenne vedovo Han Wegerim (nel diario lo chiama affettuosamente Pa Han, ma tra loro nasce ben presto una relazione molto intima), da suo figlio e da un gruppetto di affittuari, che per Etty diventano presto "la famiglia" - e un nucleo di elezione, quello che si raccoglie nella parte sud della città attorno alla figura di Julius Spier. Spier, ovvero: "... quei meravigliosi occhi così umani, che venendo da grigie profondità erano posati su di me, indagatori. Li avrei baciati volentieri". Spier, allora cinquantaquattrenne, è una figura più che romanzesca: ebreo di Francoforte, emigrato in Olanda da Berlino, era stato direttore di banca, cantante, editore. Ma col tempo si era scoperto una vera e propria vocazione per la lettura della mano. Aveva consultato Carl Gustav Jung a Zurigo. Jung lo aveva spinto alla "Psicochirologia": la lettura della mano insieme a quella dell'anima. Due figli, un'ex moglie a Berlino e una futura moglie in attesa a Londra, Spier era diventato una personalità carismatica. Ma per Etty è di più. Non solo l'amante, il maestro, la guida spirituale. È l'uomo che compie il miracolo essenziale per le donne del suo tipo: rivela a se stessa. La ragazza che a novembre del '41 confida la sua disorientata fragilità al diario ("Paura di vivere su tutta la linea. Cedimento completo. Mancanza di fiducia in me stessa") è quella che, scegliendo la via del campo un anno dopo, s'impegna con Dio e con se stessa a essere "il cuore pensante della baracca" e auspica di riuscire a essere "un balsamo per molte ferite". Ha conosciuto l'orrore: la brutalità dei nazisti nelle strade di Amsterdam, la triste e manipolata burocrazia del Consiglio ebraico, l'impensabile del lager. Ma da Westrbork, in una lunga lettera del dicembre '42, scrive. "A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire l'uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo a loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare - se non li ospitiamo nelle nostre teste, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione - allora non siamo una generazione vitale".
Da Io, Donna/Corriere della sera, gennaio 2002