Gli americani dicono: «Il tempo è, denaro», i russi: «Il
tempo è sangue». Sulla Kurgan Mamajev, sulla piccola altura, piovono bombe da
mille chili, e proiettili fino a 203 mm. I combattimenti si svolgono corpo a
corpo, baionetta o granata, e in un giorno i difensori di Stalingrado respingono
99 attacchi. Di continuo gli aerei con la croce uncinata volano sulla testa dei
difensori. La città è avvolta nel fumo degli incendi. Nel diario del caporale
tedesco Walter si legge: «Stalingrado è l'inferno sulla terra, una Verdun
rossa con armi nuove. Se al mattino procediamo di una ventina di metri, la sera
i russi ci ributtano indietro. Si lotta locale per locale, pianerottolo per
pianerottolo». Negli ospedali da campo, il generale Cujkov è impressionato
dal pallore dei chirurghi e delle infermiere, che sfiniti dal lavoro sono più
bianchi dei loro camici. Non ci sono né cavalli né autocarri; tutti i carichi
vengono trasportati a spalle. Ogni tanto quelli della Wehrmacht urlano: «Russi,
domani ci sarà da divertirsi». Il giorno dopo, puntuale, parte un violento
assalto. Si illudono: saltano dagli autocarri, schiamazzano, dan fiato alle loro
armoni che a bocca, ballano sui marciapiedi. Scarseggia l'acqua, per bere, per
raffreddare le mitragliatrici; ci sono feriti che si buttano nel fiume. C'è chi
lo fa anche per prendere un bagno, e sfida le pallottole. Ho ascoltato la storia di Pëtr-Semënovic Nikiforov: allora
era tenente, distaccamento ricognitori. Ora è colonnello e in pensione.
Piccolo, rotondo, nel racconto si accalora; mi mostra con orgoglio l'unico
albero rimasto in piedi; c'è ancora. Quello è il teatro Gor'kij: ha resistito.
Ospitava il Comitato regionale e lo Stato maggiore. Allora i vecchi, i bambini e
i malati sono stati portati sull'altra riva, sfollati. Pompei, in confronto a
Stalingrado, dice, non è niente.
Non c'era salvezza: ma si è perso anche il senso della paura. C'erano
quattrocentomila abitanti; nessuno ha potuto aiutare i sopravvissuti. Le
fabbriche, sotto raffiche e spezzonamenti, producono. Una centrale elettrica va
ancora. Fino al 12 settembre i negozi sono aperti. I soldati dividono il rancio
con la popolazione. Durante i combattimenti non si fanno normalmente
prigionieri. Catturano un giovanotto che è nipote di von Ribbentrop: “Hitler
è uno stronzo a continuare” dice. Le madri maledicono il Führer e stringono
al petto i figlioletti uccisi. C'è uno specchio d'acqua che si, chiama lago
delle lacrime; l'acqua è verde. Mi accompagna alla casa di Pavlov: il bravo
sergente ha resistito per quasi due mesi. Se mollava conquistavano il mulino;
prima della rivoluzione apparteneva a un cittadino germanico, Herr Gerhart. Il
nome, sbiadito, si decifra ancora sulla facciata. Ė un deposito di grano e
di farina. Ė collegato con la strada da un tubo lungo un paio di centinaia
di metri: ci si infilano pattuglie delle due parti, ma è così basso che non
possono spararsi. Mi mostra il «campo dei soldati»: era un groviglio di
schegge e mine, ma da sette anni si miete il frumento. E qui cadde il maggiore
Petrakov; aveva davanti un fiore, e stava descrivendolo, nell'ultima lettera, a
Ludmila, la sua bambina. «Mia piccola Mila, osservo questa margherita che
rabbrividisce nel vento, e penso al miracolo della vita ... ». Ho parlato a
Stepan Ivanovič, un altro che c'era. Ha servito nell'esercito per 27 anni. - Stepan Ivanovič, quali furono i giorni più terribili?
«La metà di settembre, e poi ottobre, fino al venti». - L'altura di Mamaja
passò dall'uno all'altro. Perché era tanto importante? «Da lassù si riusciva
a vedere oltre il Volga, da dove ci arrivavano le munizioni, i,viveri, le armi,
dove sfollavamo i feriti. E di lì, con l'artiglieria, si poteva sparare». -
Perché si parlava tanto della casa di Pavlov? «Fu tenuta per cinquantotto
giorni, era necessario affinché i tedeschi non si potessero incuneare nella
nostra linea. Il più vecchio, là, era Jerzan Pavlov, che guidava i suoi
soldati. I bollettini di guerra ne parlavano spesso, perché quello era anche il
punto d'osservazione dei nostro comandante di divisione. E questo è il racconto di Jurij Levitan, il più famoso
annunciatore della radio, la cui voce ha segnato le ore fatali dell'Urss. «Ho cominciato che non avevo ancora diciassette anni, ora ne
ho quasi settanta. Ho avuto la fortuna di raccontare l’entrata in funzione
della Centrale idroelettrica dei Dnepr, nel 1932; la messa in funzione del primo
magnete per altoforno, della costruzione della nuova città di Komsomolsk, sull'Amur;
il volo dell'aviatore Čkalov, attraverso il Polo Nord, in America. «Ma il 22 giugno 1941, è arrivato il terribile giorno. E
così ho Ietto l'annuncio dell'attacco della Germania nazista all'Unione
Sovietica. Ho detto soltanto. "Parla Mosca. Trasmettiamo un comunicato
della Tass". «E così i tedeschi erano a trentasette chilometri da qui.
Hitler allora annunciò che il 7 novembre avrebbe organizzato una parata sulla
Piazza Rossa. Certo sono passati per le vie di Mosca, ma nel 1944, decine di
migliaia di prigionieri lungo il Sadovor Kol'co, e dietro duecentoventi
annaffiatrici stradali spazzavano le impronte di quelle canaglie. «E proprio il 6 dicembre ho letto la notizia del fallimento
dei loro attacco alla capitale. Sono stati molti gli annunci felici: la rottura
del blocco di Leningrado, le pesantissime battaglie a Stalingrado, quelle di
carri armati presso Orci, Kursk e Belogorod. E non dimenticherò mai il 9 maggio
1945. La primavera. Aspettavamo la completa vittoria sulla Germania. E quella
nette, è accaduto. Sono andato al Cremlino, alla torre di Spasskij. C'era uno
studio speciale destinato ai discorsi. lo ho annunciato l'intervento del
compagno Stalin. Alle 22 la fine è stata salutata da mille cannoni». Non tutti
sono eroi, c'è anche chi fugge, e bisogna vedersela anche con la viltà. Ma gli
iscritti al partito sono sempre in prima linea. E c'è anche l'angoscia di chi
sente compiersi il suo destino. Uno scritto che non ha mai raggiunto il
destinatario: «Buon giorno, mio caro amico! Buongiorno e addio, perché io non
sono più vivo. Questa lettera ti sarà recapitata soltanto nel caso che io
muoia. Ma la morte non è lontana, lo sento. lo non so per quanto tempo questo
foglio resterà spiegazzato nella mia tasca, ma prima o poi ti raggiungerà per
ricordarti un'ultima volta il tuo compagno di scuola. «Visto che si tratta dell'ultimo messaggio, avrei tante,
tante cose da dirti. Vorrei rivelarti tutto il mio dolore per le speranze che
non si sono realizzate, comunicarti la paura di questa fine sconosciuta. Sì,
mio caro, paura, perché io ho paura di ciò che viene dopo la morte. Ecco, sta
per venire la primavera, e questa parola non mi dà pace. E non è una primavera
qualsiasi: compio vent'anni. Vent'anni, quasi un uomo. Devo morire mentre la
natura mi sorride, mentre il cuore mi batte per la gioia perché sento cantare
un uccellino e mi sfiora l'umida brezza». Quando è festa, come nell'anniversario della Rivoluzione di
ottobre, pasto speciale di «pel'meni» siberiani, una minestra che assomiglia
ai ravioli. Čujkov rievoca il piacere di un bagno a vapore, della bianchería
pulita, di un pasto abbondante. Quando un giovanotto di diciotto anni, organizzatore della
Gioventù comunista, con tre soldati, cattura una fila di alti ufficiali, Čujkov
li invita a mangiare e fa portare del tè: «Che costi questa, propaganda?»,
chiede il generale Korfes «Se il generale è persuaso che un tè e un paio di
panini siano una trovata politica», risponde Čujkov, «non insisteremo
perché li accetti». Anche le donne hanno fatto la loro parte: puntatori di
artiglieria, telegrafiste, ufficia- li di rotta, comandanti di battelli, piloti
di aereo, dottoresse pronte a operare sotto una pioggia di pallottole. Nadja
Klimenko è addetta al centro collegamenti dello Scalo Bassargino. Non molla il
microfono. Questo è il resoconto dell'ultima comunicazione: «Non c'è
più nessuno dei nostri, qui. Sono completamente sola. Tutto intorno scoppiano
granate. Sulla mia destra avanzano i carri con la svastica, seguiti da soldati
di fanteria. Ormai non posso più allontanarmi, cadrei certamente sotto i loro
colpi. Comunque continuerò a informarvi. Un carro viene avanti, ne escono due
uomini. Si guardano attorno... Sono due ufficiali, mi sembra... Ecco, ora si
dirigono verso di me. Che cosa succederà?». Nessuno sa quello che è accaduto
in seguito. Poi, il giorno della vittoria. Sì abbracciano tutti, rievoca Pëtr
Semënovič Nikiforov, ci scappa qualche bacio perfino ai tedeschi. Restano
abbandonate migliaia di automezzi della Wehrmacht: «Prendimi come autista»,
invoca qualche prigioniero. La steppa è il cimitero dell'esercito nazista. Negli archivi
berlinesi, c'è un rapporto segreto del Servizio di sicurezza delle SS. La data
è: 4 febbraio 1943. Dice: «Dappertutto è diffusa la convinzione che
Stalingrado rappresenti una svolta decisiva nella guerra». La Polonia di Isaac B. Singer è tutta nei suoi libri. Ė
quella degli ebrei religiosi, che aspettano la venuta del Messia: il suono di un
corno di ariete darà il fatale annuncio. Studiano la Torah, rispettano lo
Shebbet, il sabato, e in quel giorno santo non fanno nulla, non toccano neppure
il denaro. Hanno lunghe barbe, indossano gabbani di raso e portano in testa
copricapi di pelliccia. Vivono e trafficano nelle umide case dei ghetto, coi
fantasmi e le antiche paure: il mondo è «un immenso scannatoio» e nella mente
rivivono i pogrom e le lance dei cosacchi. Isaac è un ragazzino «dal volto pallido, dagli occhi
azzurri e dai riccioli laterali», che cresce in una famiglia povera e
rispettosa dei volere di Dio; ma si angoscia con molti dubbi e interrogativi
senza risposta: se il Signore fosse buono non permetterebbe ai lupi di divorare
gli agnelli e ai gatti di catturare i topi innocenti. Non ha neppure molta fede nell'uomo: “Oggi i polacchi»,
annota, «tormentano gli ebrei; ieri i russi e i tedeschi tormentavano i
polacchi”. Le piazze sono piene di monumenti ad assassini patriottici.
La giovinezza a Varsavia trascorre nel primo dopoguerra: già
il compagno Stalin comincia a farsi un nome, un ex imbianchino chiamato Hitler
tenta in Germania un colpo di Stato, e in Italia Mussolini distribuisce agli
avversari randellate e olio di ricino. Ė tempo di charleston e di fox trot,
e le ragazze a passeggio per Novy Swiat sfoggiano giacche di pelle, quelle che
in Urss sono indossate dalle donne della Čeka. E anche a proposito di fanciulle, Singer ha le sue
convinzioni: gli piacciono molto, e ne parla con franchezza, perché «gli organi sessuali
esprimono l'anima umana meglio di tutte le altre parti dei corpo». Non si pone
limiti: « Perché mai un'ape dovrebbe legarsi a un solo fiore?». Si sente estraneo ai polacchi, che hanno una storia e un Dio
diversi, e ha l'orgoglio degli israeliti che «quando sanno che una cosa è
giusta osano opporsi persino all'Onnipotente». Hitler è un discendente di
Amalk, il persecutore, ma a Singer non piacciono neppure i comunisti: il suo
amico Isaac Deutscher, che è diventato trotzkista, rivela le violenze che
affliggono Mosca. Insegue il successo: è convinto che un narratore deve
attirare a sé i propri lettori, ma le sconfitte lo amareggiano. Sente che sta
arrivando la tempesta,
e vede
nell'America una mano tesa, che lo aiuterà a ottenere amore, denaro e
riconoscimenti e decide di andarsene. Taglia, nel 1935, i ponti con la terra che
lo ha visto nascere, ma sa già che anche oltre l'Atlantico sarà sempre uno
straniero, fino al termine dei suoi giorni. La Varsavia che lascia è quella dei Castello Reale, che vide
gli amori di Napoleone con Maria Walewska, delle architetture immortalate nelle
tele di Bernardo Bellotto, una città di oltre un milione di abitanti che si
estende sulle rive della Vistola. L’antisemitismo ha, più che motivi confessionali o di
razza, ragioni economiche e sociali: oltre la metà dei medici, degli avvocati,
degli insegnanti sono ebrei, e così due terzi degli iscritti al Partito
comunista: nel 1938, il 90 per cento dei dirigenti hanno origini semite. La
borghesia è chiusa e codina: non si ricevono attori, o divorziati, nessuna
signorina per bene può frequentare i bar degli alberghi. Sono aperti 20 teatri
e 75 cinematografi, e ristoranti raffinati come Fukier o Laugner, e poi
caffè letterari, dove i gentiluomini baciano la mano anche alle
cameriere, pasticcerie, locali notturni. Il l^ settembre 1939, per dirimere una controversia impostata
su Danzica, alle 4.49 del mattino le divisioni corazzate della Wehrmacht
scattano all'attacco. Diciotto giorni dopo è la volta dell'Urss, che invade la
parte orientale con un atto che, secondo Alain Decaux, « è il più immorale
dei tempi moderni». Il maresciallo Rydz-Šmigly, una amabile nullità, che
durante le manovre dipinge acquarelli, e ha una smodata passione per il bridge,
dovrebbe guidare la difesa: eroici assalti di cavalleggeri si infrangono, con le
loro bottiglie molotov, contro i carri, armati tedeschi. In meno di tre settimane, l'assedio si conclude. La fame è
più forte di tutto: anche dell'indignazione. Il 1^ottobre, in una capitale
senza acqua, senza pane, senza luce, senza trasporti, entrano i reparti di von
Brauchitsch e distribuiscono subito zuppa di piselli e pagnotte nere, mentre gli
operatori della Propaganda Staffel girano la scena. Gli ebrei, naturalmente,
sono respinti. Poi, più nulla.
Sono andato a trovare Singer nella sua casa di
New York: un decoroso appartamento, che ha l'aria del provvisorio. I libri sono
sparsi un po' ovunque, come se fossero in attesa di sistemazione; sul caminetto,
c'è il candeliere rituale, la Menoràh. Isaac B. Singer è come si descrive: « Calvo, le guance incavate, bianco, le orecchie a sventola», ma lo sguardo è
dolcissimo, e il suo racconto sincero e vibrante. «Le passioni», ha scritto,
« non hanno finestre» e le sue parole sono sempre pietose.
Che cosa vuol
dire essere ebreo?
«Ha lo stesso significato che essere italiano o spagnolo, o
cattolico o protestante. Uno nasce in un ambiente, viene allevato in un certo
tipo di vita, non è una questione di scelta, non si decide nulla venendo al
mondo. I genitori, o gli antenati, lo hanno fatto anche per noi».
Soddisfatto della sua condizione?
«Tutti siamo orgogliosi
di quello che siamo, o perlomeno così si dice. Naturalmente non ho condiviso
tutti i dogmi ebrei, non vado alla sinagoga molto spesso, non so se devo
considerarmi religioso nel senso comune del termine. In ogni caso non cambierei
il mio essere israelita, la mia fede, per nessun'altra al mondo; il perché non
lo so e non glielo posso spiegare».
Com'era la sua vita prima di lasciare la Polonia?
«Mio padre era un rabbino e con l'aria respiravamo il
Talmud. Mi spiegava che essere ebreo è un gran privilegio e un gran dovere per
un uomo. Ho frequentato una scuola dove mi hanno insegnato soltanto materie
sacre, non ho avuto nessun'altra educazione. Poi ho imparato per conto mio.
Ovviamente, tutto questo mi è rimasto dentro. «A un certo punto avevo
rifiutato quelle dottrine: quando ero giovane mi sono detto: non esiste alcuna
prova dell'esistenza di Dio e nessuna dimostrazione che egli provi molto
interesse per noi. Mi consideravo un libero pensatore. Ma oggi che ho raggiunto
la vecchiaia non riesco ad abituarmi all'idea che l'universo è soltanto un
incidente fisico o chimico, che l'evoluzione è partita da una esplosione
cosmica, oggi credo, come credevano i miei genitori e i miei nonni e i miei
bisnonni, che c'è un essere che ha dato inizio al tutto, e che lo segue. Che ciò
sia per noi un bene o un male non ha importanza; esiste e dobbiamo tenerne conto».
Quando ha lasciato la Polonia, nel 1935, Hitler era già al
potere da due anni. Che idea aveva. allora dei nazismo?
«Credevo, mi dicevo che Hitler era un gran bugiardo, ma che
quanto prometteva in senso negativo lo avrebbe mantenuto. Ero certo che sarebbe
accaduta una enorme catastrofe al mio popolo e ai popoli di tutta Europa, e in
modo egoistico ho cercato di salvarmi. Questo è il motivo per cui ero molto
ansioso di emigrare in America. Ero più passionale della maggior parte dei miei
colleghi. « Ricordo che allorché sono andato a comprare un biglietto per la
nave che andava a New York, in agenzia mi dissero che se avessi aspettato due
settimane avrei potuto avere una cabina sul Normandie, nave sulla quale tutte le
persone snob d'Europa desideravano viaggiare. Ma io mi dissi che nel frattempo
Hitler avrebbe potuto invadere la Polonia e andai negli Stati Uniti con un
piccolo piroscafo francese. Non mi interessava il prestigio, desideravo fuggire
da quell'inferno che slava per arrivare».
Che rapporti c'erano fra gli ebrei e i polacchi a Varsavia?
«Le dirò, nonostante gli ebrei si trovassero in Polonia da
sette, ottocento anni, e anche più, esisteva ancora una separazione.
Naturalmente le nostre religioni erano diverse. I polacchi parlavano la loro
lingua e la maggior parte degli ebrei l'yiddish; molti erano arrivati dalla
Germania. Le nostre abitudini erano differenti e così le nostre leggi, non ci
era permesso di sposare figlie di polacchi, così come ai polacchi non era
consentito di sposare figlie di ebrei. Per ottocento anni abbiamo tentato di
vivere in un paese restando non soltanto una minoranza, ma degli stranieri veri
e propri, anche se in molti momenti abbiamo sperato e lavorato insieme. Hitler
era altrettanto nemico dei polacchi come degli ebrei».
“Pogrom”, era una parola lontana o una minaccia
incombente?
«Non è semplicemente una parola; pogrom significa uccidere
persone innocenti, e per quanto è a mia conoscenza, l'intera storia dell'umanità
è stata un grande pogrom, che le persone uccise fossero ebrei o greci, o
italiani o altro. Sin dall'inizio ammazzare è stata un'attività dell'uomo,
quindi pogrom non è per me un vocabolo strano. Si tratta in effetti di un
termine russo, ma il significato purtroppo lo conosciamo tutti».
Che impressione le fece l'America degli anni Trenta?
«Sono arrivato in questo paese nel bel mezzo della
depressione, molta gente mi raccontava di quanto denaro avesse perso, si parlava
ovunque di fallimenti e dì cose dei genere. Ma non me ne preoccupavo molto, non
ho perso soldi perché non ne avevo, ero quasi senza un centesimo. «L’unica cosa buona era che mio fratello maggiore A.J.
Singer si trovava qui, e naturalmente mi accolse a braccia aperte. Pensavo che
la lingua yiddish, nella quale scrivevo, non avrebbe avuto lunga vita né in
Polonia né altrove; io ero un narratore senza una lingua propria e ciò mi fece
una tale impressione che smisi di lavorare, per qualche anno non ho più
scritto, non ci sono più riuscito. Ma dopo un certo periodo di tempo mi sono
detto: se ho qualcosa da dire, qualcosa da raccontare, devo raccontarlo come so,
e il resto accadrà. E ho cominciato.
Come si guadagnava da vivere?
«Ho subito trovato un
lavoro, scrivevo per il "Jewish Daily Folio", gli promisi un romanzo
su un falso messia. Più tardi, quando lo terminai, e fu un grosso insuccesso,
scrissi degli articoli; insomma me la cavavo. Potrei raccontarle della mia
situazione finanziaria: la mia unica speranza era quella di riuscire a
guadagnare 15 dollari alla settimana. Se riuscivo a guadagnare 15 dollari alla
settimana avevo sufficiente denaro per mangiare nei self-service e per pagare
l'affitto della mia camera ammobiliata. Ma per anni non mi è riuscito di
raggiungere neanche questo obiettivo».
Quali sono stati i periodi più difficili?
«Direi l'inizio
della mia vita negli Stati Uniti. Cosa può esserci di peggio di non avere un
lavoro e non poter fare ciò che si desidera, riuscire a essere creativo? Era un
periodo di crisi, ma in qualche modo sapevo che non sarebbe durata in eterno e
tentavo comunque di essere contento a modo mio: ero giovane, in qualche modo
sono sempre riuscito a mangiare, mio fratello si trovava nello stesso paese e
avrei sempre potuto rivolgermi a lui, anche se ho rifiutato di accettare aiuti.
Quindi ero contento, leggevo molto, studiavo l'inglese, facevo delle conoscenze
- allora non ero sposato - avevo delle ragazze. Non era poi un’esistenza così
brutta come la immaginavano alcuni dei miei amici».
Dov'era e com'era la sua famiglia all'inizio della guerra?
«Mio padre era morto prima della mia partenza. Mia madre
viveva in un piccolo villaggio in Polonia, in Galizia, insieme al mio fratello
minore, che divenne rabbino al posto di mio padre. Vi sono rimasti fino al 1939,
allorché arrivarono i nazisti. Prima che giungessero i tedeschi sono stati
portati lontano, nella Russia sovietica, non in una città, direi semplicemente
in un insediamento, dove hanno vissuto fino a che entrambi sono morti: una vita
di fame e di miseria».
Perché non è andato in Israele?
«Avevo avuto un figlio
da una donna: quando i miei parenti si trasferirono a Tel Aviv lei era diventata
comunista. Andò col bambino in URSS, e io negli Usa».
Qual è, secondo lei, la definizione di sionismo, e perché
c'è gente che odia gli ebrei?
«Per duemila anni, dopo che gli ebrei furono cacciati da
Israele, i loro nemici usavano dire: ritornate in Palestina. Questo era lo
slogan di tutti gli antisemiti: tornate in Israele, tornate laggiù. Un certo
numero di giovani ebrei si sono decisi: bene, cerchiamo di farlo. Ma nel momento
in cui arrivarono fu loro detto: tornatevene in Polonia, tornatevene in URSS,
tornatevene in Germania. Direi che da sempre il mio popolo non ha mai avuto
pace, non l'ha neppure adesso».
Allo scoppio della guerra la Polonia è stata uno dei primi
paesi a soffrirne; cosa ricorda di quei giorni?
«Da quando ho lasciato Varsavia, nel 1935, non vi ho più
vissuto. Leggevo i giornali, ricevevo delle lettere e sapevo che il paese era
diventato un grande mattatoio. Ovviamente gli ebrei hanno sofferto più dei
polacchi, ma anche i polacchi hanno avuto la loro grossa parte di dolore».
Dopo un certo tempo anche l'America è entrata nel
conflitto; qual era allora il clima di questo Paese?
«Gli Stati Uniti non potevano lasciare che Hitler
conquistasse l'Inghilterra, la Francia, la Polonia, l'URSS, non potevano
permettere che i nazisti raggiungessero il potere che si prefiggevano. Tutti
sapevano che se qualcuno avesse attaccato l'Inghilterra presto o tardi si
sarebbero alleati con la Gran Bretagna, non con i suoi nemici. «Quando ero
ragazzo, dovevo avere sette o otto anni, dei miei compagni parlavano di politica
e uno di loro diceva che avrebbero vinto gli inglesi, non i tedeschi. lo chiesi:
"Come fai a saperlo?". Mi rispose: "Se l'Inghilterra le prende
l'America l'aiuterà". "Ma perché dovrebbe aiutarla?" fu la mia
domanda. E il ragazzino: "Perché entrambe parlano inglese". Era
dotato di più buonsenso dei generali tedeschi».
Sapeva ciò che avveniva nel ghetto di Varsavia?
«Non ne sapevo tanto quanto quelle persone che avevano avuto
la sfortuna di trovarcisi, comunque ero abbastanza al corrente di quanto
accadeva. Sapevo che Hitler intendeva mantenere la sua promessa di eliminare
tutti coloro che poteva distruggere.
Quando ha sentito parlare per la prima volta di Auschwitz e
Dachau?
«Ho sentito parlare di Dachau già prima di partire. Degli
altri campi, diversi anni dopo; leggevo i giornali, ascoltavo la radio e avevo
un'idea piuttosto precisa di ciò che stava accadendo in Europa».
Non c'era un sentimento di disagio nel sentirsi salvi e al
sicuro, mentre gli altri rischiavano la vita solo perché si chiamavano Levi o
Cohen?
«Provavo un senso di colpa per non essere rimasto in
Polonia; ero uno scrittore e avrei dovuto restare con i miei lettori. Tuttavia
nei momenti di pericolo il nostro egoismo ci dice di fuggire, di salvare noi
stessi».
Si è mai sentito in esilio a New York?
«No, l'unica cosa
che avvertivo, ma è una sensazione che provo tuttora, è che tutti gli esseri
umani lo sono. Siamo nati e non sappiamo perché, moriremo e non sappiamo perché.
Ognuno è un proscritto, perché non conosciamo nulla della nostra missione su
questa terra, ne ignoriamo lo scopo, è come se fossimo messi in disparte. Da
quando sono nato provo questo disagio, o perlomeno da quando ho cominciato a
capire».
Quando
i
tedeschi entrano in Varsavia, la città è per metà distrutta. Impongono subito
die Neue Ordnung, il nuovo ordine: le razioni alimentari garantiscono ai
polacchi 650 calorie al giorno, contro le 2.000 dei sudditi del Reich, o le
1.000, 1.200 degli italiani e dei francesi. Puniscono con la pena di morte chi compie atti di violenza
contro le autorità germaniche, chi reca danni alle installazioni e agli
strumenti di utilità pubblica, chi incita a disobbedire alle direttive.
Isabella Zahorska, diciannove anni, arrestata dalla Feldkommandantur, con
l'accusa di sabotaggio, viene fucilata. Ha strappato un manifesto. Confisca dei libri stranieri, divieto di organizzare feste
anche in famiglia, niente opera, concerti, prosa. Niente nuove pubblicazioni,
solo un quotidiano controllato. Le università e i licei vengono chiusi: «Tutti
i rappresentanti della classe dirigente», ordina il governatore generale, Hans
Frank, «debbono venire uccisi. Non possono esserci due padroni». Ci vanno di mezzo preti, insegnanti, ufficiali, medici,
scrittori, giornalisti, grandi proprietari e commercianti. I professori
dell'Università di Cracovia sono invitati per una conferenza: 183 finiscono a Sachsenhausen, e molti
non ritornano. Nella zona sovietica, intere popolazioni vengono trasferite
in Siberia o nell'Asia, centrale. Gestapo e Nkvd si mettono d'accordo per reprimere
eventuali insubordinazioni. La polizia nazista ha metodi sbrigativi per indurre
alla confessione: bastonate, dita rotte, ammoniaca versata nel naso, spine
infilate sotto le unghie, le donne violentate con manganelli o scatole di
conserva. Ai detenuti vengono passati 120 grammi di pane al giorno e
una minestra di farina di cellulosa e di ortiche. Per mangiare, la gente vende o baratta: scarpe, vestiti,
quadri, utensili, mobili, argenti. Si allevano polli nel bagno, conigli nei
granai, maiali nei cortili dei caseggiati di periferia. Il mercato nero trionfa: si chiamano smugiel i
contrabbandieri che vanno in giro a procurare lardo, burro, carne, olio di colza
o di girasole. Coi contadini c'è anche scambio di cortesie: il campagnolo offre
salame, pagnotte di segale, sanguinaccio alla griglia, uova e pancetta, e vodka;
il cittadino ricambia con sigarette, calze, qualche gioco per i bambini. Chi è preso finisce in carcere o deportato in Germania come
«elemento asociale e speculatore». Ma gli stessi occupanti trafficano: vendono
carbone, benzina, profumi francesi, riso italiano, scarpe belghe, biancheria: i
treni che vanno verso l'Est subiscono continue perdite di merce. Tutti cercano di arrangiarsi: un anziano rettore
dell'università butta paiate di antracite nella caldaia del termo di una
scuola; la romanziera Nalkowska fa la tabaccaia; il giornalista Bialasiewicz il
cocchiere; attrici, signore aristocratiche, ragazze della buona società servono
nei ristoranti di lusso. Alexandre Wolowski, che ha ricostruito quelle vicende, narra
la storiella di quel mendicante dall'aria distinta, e dagli abiti che han
conosciuto momenti migliori,, seduto davanti alla cattedrale di San Giovanni, al
quale una cameriera con la crestina porta una gamella di zuppa. Mangia la sua
parte e dice: «E ora, cara, portate il resto a Madame. Oggi chiede la carità
davanti alla chiesa dei Cappuccini». Si organizza l'«Armia Krajowa», l'armata dell'Interno, e
comincia la resistenza. Il programma: «I nostri nemici sono tutte le ideologie
totalitarie, in primo luogo l'hitlerismo e il bolscevismo». Peggio vanno le cose per gli ebrei. Prima gli dicono che non
hanno nulla da temere, poi comincia il dramma. Ordine di formare il Judenrat, il
Consiglio degli anziani della comunità, che ha il compito di fornire manodopera
non pagata. E anche responsabile dell'assistenza sociale, dei servizi medici,
dell'istruzione. I depositi bancari sono bloccati, non più di 2.000 zloty per
famiglia. Isolati, nei loro quartieri, e accusati di essere portatori di bacilli
e di parassiti. Cinque o sei persone occupano un vano. I bambini crescono senza
sapere che cos'è un albero. Quasi la metà della popolazione israelita non ha
mezzi di sostentamento. Le pulci invadono tutto: i tram trainati dai cavalli, le
banconote, il pane. Ne ricevono due chili e mezzo al mese. Dall'inizio del 1940 ai primi mesi del 1942, 100.000 decessi
per «morte non violenta»: tifo, fame, freddo. Ma cinque teatri funzionano: tre
in yiddish, due in polacco, e la Grande orchestra sinfonica esegue musica
classica e religiosa. Si compongono canzoni; una è intitolata «Piccolo
contrabbandiere». Dice il ritornello: « 0 madre, chi ti porterà dei pane
domani?». Ha successo Mary Eisenstadt, figlia dei capo di un coro della
sinagoga, definita «l'usignolo del ghetto». La stampa clandestina dà notizia dei massacri: ma la
maggioranza non ci crede. Poi cominciano le deportazioni: lettoni, SS, ucraini, lituani
caricano su carri i moribondi degli ospizi, i rifugiati, i malati degli
ospedali, poi rastrellano le strade. Qualcuno si uccide. Il pedagogo Janusz
Korczak non vuole lasciare i suoi bambini: prende i due più piccoli per mano, e
gli altri in fila, ordinati, con grembiuli puliti, e gli racconta che stanno
andando in campagna, a vedere gli scoiattoli e le foreste. Il 19 aprile 1943 arrivano silenziose nella cittadella degli
israeliti quasi mille Waffen SS in formazione di combattimento, ma sono accolte
da un lancio di granate e di bottiglie incendiarie. Un carro armato brucia.
Allora entrano in azione cannoni, mortai, aerei e lanciafiamme. Comanda
l'operazione il generale Jürgen Stroop, che fa riprendere i momenti
dell'attacco. Il 20 maggio la missione è compiuta: davanti ai vincitori c'è un
immenso cimitero. Sono stato nel ghetto di Varsavia. Gli uccelli e il vento
hanno lasciato cadere qualche seme tra le macerie; da una finestra spuntano le
foglie di un susino. C'è anche un monumento con nastri, corone, e una lapide
che dice: «Il popolo ebraico ricorda il sangue dei suoi martiri». Mezzo
milione di persone vivono, nella primavera del 1943, oltre questo muro
diroccato; adesso la città ne ospita 5.000, o forse mille di più; è difficile
saperlo, perché molti hanno cambiato nome, non vogliono essere riconosciuti.
Non possono lavorare, né vendere né acquistare dagli « ariani», salire sul
tram, usare i forni, possedere gioielli od oro, uscire senza permesso. Vietato
guadagna re più di 500 zloty al mese, e un chilo di pane ne costa 80. Senza
giornali, isolati, uccisi dalla fame e dal tifo, o dalle fucilate dei
poliziotti. Anche chi ha compiuto dodici anni deve portare un bracciale bianco
con una stella di David blu. Solo i bambini riescono a infilarsi tra i
reticolati e a passare dall'altra parte: e spesso sono loro che, con qualunque
mezzo, provvedono alla famiglia. Tre vengono abbattuti, con una sola, raffica,
da un gendarme, davanti all'ospedale Berson e Baumann. L’atmosfera si fa sempre più opprimente, ma la gente vuol
vivere. Si fanno persino concorsi di bellezza, e per le gambe più belle. E
possibile cenare con champagne, assistere a spettacoli di varietà. Poi
cominciano le deportazioni all'Est di chi «non produce». Molti non credono che
quelle retate portino ai treni per Auschwitz o a Treblinka, alle camere a gas.
L’ingegner Adam Czerniakow, presidente del Consiglio israelitico, che non può
opporsi alle richieste dei tedeschi, si ammazza.
I nazisti cercano anche dei volontari: chi si trasferirà
fuori Varsavia riceverà una pagnotta di tre chili e un barattolo di marmellata.
Accorrono a migliaia, stipati nei vagoni, senza acqua, tra gli escrementi. Il
cianuro diventa una merce preziosa. Il 19 aprile 1943, alle 4 del mattino, comincia dunque
l'assalto, ma ogni casa diventa un fortino, ogni strada un campo di battaglia.
La dinamite fa crollare la grande sinagoga di via Tlumackic, ma cento soldati di
Hitler saltano sulle mine. Grandi incendi alzano nuvole nere nel cielo terso,
nell'aria si respira l'odore acre dei corpi bruciati. Nel suo rapporto a Hìmmler
il comandante parla di insorti che si buttano «dai balconi in fiamme lanciando
ingiurie e maledizioni contro la Germania, il Führer e le sue truppe». Il 16
maggio detta l'ultima relazione: 180 giudei, banditi e uomini inferiori sono
stati abbattuti nella giornata, «la totalità dei prigionieri e degli
sterminati sale a 56.065». Ricorda Marek Edelmann, uno dei pochi ribelli
superstiti: «Jurek Wilner invita tutti i combattenti a suicidarsi. Lutek
Rotblatt tira su sua madre e sua sorella, poi rivolge l'arma contro di sé».
Da
Sette/Corriere della sera, 1943 - 1993, Enzo Biagi, n. 4