la Repubblica
Giorno della Memoria
il
Cinema e la Memoria – Calopresti e l’orrore di Auschwitz
Il
regista presenta il suo “Volevo solo vivere”, che raccoglie le testimonianze
di nove italiani sopravvissuti all’Olocausto
di
Maria Pia Fosco
ROMA
- "Da Auschwitz si esce con il corpo, ad Auschwitz abbiamo lasciato
l'anima". Con queste parole si conclude Volevo solo vivere, il
film di Mimmo Calopresti che raccoglie le testimonianze di nove cittadini
italiani sopravvissuti all'Olocausto, nove storie di vita, memorie di dolore
che emerge in modi diversi, in una pausa, in uno sguardo che si perde, in un
silenzio prolungato. «Abbiamo letto tanto, abbiamo visto tante immagini,
crediamo
di sapere tutto sull'Olocausto, invece c'è sempre qualcosa di nuovo da
scoprire,
elementi che aggiungono orrore all'orrore», dice Walter Veltroni presente
ieri alla proiezione del film, con il regista, con Shlomo Venezia, uno dei
testimoni, con Giancarlo Leone di RaiCinema coproduttrice del film. Volevo
solo vivere sarà distribuito dalla 01 nelle principali città italiane dal
27, poi uscirà in dvd e in seguito sarà trasmesso dalla televisione. Il primo
viaggio di Calopresti ad Auschwitz è stato con gli studenti delle scuole
romane e i sopravvissuti: «È stato impressionante vedere la stessa realtà
con occhi diversi, quelli della
memoria che riaffiorava e
quelli ignari dei ragazzi. E stata un'esperienza che mi ha cambiato. Poi, per
due anni, ho ascoltato centinaia di testimonianze, due anni di lavoro modesto,
necessario a chi fa cinema ed è portato alla presunzione di sapere tutto. Ho
cominciato a credere l'incredibile, perché è incredibile quello che è
successo nelle loro vite». Nel film scorrono le cifre delle vittime «perché
la Shoah è un problema di morti, di milioni di morti, ma ho privilegiato le
storie, ho voluto porre al centro dell'attenzione il racconto di una vita. E
di queste storie mi ha colpito l'inimmaginabile, come quando Venezia, uno dei
prigionieri addetti alla cremazione dei corpi, si chiamava la
"Sonderkommando", racconta l'inganno con cui i prigionieri venivano
avviati alle camere
a gas, li facevano spogliare, dicevano loro di ricordare il numero della panca
su cui avevano lasciato gli indumenti per riprenderli all'uscita. E quando
nella fila vide suo cugino avviarsi verso la morte, gli portò un pezzo di
pane e una scatoletta di carne». A volte, dice Calopresti., «mi sono
censurato, ho lasciato le immagini dei cadaveri depositati nelle fosse uno per
volta, non ho mostrato i grossi trattori che li gettavano in massa. Avevo
bisogno
di allontanarmi dall'orrore, ma qualcosa dovevo dirla. Ed è orrore il lavoro
quotidiano, organizzato con mostruosa precisione, una forma di fabbrica che
doveva raggiungere i risultati previsti, verificare la garanzia che si potessero
uccidere ottomila persone al giorno». Colpiscono nel film piccoli dettagli,
Liliana Segre che mai dimenticherà i fragili polsi di suo padre mortificati
dalle manette prima di sparire per sempre nel camion che lo portava a morire,
l'angoscia di Esterina Calò Di Veroli nel vedere il proprio corpo devastato
dagli esperimenti del dottor Mengele. Qualcuno accenna alla denuncia da parte
di un conoscente o di un vicino di casa, ma, secondo Calopresti, «per definire
il contesto storico sono essenziali le immagini iniziali, il discorso di
Mussolini a Trieste il 18 settembre 1938, che definisce "l'ebraismo
mondiale nemico irriconciliabile con il fascismo". E sotto una folla
immensa che lo applaude, ormai le folle plaudenti mi fanno paura. Non so come
essere umano, se sia possibile che tutto questo non succeda più. Oppure che
succeda ancora, che stia succedendo, non sono sicuro che nel mondo non ci
siano, oggi, esseri umani che subiscono le stesse mortificazioni da parte di
altri esseri umani. Non posso fare molto come singolo. Posso solo cercare di
diventare più forte, di migliorare me stesso, sperando che altri, davanti a
certe memorie, facciano la stessa cosa».
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il
progetto - Cinquantamila voci
dalla Shoah
L’iniziativa
lanciata da Steven Spielberg ha finora prodotto undici documentari
-Ci sono racconti
di zingari e prigionieri politici
ROMA
- L'obiettivo
iniziale di Steven Spielberg quando
nel 1994 diede vita alla "Survivors of the Shoah Visual History Foundation"
era quello di raccogliere almeno 50 mila storie di sopravvissuti all'Olocausto e
di altri testimoni prima che fosse troppo tardi. «Il progetto è stato
realizzato, abbiamo registrato 52 mila testimonianze in 56 paesi e in 32
lingue, ci sono anche racconti di zingari Rom e Shinti, prigionieri politici,
persone che hanno partecipato alla liberazione o ai processi per crimini di
guerra», dice Mark Edwards, che a nome di Spielberg ringrazia il sindaco
Veltroni, il settore italiano della fondazione e soprattutto Calopresti «per la
sensibilità con cui ha realizzato il film. È un film di forti contenuti, porti
con garbo e semplicità, comunica le sue reazioni che potrebbero essere le
reazioni di ciascuno di noi». L'archivio di videoregistrazioni è a
disposizione di ogni paese, di chiunque voglia realizzare documentari o film
specifici. Sono 400 le interviste raccolte in Italia dal 1998 al 1999,
selezionate da Calopresti per il film. La collezione è conservata
nell'Archivio di Stato, a disposizione del pubblico. La Shoah Foundation. che da
quest' anno è diventata parte della facoltà di lettere dell'Università
della Southern California, ha intanto prodotto i documentari andati in onda in
50 paesi e sottotitolati in 28 lingue diverse. Tra questi c'è Broken silence,
che raccoglie cinque film di autori, come Puenzo per l'Argentina, Chukraj
per la Russia, Wajda per la Polonia. Di grande importanza per Spielberg sono
anche i 16 prodotti educativi, tra cui mostre virtuali interattive accessibili
gratuitamente nel sito web della Shoah Foundation. Il 27 gennaio, giornata
della Memoria, sono in programma incontri e
manifestazioni dedicate alla
Shoah in tutto il mondo. A Roma, per l'occasione, Volevo solo vivere sarà
mostrato ai 1500 studenti delle scuole superiori che partecipano al progetto
del Comune "Noi ricordiamo", che in quattro anni di attività ha
coinvolto 51 istituti superiori e 32 scuole medie.
(m.
v. f.)
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le
storie
Le
donne
Andra
Bucci, deportata a 4 anni e
liberata a 6; Esterina Calò Di Veroli, romana come Settimia
Spizzichino, che fu l’unica sopravvissuta delle seicento donne deportate
il 16 ottobre del ’43, si ritrovarono durante la “marcia della morte” a
Bergen Belsen; Luciana Somigliano Nissim, amica di Primo Levi, impegnata
come medico all’infermeria di Auschwitz; Liliana Segre, nata a Milano,
deportata con il padre nel ’38 a 13 anni malgrado fosse battezzata; Giuliana
Tedeschi, deportata con il marito dopo aver messo in salvo le bambine in un
convento, testimone in diversi processi per crimini di guerra.
Nedo
Fiano, arrestato da italiani
il 6 febbraio ’44, rinchiuso nel carcere di Firenze poi trasferito ad
Auschwitz con la famiglia di cui è l’unico superstite; Schlomo Venezia,
nato a Salonicco, arrestato ad Atene, impiegato nei forni crematori, destinato a
morte sicura perché i nazisti non volevano lasciare testimoni, sopravvisse alle
marce della morte; Arminio Wachseberger, nato a Fiume, deportato da Roma
nel ’43, vide avviarsi alla morte la moglie e la figlia di 5 anni, riuscì a
sopravvivere grazie alla conoscenza di varie lingue, fu sottoposto agli
esperimenti del dottor Mengele.
la
Repubblica, 25 gennaio 2006
Il bambino che evitò il lager vivendo in un armadio
Dopo
61 anni Leon Spier racconta la sua incredibile storia – Frequentava la stessa
scuola di Anna Frank e aveva 4 anni quando fuggì da Amsterdam – “Solo mio
padre, mia madre e io sopravvivemmo. Ho perso ottanta miei parenti nei lager”.
Perché è successo?
di
Alessia Gallione
Clarissa
Rebecca nascerà fra due mesi. La sua prima nipote. La vita che va avanti, che
deve continuare ad andare avanti, proprio come dicevano i suoi genitori quando
decisero di mettere al mondo sua sorella nonostante la guerra, le
persecuzioni, un'esistenza da reclusi al buio di una soffitta o nascosti
dietro un armadio per sfuggire alla morte. Questa è una storia molto simile
a quella di Anna Frank. Clarissa
Rebecca: il suo futuro. È solo per lei, che Leon Spier ha deciso di
parlare. Dopo sessantun anni passati a cercare di dimenticare quello che non si
può cancellare, ad andare avanti nonostante gli incubi che tornano ogni notte a
perseguitarti. «I tedeschi. Vedo i tedeschi», dice Leon. Che ancora adesso,
a settant'anni, dorme con una dispensa sempre fornita accanto
al letto e la valigia pronta. Tutto lì, al suo posto: i vestiti, i
documenti, un po' di soldi in contanti. «Per essere pronto a partire in dieci
minuti», come se fosse ancora ad Amsterdam, nel 1940, figlio di una famiglia ebrea
costretta a scappare. Leon non l'ha mai raccontata la sua storia. Neanche a
sua moglie Maria, l'amore della sua vita; incontrata appena arrivato a
Milano. Neanche ai suoi figli Maurice e Albert. Solo con sua nuora Chiara ha
iniziato a ricostruire piccoli frammenti di passato. «Ho cercato di
dimenticare, andare avanti. Volevo solo ricostruirmi una famiglia, volevo
vivere».
Vivere: lo ripete spesso, Leon. Anche adesso che le parole fanno
fatica a uscire e gli occhi
chiari e placidi di quest'uomo che parla
dodici lingue e ha girato mezzo
mondo, dal Brasile agli Stati
Uniti, si perdono chissà dove. «Perché non è trascorso un giorno in cui
non abbia pensato a quello che è successo». Eppure, Leon non ha ancora
finito di fare i conti con quel passato. Non ha ancora capito e accettato.
Perdonato. E lo ripete mostrando un albero genealogico della sua
famiglia. Gli Spier, ebrei olandesi dal 1700, oggi solo nomi su un pezzo di
carta. E accanto a ogni nome una data e un luogo: David Herman Spier,
19/11/1942, Auschwitz. Cornelia
Kosman, 19/11/1942, Auschwitz. Abraham Bloemendal, 7/10/1942, Mauthausen... «Solo
mio padre, mia madre ed io sopravvivemmo. Più di ottanta morirono nei campi di
concentramento. Anche i bambini. Perché è successo senza che nessuno facesse
qualcosa?». Non può darsi risposte, Leon. «Ancora oggi odio i tedeschi. I
miei nonni non vollero fuggire. Quando i tedeschi arrivarono li buttarono giù
dalle scale di casa e arrivarono ad Auschwitz con le gambe spezzate. Li
mandarono nelle camere a gas. Quella
degli Spier era un'esistenza agiata. Vivevano ad Amsterdam, in un
quartiere residenziale, non lontano da dove abitava Anna Frank. Ed è lì,
nella stessa scuola che la ragazzina frequentava, la Montessori, che Leon
iniziò l’asilo. Finì tutto nel 1940. Aveva 4 anni. «Ce ne andammo una
mattina senza niente, come se dovessimo andare in sinagoga. Ci staccammo la
stella di David dal cappotto, ne mettemmo uno sopra l’altro e partimmo». In
tasca dei documenti falsi. Leon ce l'ha ancora quel pezzo di carta ingiallito
che gli salvò la vita: «Diventammo la famiglia Cooseman, cambiando il nome
di mia madre di origine tedesca». E via, su un treno verso il Belgio. Ad
aiutarli i contatti che suo padre, volontario della Croce Rossa, si era
creato: «Al confine scavammo una buca
sotto il filo spillato e ci trascinammo dall'altra parte». Per Leon e i suoi
genitori iniziano anni di clandestinità, da un rifugio all'altro. Di
giorno, al buio, in silenzio. Di notte a cercare il cibo: «A volte mi mandavano
fuori per scavare le patate nei campi». Ora dopo ora: «Volevo giocare, ma
non avevamo niente. Con mio padre ci inventavamo delle costruzioni con i
fiammiferi». Per molto tempo la loro casa fu una stanza nascosta da un
armadio. Ed è lì che lo vide: il suo incubo. «C'era solo un piccolo foro, tra
i vestiti. Un giorno entrarono i tedeschi. Misero sotto sopra la casa,
urlavano. Uno di loro si avvicinò a quel foro nell'armadio: è la sua faccia
cattiva che continuo a vedere. Non ci hanno trovato». Dopo lo sbarco in
Normandia, suo padre si unì alla Croce Rossa: «Soccorreva i malati sui campi
di battaglia».Ed è come sergente dell'esercito che riuscì a
collezionare per lui mostrine e bottoni, gradi e pezzi delle uniformi di tutto
il mondo. Oggi, il signor Spier le conserva come reliquie, anche se il pezzo
forte sono gli stemmi della brigata ebraica. E allora che nacque la piccola
Yvonne. Era il 1944: «Fui io ad assistere mia madre. Da allora mia sorella,
per me, è come una figlia». A nove anni, Leon Spier era già un uomo, anche se
i denti non gli erano cresciuti per la malnutrizione: «Mi mandarono in
Inghilterra per una cura ricostituente». Finita la guerra tornarono ad
Amsterdam, ma non trovarono più niente. «Erano tutti morti».
Loro decisero di vivere. E dimenticare. Fino a oggi. Per il futuro di Clarissa
Rebecca.
la Repubblica, 26 gennaio 2006
La
memoria della Shoah affidata ai ragazzi - I nuovi testimoni della Shoah
Figli
e nipoti dei deportati devono ereditare la memoria – Per la prima volta molte
scuole non riusciranno a organizzare un incontro con qualche superstite –
Quelli che sono ancora vivi hanno quasi tutti più di 80 anni e sono sparsi per
tutto il mondo
di
Dario Venegoni *
Per
la prima volta, quest'anno, decine di scuole non riusciranno a organizzare
un incontro con un testimone dei lager. Già negli anni scorsi l'Associazione
degli ex deportati aveva avuto molte difficoltà nel far fronte alle richieste
di incontro. Ma quest'anno il fenomeno ha assunto proporzioni più rilevanti.
Per una associazione come l'Aned, che da 60 anni riunisce i superstiti dei
lager e i famigliari dei caduti, è un passaggio drammatico. La schiera dei
testimoni, cioè di quella minoranza di deportati nei campi nazisti che 60
anni fa riuscì a fare ritorno a casa, si va assottigliando. I
superstiti sono oggi in
grandissima maggioranza ultra-ottuagenari. Sono sparsi per il mondo e non
raggiungono complessivamente il migliaio. La natura fa il suo corso, e non
è lontanissimo il giorno in cui di testimoni diretti di quella tragedia non
ve ne saranno più. È normale che sia così, ovviamente. Ancora per diversi anni, fino al giorno in cui
sarà in vita anche solo un superstite di quella tragedia, l'associazione
vivrà. Ciò che accadrà dopo, però, nessuno può dirlo.
Se non succederà qualcosa
di straordinario e oggi imprevedibile, semplicemente si chiuderà bottega.
Al posto dell'Associazione rimarrà la Fondazione Memoria
della Deportazione, che già da
alcuni anni ha cominciato a operare a Milano, e che raccoglie i documenti e
i libri sulla deportazione italiana, per metterli a disposizione I
dei ricercatori di
oggi e di domani. Nei suoi 60 anni di vita l'associazione degli ex deportati
ha prodotto decine e decine di libri di testimonianza e innumerevoli saggi sui
Lager; ha organizzato mostre, convegni, manifestazioni di ogni tipo. Una parte
cospicua della sua produzione editoriale e grafica è esposta, per iniziativa della sezione milanese dell'Aned, nella mostra
"Libero=Libro" che si apre oggi e che sarà visitabile per tutto il
mese di febbraio presso la sede della Fondazione Memoria della Deportazione, in
via Dogana 3, a due passi dalla piazza del Duomo (per informazioni: 02
87383240). Spenta la voce dei protagonisti diretti non rimarranno però soltanto i libri, le immagini, le
video-testimonianze. Rimarrà il ricordo
dei figli e dei nipoti, e di quanti hanno avuto la ventura di conoscere un
superstite. di ascoltarne il racconto, magari in occasione di una delle tante
visite agli ex lager nazisti. È ora insomma che una nuova generazione di
"nuovi testimoni" si assuma le proprie responsabilità. Non tanto
(non solo!) per un doveroso omaggio alle vittime di quello sterminio, ma per
l'insegnamento che da quella tragica esperienza può venire anche al nostro
vivere odierno. Perché ciascuno di noi oggi e in futuro sappia riconoscere e
combattere nella vita di tutti i giorni i segni pericolosi del razzismo e
dell'intolleranza, di ideologie e di comportamenti orientati all'esclusione, alla discriminazione, alla sottomissione dell'altro. Non per
rivangare sterilmente quanto è accaduto in un lontano "ieri",
dunque, ma per comprendere quanto può accadere - e quanto già qua e là
accade - oggi, e più ancora domani. Per questo gli ex deportati di Milano
proveranno presto a proporre al mondo dell'arte, della comunicazione e della
cultura, alle organizzazioni. giovanili, sindacali, cooperative, al mondo della
scuola una manifestazione i cui protagonisti non saranno di testimonianze
terribili, ma quanti tengono viva quella memoria nelle battaglie civili di oggi, per la libertà, la pace, la
democrazia, i diritti. Per
l’Associazione degli ex deportati sarà un grande impegno, al quale chiamiamo
già fin d'ora a partecipare quanti idealmente si stringono a noi in queste
giornate dedicate alla commemorazione e al ricordo.
*presidente Aned di Milano
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Perché
i semi dell’odio continuano a germogliare
L’antisemitismo
non è ancora stato debellato, il ricordo aiuta a combatterlo
di
Davide Romano
A
sessant'anni dai fatti, ha
ancora senso parlare di Shoah? Mi piacerebbe rispondere di no, spiegare che
ormai la Shoah è un fatto storico da non mettere più in discussione, che
l'antisemitismo è definitivamente debellato, e che siamo certi che non
succederà mai più nulla del genere. Così non è, purtroppo. Anzi. I
semi dell'odio antiebraico sono ancora ben presenti nel mondo, all'interno di
diverse ideologie o religioni, e aspettano solo il momento migliore per
riemergere. Qualche esempio? Pensate solo al panorama offertoci da alcuni capi
di stato negli ultimi tempi: dal presidente iraniano Ahmadinejad che nega la
Shoah, al leader venezuelano Chavez, che accusa gli ebrei di essersi
appropriati delle ricchezze del mondo e di aver crocifisso Cristo. Per non
parlare del presidente egiziano Mubarak, che ha fatto trasmettere alla tv
egiziana un telefilm basato sulla teoria del complotto ebraico ai danni del
mondo. Non dobbiamo pensare (anche se ci farebbe molto comodo) che
l'antisemitismo degli anni '30 esistesse sono in Germania: esso era presente in
tutto l'occidente, dagli Stati Uniti alla Russia, passando per la Francia e
l'Italia. Hitler non è venuto dal nulla, ma è figlio di una storia e di una cultura
europea, ormai per fortuna del
tutto marginalizzata. Ma la fine di quella ideologia non è avvenuta solo a
causa della disfatta militare, ma anche grazie all'affermazione del valore della
memoria. Per questo è stato importante che i gerarchi nazisti non fossero
semplicemente giustiziati, ma portati in un'aula di tribunale. Il processo di
Norimberga è servito a far prendere coscienza al mondo di quello che è stato
fatto al popolo ebraico. Per molti versi fu proprio a Norimberga che sono state
riscritte le regole della nostra civiltà. In quel processo furono rese
pubbliche le atrocità dello sterminio, in modo che non potessero essere mai
più negate. E non è un caso che i fascisti di oggi cerchino di sminuire la
Shoah, perché sanno che da lì è iniziata la loro sconfitta. Ma non dobbiamo
illuderci che la battaglia sia vinta per sempre. La pattumiera, si sa, va
svuotata periodicamente. E non ci potranno sempre pensare gli expartigiani o
gli ex-deportati, raccontandoci direttamente la loro esperienza, e incidendo
indelebilmente nella nostra memoria le loro storie. È anche per questo che -
per rispondere alla domanda iniziale - il Giorno della Memoria ha, e avrà
in futuro, ancora più senso. Perché ci aiuterà nella sfida più difficile,
quella di mantenere vivo il ricordo di
chi non ci sarà più.
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La
testimonianza – La mia fuga da Sobibor
di
Thomas Toivi Blatt
Mi
chiamo Thomas Toivi Blatt,
sono uno dei quarantasette sopravvissuti a Sobibor, il lager dove ho
passato sei mesi, da cui sono evaso durante la rivolta e di cui sono diventato lo storico. Izbica, la mia città, era povera e
ortodossa, poco
dopo l'inizio della guerra arrivarono dei tedeschi delle forze speciali e
crearono un ghetto. Il 28 aprile 1943 la cittadina fu circondata. Capii che era
la fine. Ci portarono nella piazza del mercato, accanto a me c'era un soldato
che si voltò un attimo e io ne approfittai per sgattaiolare via. Mi ritrovai
tra i cristiani che osservavano la scena, tra loro c'era Janek Knapczyk, un
amico. Gli dissi: «Janek, salvami!» e lui: «Corri al fienile». L'entrata
era chiusa e il mio amico arrivò con dei gendarmi per farmi arrestare. Così mi
riportarono indietro. Arrivarono dei camion, che si mossero nella direzione di
Sobibor. C'era ancora una speranza, perché tra il lager e Izbica c'erano due
campi di lavoro. Ricordo un "oh..." quando superammo il secondo campo:
era sicuro, la fermata successiva sarebbe stata Sobibor. Nel 1942, durante
la conferenza di Wannsee, fu varata l’operazione Reinhard. Avevano deciso di
uccidere gli ebrei in un modo più efficiente e a questo scopo costruirono tre
campi in cui, nei diciotto mesi di attività, furono sterminate 700.000
persone a Treblinka, altrettante a Belzec e circa 250.000 a Sobibor. Sapevamo
che era un luogo per uccidere. Un posto simile lo immaginavo come l'inferno,
invece non riuscivo a credere ai miei occhi...era un bel villaggio. Sulla
sinistra c'erano delle villette. Sulla destra c'era un binario con una finta,
piccola stazione ferroviaria. La messa in scena non era per gli ebrei
polacchi ma per chi arrivava dall'Olanda e dalla Francia che, sino all'ultimo
minuto,
non sapeva che sarebbe stato
ucciso. Poi Frenzel, un tedesco, gridò: «Donne e bambini da una parte,
uomini dall'altra». Salutare mia madre fu doloroso. Il giorno prima le avevo
chiesto se potevo bere del latte, e lei mi aveva detto di non prenderne troppo
«perché, Toivi, domani è un altro giorno». Come se volessi accusarla di non
aver mantenuto una promessa, le dissi: «Vedi, mi avevi detto che domani era un
altro giorno». «È tutto quello che hai da dire ora?» mi rispose. E ci
separammo per sempre. Nei campi della morte non c'erano selezioni ma, quando
il numero dei prigionieri diminuiva, per suicidi o altro, prendevano qualcuno
dai nuovi trasporti. Poco prima del mio arrivo erano stati uccisi settantadue
ebrei olandesi, accusati di aver tentato la fuga. lo avevo quindici anni, pregai
Dio perché mi salvasse, e ancora oggi penso che la mia volontà, in qualche
modo, raggiunse il tedesco. I nostri occhi s'incontrarono. Lui disse: «Vieni,
piccolo». La meccanica di Sobibor era semplice, e rapida. 3000 persone
arrivavano con il trasporto, alle 8 di mattina, e lasciavano il loro bagaglio al binario. Un altro tedesco
teneva un discorso: si scusava per le
difficoltà del viaggio ma adesso, aggiungeva, erano finalmente arrivati,
era tempo di lavarsi. Per la doccia bisognava spogliarsi. In venti minuti
erano tutti morti. Noi eravamo usati per selezionare il vestiario. Vestiti da
uomo con vestiti da uomo, abiti da donna con abiti da donna, occhiali con gli
occhiali... bisognava svuotare tutte le tasche, soldi con i soldi. Documenti,
fotografie e libri da bruciare. Questo era il mio lavoro. La rivolta del ghetto
di Varsavia era già iniziata e le notizie arrivavano anche nel campo. Fu la
prima scintilla, la resistenza era possibile. Ma noi non avevamo mai imbracciato
un fucile. Quando i tedeschi deportarono gli ebrei del ghetto di Minsk, c'era
molto lavoro quindi selezionarono settanta deportati per aiutarci. Tra loro
c'erano dei militari. Gli ebrei polacchi formarono un comitato, comunicarono
con i russi, tra cui c'era Sasha Pechersky, un ufficiale dell'Armata Rossa. Tre
settimane dopo, vi fu la rivolta... e fuggimmo. Eravamo in otto a preparare il
piano. Più tardi fummo in dodici a svolgere le diverse funzioni. lo dovevo
attirare i nazisti nelle baracche e quando i tedeschi entravano gli altri li
colpivano con le accette. Avevo paura di essere preso e bruciato vivo.
Speravo di morire sul colpo. Quando cominciò la fuga, corsi verso l'ingresso
principale, perché sapevo che non c'erano mine. Sobibor era il solo campo di
sterminio circondato da campi minati. Fuggii tra le pallottole scappando verso
un altro punto del recinto. Un uomo arrivò con un'ascia e cominciò a fare un
buco. Cercammo di attraversarlo. Le guardie alle torri ci videro e
spararono. Alcuni di noi caddero, altri misero una scala sul recinto per
scalarlo, e proprio quando stavo passando, il recinto cedette. Rimasi
schiacciato sotto gli altri, cercai di muovermi ma il filo spinato mi bloccava
e questo mi salvò, perché i primi a uscire dal lager furono dilaniati dalle
mine. Alla fine mi sfilai il cappotto e andai. lo e due compagni trovammo
rifugio da un contadino polacco che, dopo averci tolto tutto, ci sparò. La
sua pallottola è ancora nella mia mascella. Vissi nei boschi fino all'arrivo
dei sovietici. Per me la liberazione è stata un soldato russo che
perlustrava le strade in bicicletta. Ancora oggi sogno del campo. lo sono
ancora lì, è impossibile andarsene da Sobibor. C'è ancora una cosa che
desidero fare: acquistare la casa del Kommandant... è ancora dello stesso
colore. Questo è il terreno del lager, non è importante per nessuno. Voglio
fame un museo. Perché è da queste finestre che il comandante di Sobibor ha
guardato un quarto di milione di persone andare a morire.
(Testo raccolto da Barbara Raggi)
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Io,
vittima e storico della Shoah
“Sono perplesso di fronte alle celebrazioni, temo che si perda il contenuto emotivo di un evento che l’Europa ha a lungo represso”
di
Saul Friedländer
C’è una frase dello scrittore tedesco Gustav Meyrink che ho sempre portato con me: «Quando arriva la conoscenza, arriva anche la memoria»; L'ho usata, ribaltandola, per la mia autobiografia, When Memory Comes, (il titolo italiano è A poco a poco il ricordo, ndr.). I due aspetti, memoria e conoscenza, sono sempre stati per me inscindibili. Durante la guerra, sono stato affidato a un monastero cattolico. Era il 1942, avevo 10 anni. I miei erano ebrei di Praga fuggiti in Francia. È stato il loro modo di salvarmi, prima di essere catturati e morire ad Auschwitz. Ho cambiato nome, identità. Sono stato educato da cattolico, ho anche pensato di diventare prete. Con la fine della guerra, e la scoperta di quello che era successo in Europa, è iniziato per me un lento processo di riavvicinamento alla mia famiglia, alle origini, a quello che ero stato. Sono diventato sionista, a 15 anni combattevo per l'indipendenza di Israele. La memoria, per me, è stata allora anzitutto questo: un modo per ricatturare gli elementi diversi e contraddittori della mia esistenza. Nella vita ho poi fatto lo storico. Non lo storico di un periodo qualsiasi, bensì del nazismo e degli ebrei durante il nazismo. Mi sono trovato in una situazione particolare. Da storico, ho studiato un mondo di cui ero stato testimone e sopravvissuto. È stato, anche questo, probabilmente, un modo per fare i conti con la memoria. Il mio modo. In questi anni ho incontrato molti sopravvissuti alla Shoah. Ho parlato con loro, ho letto le loro cose. Le storie che raccontano sono diverse, ciò che è spesso simile è la tendenza a narrare in modo molto standardizzato, organizzato, Come se stessero recitando. Lo noti seguendoli negli incontri pubblici, nelle scuole, durante le interviste. L'esperienza della Shoah è diventata narrazione, la memoria si è fatta rappresentazione, necessaria per sopprimere la pena, il dolore, il senso di colpa, il disgusto per essere stati assimilati a un'esperienza così umiliante. Attraverso il racconto dei sopravvissuti, ci si rende conto di come ogni memoria sia una costruzione retorica, narrativa, pragmaticamente utile per noi e per gli altri, necessaria ai vivi, ancor prima che al ricordo dei morti. Succede poi che se ti spingi un po' più in là con le domande, come per esempio ha fatto Claude Lanzmann nel suo documentario (Shoah) , l'edificio costruito in tanti anni crolla, e arrivi ai ricordi più profondi e strazianti. Il mestiere di storico è stato così il mio modo di rappresentare e oggettivizzare quell'esperienza. In quanto storico, però, ho dovuto prendere le distanze dalla memoria, riconoscerla appunto come fenomeno costruito socialmente. Non dimentico mai quanto scritto da Eric Hobsbawm dei periodi storici molto vicini a noi. Lui parla di una zona "di penombra", in cui la conoscenza, la ricerca della verità, è inseparabile dal ricordo e dal coinvolgimento personale. E quindi del tutto illusorio pensare che la storia sia uno studio, un'osservazione totalmente neutra del passato. Quando hai a che fare con vicende che hanno una risonanza ancora così forte nella vita delle persone, c'è un inevitabile intreccio della dimensione personale e di quella scientifica. Se lo storico non è consapevole di ciò, se pensa di essere un osservatore oggettivo, fa un errore clamoroso. Il mio lavoro di storico mi ha quindi insegnato un’altra cosa: diffidare della memoria, anche della mia memoria. In quanto rappresentazione, la memoria, anche quella della Shoah, non è poi mai neutrale. Serve sempre a qualcosa, è un atto che si sancisce tra vivi. In Europa, per esempio, la memoria della Shoah è stata a lungo repressa. C'era, ovviamente, la vergogna del coinvolgimento delle società europee in un crimine di massa. Ricordo che da studente, in Francia, leggevo la storia di Vichy di Robert Aron, e mi sorprendeva il fatto che in quelle pagine la deportazione fosse un dettaglio quasi senza importanza. C'era la necessità di ricostruire una comunità alleggerendosi di quel male. Qualcosa di simile, a livello di rimozione, è successo anche in Olanda. In Israele invece il processo è stato contrario. Ovviamente, e per definizione, la memoria è centrale nella nascita dello stato d'Israele. Anzi, la memoria è Israele. Il ricordo della Shoah si è inevitabilmente intrecciato con il simbolismo nazionale e nazionalistico, quello della catastrofe e della successiva redenzione attraverso la nascita dello stato. Dell'Olocausto è stato enfatizzato soprattutto il momento della resistenza armata, la lotta dei combattenti del ghetto, ciò che poteva offrire agli ebrei israeliani un meccanismo di identificazione, la possibilità di ricostruirsi un'identità collegata a una memoria forte ed eroica del passato, agli orgogliosi israeliani, non passivi, combattenti, che hanno difeso sino all'ultimo le loro vite e i loro cari. Non c'è stata rimozione, come in Europa, ma c'è stata l'enfatizzazione di elementi importanti ma comunque non centrali all'esperienza della Shoah, la cui essenza sta nell'eliminazione fisica di milioni di individui grazie a una macchina di sterminio diretta contro una componente della propria società. È questo elemento che, ancora oggi, mi fa restare piuttosto perplesso di fronte alle celebrazioni del giorno della memoria. Temo che la ritualizzazione finisca per sottrarre molto del significato della cosa,la svuoti del suo contenuto emotivo. Celebrare il giorno della memoria diventa una sorta di tentativo standardizzato da parte quelle generazioni più giovani di richiamare qualcosa che stinge nel passato. Temo che si perda molto del contenuto originario. Non è un caso che solo oggi, in cui la memoria si fa celebrazione, rito, l'Europa riscopre le proprie colpe. In Francia, addirittura, il giudizio storico si è ribaltato. Ora è la sorte degli ebrei a fornire il criterio di giudizio storico su Vichy. Il rito è memoria privata di dolore, il rito svuota un evento della sua carica negativa, destabilizzante, il rito ristabilisce un equilibrio perché la società possa andare avanti. Ed è paradossale che mentre l'Europa riscopre questa memoria formalizzata, Israele se ne allontana, con le nuove generazioni sempre meno colpite, coinvolte dall'evento, con una coscienza nazionale che ormai si costruisce attraverso altre strade. La memoria, infine, può essere anche un peso. E ciò che definisce la nostra identità, che ci fa essere quello che siamo, che ci ancora implacabilmente alla nostra condizione. Per questo, in alcuni casi, vale l'imperativo a dimenticare. Sarebbe molto comodo, e utile. Ma non succede quasi mai. (Testo raccolto da Roberto Festa)
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Così
la mia generazione ha vissuto quella vergogna
Il
ricordo di Carlo Azeglio Ciampi
Roma - Le leggi razziali furono «una vergogna», il nazifascismo una «aberrazione». «I principi della nostra Costituzione non sono documenti del passato». Con queste parole Carlo Azeglio Ciampi ha celebrato ieri il giorno della memoria. La storia dell'Italia repubblicana democratica trova le sue radici nella reazione a quegli orrori. ha spiegato il capo dello Stato di fronte ad alcune centinaia di studenti romani, che quest'anno hanno visitato i campi di sterminio di Auschwitz insieme al sindaco Veltroni. «La mia generazione ha vissuto la vergogna delle leggi razziali, la violenta aberrazione del nazifascismo, le distruzioni e la tragedia della guerra», ha detto il presidente. Poi, però. «abbiamo conquistato la straordinaria gioia del riscatto e della liberazione della Patria». Ne discende che ancora oggi possiamo dire che «i principi della nostra Costituzione non sono documenti del passato. Sono fondamenta morali del patto per la nascita di un sistema di convivenza in cui tutti possano riconoscersi ed identificarsi». La memoria è «il filo conduttore che lega le generazioni, tracciando un percorso nella coscienza collettiva che insegni il ripudio dell'indifferenza e di ogni forma di estremismo». Il ricordo della Shoah diviene monito per tutti a «difendere con immutato vigore l'uguaglianza, le libertà individuali e civili, la solidarietà, la partecipazione».
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A
Berlino un
libro di pietra
di
Giorgio Agamben
A
Prima vista il Denkmal ricorda le stele arcaiche cinesi, che si
drizzano isolate o a piccoli gruppi in mezzo al paesaggio sterminato. Ma le
stele cinesi portano sempre un'iscrizione. Qui le stele sono assolutamente
illeggibili, pagine immense in cui ogni scrittura - ogni lettura - è
impossibile. Nel medioevo la memoria è spesso paragonata a un libro. Dante,
all'inizio della Vita nuova, scrive: “in quella
parte del libro della mia memoria in cui poco
si potrebbe leggere…”
Nel libro pietrificato della memoria di Eisenman non si può leggere nulla.
Eppure chi cammina tra le stele diversamente inclinate, seguendo l'alterno
salire e discendere del suolo, sente di accedere a un'altra dimensione della
memoria, di stare sfogliando le pagine di un altro libro. Mentre il suo piede
esita sulle minuscole stele appiattite di cui è fatto il pavimento, mentre lo
sguardo si perde lungo le brune, interrotte pareti delle stele verticali, egli
esce a poco a poco dalla memoria che si può scrivere e archiviare per entrare
nell'Indimenticabile. Memorabile e Indimenticabile non sono la stessa cosa. Uno
dei grandi meriti del Denkmal di Eisenman è di ricordarci che ciò che
è veramente indimenticabile non può essere affidato ad alcun archivio, che,
nella memoria degli individui come in quella delle società, la parte
dell'indimenticabile eccede di gran lunga la pietà della memoria volontaria.
(da “Shoah” Percorsi della memoria in uscita da Cronopio)
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L’islamismo
che nega l’Olocausto
Parla
lo studioso Wistrich
di
Susanna Nirenstein
Noi
siamo qui ad onorare il Giorno della Memoria della Shoah mentre nel mondo
islamico risuona un motivo ricorrente: l’Olocausto è un mito, come ha appena
detto il presidente dell’Iran Ahmadinejad.
Professor Robert Wistrich, lei che il direttore del Centro internazionale Vidal Sassoon per la ricerca sull’antisemitismo all’Università ebraica di Gerusalemme e ha scritto numerosi libri sull’universo musulmano, ci spiega cosa c’è dietro questa affermazione?
«Innanzitutto
non è un fenomeno nuovo. Un capitolo di un mio libro di 20 anni fa Da Hitler
alla guerra santa sottolineava come l’Iran avesse adottato una ideologia
antisemita radicale: le sue ambasciate dovunque distribuivano libretti basati
sui Protocolli dei Savi di Sion il cui messaggio forte era la
cospirazione ebraica per dominare il mondo. La negazione della Shoah era un
elemento già presente».
Cosa
lega la teoria della cospirazione al negazionismo?
«L’idea
che gli ebrei sarebbero così potenti e avrebbero un tale controllo dei media da
convincere tutti di una cosa enorme mai successa. Non solo potenti, ma
manipolativi, ingannatori, assetati di denaro e di sangue, tentacolari … non
ci sarebbe limite alla loro malvagità. Infatti, accanto alla teoria che la
Shoah sia un falso (usato per terrorizzare gli intellettuali e i politici
mondiali, e per ricattare le assicurazioni tedesche), c’è quella secondo cui
i sionisti avrebbero collaborato con i nazisti all’Olocausto: perché
l’antisemitismo, anche se sacrificava alcuni ebrei, avrebbe spinto gli altri a
raggiungere la Palestina. Due teorie parallele».
Immagini che demonizzano gli ebrei.
«Sì,
e sono vivissime nell’Islam: sono le stesse che accusano il Mossad di essere
l’autore dell’11 settembre, o i soldati israeliani di distribuire caramelle
avvelenate ai bambini palestinesi, di rubargli gli occhi per trapiantarli sugli
ebrei, o di mandare prostitute malate ad infettare i paesi islamici, di
preparare le azzime con il sangue di giovani musulmani. Dire che Israele è
nazista ormai è uno stereotipo, e ogni tanto l’adottano anche gli europei.
Per questo cancellare Israele dalla faccia della terra è un auspicio normale
nel mondo islamico: ormai mi chiedo come mai l’affermazione di Ahmadinejad
abbia fatto tanto scalpore in Europa».
Vuol
dire che non è un caso isolato?
«Hanno
detto cose simili il Mufti di Gerusalemme, decine di articoli sui giornali
egiziani, siriani, giordani, libanesi, tanto il negazionismo quanto i Protocolli
dei Savi di Sion sono contenuti nello status di Hamas. Sulle tv
mediorientali sono andati in onda serial sui Protocolli, o sulla diabolicità
dei primi sionisti, Herzl in testa… No, non è più una questione di leader,
sono società ormai avvelenate dall’odio per gli ebrei e l’America, e la
struttura mitologica di questo pensiero antisemita è virtualmente identica a
quella dei tempi del III Reich».
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L’odissea
di un bambino
“L’Olocausto
visto dal piccolo Gyuri”
Esce
“Senza destino” di Lajos Koltai dal libro in cui Imre Kertész racconta la
sua storia – Abbiamo incontrato a Berlino lo scrittore premio Nobel per la
letteratura nel 2002 –“In Germania e Ungheria ho visto il peggio delle
dittature. Auschwitz è stato un punto zero largamente annunciato”
di
Maria Pia Fusco
Berlino
- «Non abbiamo fatto un film sull’Olocausto, abbiamo solo raccontato la
storia di un ragazzino, lo abbiamo seguito con la curiosità di vedere quello
che gli succede. E le cose che gli succedono suscitano la domanda
dell’impossibile risposta: com’è potuto accadere tutto questo?», dice
Lajos Koltai a Roma per parlare di Senza destino, il film che esce oggi in
Italia e che già aveva colpito e commosso critici e pubblico del festival di
Berlino, dove vive da anni lo scrittore Imre Kerész premio Nobel 2002, autore
del libro da cuci il film è tratto. Ed è lui, Kertész, il ragazzino Gyuri
protagonista del film. È la prima volta che lo scrittore, che firma anche la
sceneggiatura, affronta il mondo del cinema, che definisce «circo allegro,
senza la malinconia dei clown», nel quale si muove spaesato, con la sua bella
testa di radi capelli bianchi lunghi, il fisico appesantito, gli occhi azzurri
ironici e gentili, lo sguardo spesso distante.
«Scrivendo
la sceneggiatura» dice «ho cercato di mettere da parte i sentimenti personali,
mi sono avvicinato a Gyuri come se fosse un estraneo. Il film è diventato
diverso dal romanzo, mancano molte situazioni, ma posso garantire che tutto
quello che si vede sullo schermo rispecchia la realtà che ho vissuto».
E
si riconosce nel ragazzino che cerca di trovare il bello e momenti di
“felicità” in mezzo all’orrore?
«In
realtà, più che riconoscermi, scopro un comportamento del quale allora non ero
affatto consapevole, è la stessa sensazione che provai rileggendo il libro dopo
qualche anno, solo che le belle immagini la rendono più forte. Allora cercavo
solo di sopravvivere, come tutti. Non ho raccontato questa storia attraverso gli
occhi di un ragazzino perché allora avevo 14 anni, ma perché in una situazione
come quella e sotto qualunque dittatura tutti tornano bambini, non c’è
possibilità di scelta, si arriva al degrado della volontà e della coscienza.
Per sopravvivere si può solo collaborare con il potere, più o meno
consapevolmente. Ed è questa la cosa più tremenda: collaborare con chi sta
distruggendo la tua umanità».
Perché
ha scelto di vivere in Germania?
«Per
me Berlino o Budapest sono la stessa cosa. Anzi, la Germania sta cercando di
fare i conti con il suo passato, lo fa la letteratura, il cinema, qualcuno dei
politici. A Budapest ho vissuto per quarant’anni come un recluso, senza
passaporto, senza libertà di movimento. Ho potuto assaporare il peggio delle
dittature: i miei nonni materni sono morti durante l’Olocausto, quelli paterni
hanno distrutto le loro vite sotto lo stalinismo. Del resto non ho mai
considerato l’Olocausto solo un problema che riguarda i tedeschi e gli
ebrei».
Può
spiegare meglio?
«io
credo che l’origine dell’Olocausto sia in un ambiente culturale europeo e
cristiano, non solo tedesco. Auschwitz è stato il punto zero, ma non è un
evento inaspettato e inspiegabile, è accaduto perché si erano create certe
condizioni nel modo di vivere diffuso. Tutte le dittature europee del ventesimo
secolo vengono da quella cultura e da quegli ambienti».
Come
considera le ondate di antisemitismo in Europa?
«Non
bisogna confondere l’antise mutismo dalla critica alla politica di Israele. Ma
essere ebrei e vivere fuori da Israele è comunque una sfida. C’è un curioso
rapporto automatico tra i momenti di crisi economica e l’ansia di trovare un
colpevole. Qui in Germania tornano i simboli nazisti e l’antisemitismo,
altrove i colpevoli si identificano in chi ha un diverso colore di pelle. Ma non
credo che in Europa possa tornare una dittatura. Grazie all’Olocausto. Esiste
ormai una cultura dell’Olocausto, ha creato un posto nella cultura europea da
cui non si può prescindere».
Come
si è liberato dal peso del passato?
«Non
lo so, so che ho vissuto una lunga vita e già questo mi sembra incredibile.
Paradossalmente il passaggio da Buchenwald a Budapest sotto lo stalinismo, quasi
una continuazione della prigionia, mi ha aiutato. Non ho avuto il trauma della
libertà, ho dovuto continuare ad arrangiarmi per sopravvivere. Come ci sono
riuscito non so. Perciò ho fatto lo scrittore, per cercare risposte. Non le ho
ancora trovate».
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Il film
La
tragica cronaca del ritorno dal lager
L’ungherese
Lajos Koltai al debutto come regista
L’esperienza
diretta dell’Olocausto e le condizioni in cui successivamente Imre Kertész ne
ha fatto l’argomento centrale della sua opera letteraria sono, come lui ha
detto, intimamente connesse. Ebreo nato a Budapest nel 1929, deportato
adolescente ad Auschwitz nel 1944 (solo durante l’ultimo anno di guerra furono
massacrati 600 mila ebrei ungheresi) e liberato a Buchenwald nel 1945, Kertész
avrebbe avuto vita dura al ritorno nel 1948 in quella che con naturalezza
considerava la patria sua e della sua famiglia, l’Ungheria diventata intanto
comunista. Solo nel 1975, dopo essere lungamente vissuto traducendo dal tedesco
(Freud e Nietsche, Roth e Schnitzler), riesce a esordire pubblicando il romanzo
“Essere senza destino” (in Italia da Feltrinelli) ma il romanzo deve
aspettare una quindicina d’anni per essere riconosciuto nel suo valore e lo
scrittore deve aspettare il 2002 per ottenere il massimo riconoscimento: il
Nobel. Il film di Lajos Koltai (debuttante come regista, già direttore di
fotografia di grande livello: per esempio di Tornatore per “La leggenda del
pianista sull’oceano”) sceglie uno sguardo giustamente attonito, impassibile
perché le cose, i volti, le situazioni parlano da soli, per trasferire sullo
schermo l’autobiografica odissea di Gyuri: tra i rituali familiari anteguerra
di un tradizionalismo ebraico indifeso e inconsapevole, quelli della quotidiana
sopravvivenza nel lager, e l’infastidita indifferenza che il ragazzo con la
divisa a strisce e il marchio sulla pelle trova tornando a casa. (Paolo d’Agostini)
la
Repubblica, 27 gennaio 2006
Uscita Laterale - Memorie
nel bunker
di
Franco Marcoaldi
Niente
come lo sguardo di un bambino è capace di denudare l'intollerabile protervia
del potente. E tanto peggio se si tratta di un dittatore prossimo alla rovina:
quello sguardo sarà ancora più lucido e impertinente. Basta leggere lo,
piccola ospite del Führer di Helga Schneider (Einaudi) per rendersene
conto. L'amata autrice del Rogo di
Berlino ci riporta ancora una volta alla sua infanzia; più precisamente
all'inverno 1944-45, mentre vagola in una capitale ridotta a un susseguirsi
di rovine, incendi e cadaveri abbandonati sulle strade. Preda come tutti dei
morsi del gelo e della fame, la piccola Helga fa parte - assieme al fratello
Peter - di
un gruppo di bambini che avranno il "privilegio" di accedere al
bunker hitleriano per incontrare il Führer di persona. I due non sono
minimamente interessati a tale incontro; in compenso li attrae, e molto, la
possibilità di potersi finalmente riempire lo stomaco con un piatto di
salsicce. Anche se il luogo - «un
angusto dedalo di morte» - è davvero
terrificante. E la Schneider ne restituisce con commossa puntualità l'atmosfera
plumbea e opprimente: la luce spettrale dei lunghi corridoi, l'odore nauseante
di muffa e diesel che pervade l'aria e prima ancora l'agghiacciante stupidità
di chi lo abita. Valga per tutti l'episodio dei bambini piazzati sotto lampade
al quarzo per evitare a Hitler la visione di volti smunti, esangui. Finché,
arriva il momento tanto atteso. Eccolo dunque, il Führer del Terzo Reich. Ma è
così diverso da come Helga l'aveva immaginato: la mano sudaticcia e dalla
stretta molle, le guance flosce, «il passo lento e strascicato, le spalle
curve, il braccio sinistro rigido come se fosse di legno e un vistoso tremolio al capo. Non posso crederci!
Sarebbe questo il Führer della Germania?».
la Repubblica, 4 febbraio
2006