la Repubblica
Rifugiati
all’inferno
La
storia dell’ospedale ebraico nel cuore della Berlino nazista – Lo trovarono
i soldati dell’Armata Rossa alla liberazione, e non volevano credere che
quegli 800 tra infermieri, medici e malati fossero davvero ebrei
di
Susanna Nirenstein
I
soldati dell'Armata Rossa non
volevano crederci: dopo giorni di battaglia, il 24 aprile del 1945, entrati tra
le mura di un massiccio edificio ospedaliero, nel cuore di Berlino, nell'lranische
Strasse, si videro attorniati da medici, infermieri, malati, impiegati,
orfani e tutti continuavano a ripetergli «questo è un ospedale ebraico»:
impossibile, si dissero le truppe, e pensarono che fossero dei nazisti
travestiti: fu dura accettare la storia che raccontavano. Eppure erano davvero
ottocento ebrei vivi e organizzati nel bel mezzo del III Reich, nella capitale
che Goebbels aveva dichiarato judenrein, ripulita dagli ebrei, nel
1943. Non erano gli unici superstiti, e n'erano altri 5000 circa, ma nascosti
nel sottobosco: questi 800, invece erano stati alla luce del sole, in
un'istituzione costruita dalla Comunità ebraica nel 1913. La strana faccenda
dell'lrantsche Strasse non è sconosciuta agli studiosi nel nazismo, ma
nessuno l'aveva indagata, quanto ha fatto ora Daniel B.Silver, ex
consulente
della National Security Agencye della Cia, dopo venti anni di ricerche e
interviste, con il suo Rifugio all'inferno. L'incredibile storia
dell'ospedale ebreo di Berlino (Marsilio, pagg. 340, euro 19). Come
era potuto succedere? In quel
casermone c'era anche un centro di deportazione, un ufficio della Gestapo, un
settore dell'ospedale della Wermacht: non era tutto troppo assurdo? Chi erano
quegli ebrei stipendiati o curati a pochi passi dalla Porta di Brandeburgo?
Per la stragrande maggioranza si trattava di persone che avevano contratto
matrimoni misti o ne erano figli e nipoti. Insieme a loro un gruppo di bambini
abbandonati con diversi gradi di "ebraicità", alcuni personaggi
protetti da qualche gerarca, e anche degli stranieri da scambiare con
prigionieri tedeschi. E già questo era un miracolo. Ma c' erano anche ebrei
"puri", 162 per la precisione, e avevano scampato lo sterminio fuori
dai nascondigli: personale, ricoverati (malati veri e finti), tra cui anche
alcuni che avevano avuto bisogno di cure mentre erano nelle mani della polizia,
della Gestapo o delle SS, magari in uno dei Sammellager dove sostavano in
attesa di deportazione fino a che non fossero un numero sufficiente a
riempire un convoglio della morte. Perché i tedeschi tenevano in piedi
un ospedale ebraico nonostante la soluzione
finale fosse già in atto? Perché vi ricoveravano anche i tanti
suicidi che non riuscivano fino in fondo a mettere fine alla propria vita?
Domande impossibili nel regno del male. In linea di massima per pura burocrazia,
perché questa era la prassi prevista prima e non "smontata" dopo il
‘41, né dopo il ‘43 quando le autorità si presentarono al direttore
dell'ospedale Lustig e gli
chiesero di compilare un elenco di persone da spedire all'Est: doveva dimezzare
i presenti, tra medici, infermieri, malati, così come in seguito gli chiesero
molte altre volte. E lui lo fece, fino al 27 marzo ’45, ultima deportazione,
a un mese dalla libertà. Silver, l'autore, parla anche di motivi interni alle
rivalità tra Gestapo e Rsha, l'ufficio per la Sicurezza del Reich
responsabile anche dell'esecuzione della soluzione finale. Ma c'è da
considerare contemporaneamente la doppia traccia seguita dai nazisti durante
tutto lo sterminio, portato a termine con determinazione sì, ma mai proclamato
ufficialmente, sempre attuato con un vago velo di copertura per evitare troppe
reazioni internazionali, scene di panico, o sommosse: quell'ordine ai futuri
deportati di portarsi dietro i bagagli non serviva forse per lasciare una
ingannevole residua prospettiva di futuro? La doppia traccia, dunque. Non è
un caso che nell'ospedale siano finiti tanti e tante di quelli che erano
stati richiusi nel Sammellager di Rosenstrasse, gli unici per cui ci fu
una grande sollevazione pubblica di massa, la Frauenprotest, organizzata
dalle mogli "ariane" di ebrei e dalle madri "ariane" dei mischling
(sangue misto), improvvisamente catturati nei loro luoghi di lavoro
obbligatorio e concentrati dopo il grande raid (la Frabrikaktion) del 27
febbraio '43: fino a quel momento il Reich era stato più che restio a toccare
le famiglie "ibride", temeva una rivolta: che in effetti ci fu e
ottenne, almeno parzialmente, dei risultati bloccando parte degli invii
verso i campi. Allora, se i tedeschi avessero reagito... Ad ogni modo, il Krankenhaus
der Jüdischen Gemeinde (Ospedale della Comunità Ebraica), come stava (e
sta) ancora scritto sul suo portale, era rimasto in piedi, e funzionava. La vita
al suo interno era stremante: ognuno sentiva che poteva essere l'ultimo
giorno di vita: i soprusi, le fucilazioni sommarie, i convogli erano sotto i
loro occhi. Ma il lavoro andava avanti, e così i tradimenti e le relazioni
amorose, le pazzie: basterà ricordare quella delle infermiere Ruth e Lotte, e
non erano le sole, che ogni tanto andavano in giro senza la stella gialla,
entravano da un parrucchiere o addirittura a bere un bicchiere all'Hotel Adlon,
il preferito dai gerarchi nazisti. Potere della disperazione e della gioventù.
La vita nell'ospedale era durissima: spazi sempre più ridotti, cibo scarso,
pochi medicinali, terrore. Tutto diceva che la fine poteva essere vicina. Nel
'39 dalla Germania erano emigrati circa due terzi dei 500.000 ebrei presenti nel
'33. Nel ‘41, nel paese erano rimasti in 167.000, di cui 72.000 a Berlino: nei
reparti ferveva un'attività continua, sia per quanto erano peggiorate le
condizioni
di salute dei membri della comunità, sia perché l'istituto rimaneva l'unica
istanza sanitaria ebraica disponibile in tutta la nazione. Sottoposto al
controllo dell'Rsha e della Gestapo, la sua sopravvivenza ne era anche
in qualche modo garantita, con rifornimento di medicine, gestione del personale,
bilanci... gestiti dall'interno, gli atti passavano tutti attraverso gli alti
comandi nazionalsocialisti. Gli invii degli ebrei ad Est erano però evidenti:
i convogli, ognuno dei quali con circa un migliaio di persone, lasciavano
Berlino al ritmo di circa uno alla settimana, e dal ‘42 in poi all'ospedale
non solo fu chiesto di preparare i panini da distribuire ai deportati mentre erano
nel Sammellager ma di fornire
un'unità di pronto soccorso, medici e infermieri, per l'intero viaggio: nessuno
di loro tornò mai indietro. Una presenza che mascherava il vero scopo delle
partenze verso la morte facendole passare per un programma di
insediamento, e contribuiva a mantener
docile la folla. Un
ebreo troppo malato, comunque, non veniva fatto partire. E lo stesso valeva per
il lavoro obbligatorio: se inabile, doveva essere ricoverato. Come si
comportava lo staff medico a riguardo? Proteggeva i correligionari, o
collaborava? «Non ho mai visto fare nessuna irregolarità» si vanta ignara,
a quanto sembra, della natura infernale del compito, Hildegarde Henschel, una
delle collaboratrici del direttore; il famigerato doktor doktor Lustig,
come amava farsi chiamare, col doppio titolo per la doppia laurea conseguita.
Hilde Kahan, la sua segretaria, ricorda però anche quanto l'ufficio fosse
oberato dal lavoro per via della disperazione in cui erano piombati gli ebrei
berlinesi col procedere delle deportazioni: in moltissimi presentavano una
domanda
di esonero dalla partenza. I principi stabiliti per le posticipazioni erano
rigidi, e, se lo staff medico ebraico raccomandava un ricovero veniva
richiesto un secondo parere a dottori "ariani". Col diminuire delle
speranze di evitare i lager, aumentarono i suicidi: nel ’42-‘43
raggiunsero la cifra di 7.000, un quarto dei decessi totali degli ebrei.
Lustig voleva attenersi alle regole. Era la sua natura. E obbediva
per non essere eliminato lui stesso.
E poi la sua stessa nomina a direttore (mentre era già responsabile sanitario)
odorava di peccato: aveva infatti preso il posto del dottor Schönfeld che,
selezionato per i lager dallo Sturmbahnführer delle SS Gunther, si era
suicidato con la moglie: gli altri dell'ospedale destinati a quel convoglio,
su ordine nazista, erano stati scelti direttamente da Lustig. Tuttavia,. secondo
alcuni, quell'uomo almeno a volte distorse le procedure in modo da salvare dei
compagni di sventura. E' comprovato che nell'ospedale si
fecero interventi chirurgici falsi o
non necessari ad esempio. Così come si sostituirono analisi mediche
con altre che attestavano malattie
gravi. Qualcuno, preavvertito della partenza, si dette alla macchia. La
domanda è se Lustig vada accostato ai rappresentanti degli ]udenrät dei
ghetti che si macchiarono di collaborazioni: quelli messi sotto accusa in primo
luogo da Hannah Arendt in Eichmann a Gerusalemme quando scriveva «se
gli ebrei non avessero collaborato con le autorità
amministrative e con la polizia... i casi
sono due: o si sarebbe finiti nel caos più completo, oppure i nazisti avrebbero
potuto sottrarre un'ingente quantità di manodopera da destinare a questa
mansione». Eppure è lo stesso Silver ad avere dei dubbi sulla colpevolezza
di Lustig, che fu comunque prelevato da una macchina del comando sovietico
poco dopo la liberazione, a giugno, e sparì, eliminato dall'Armata Rossa
senza alcun processo. Innanzitutto, ricorda Silver, Lustig, che si era
battezzato e aveva una moglie "ariana", soffriva delle stesse
privazioni degli altri ebrei tedeschi, niente macchina, radio, trasporti
pubblici, stella gialla sempre ben in vista: non riuscì neppure ad evitare la
deportazione del padre. Il personale lo temeva, alcuni dicono più della
stessa Gestapo. Secondo Silver però non abusò mai del potere che aveva: se
mandò centinaia di persone alla morte, ne salvò altre centinaia convincendo la
Rsha che era un buon dipendente e che dovevano fidarsi di lui. Alla fine della
guerra, senza alcuna consapevolezza del ruolo quanto meno ambiguo che aveva
svolto, si propose ai sovietici come punto di riferimento per ricostituire la
comunità ebraica. Walter Laqueur, che ha letto il libro e l'ha recensito su Forward,
non ha dubbi invece: Lustig aveva oltrepassato i limiti dell'autodifesa e
aveva stretto un patto col diavolo. Con tutto ciò, in quel perimetro grigio
sulla Iranische Strasse, nel cuore pulsante del Reich, si salvarono 800 ebrei:
quasi tutti emigrarono in America.
la
Repubblica,
23 gennaio 2006