la Repubblica

Cefalonia la resistenza e la sinistra

La Strage dei soldati italiani. A proposito di un intervento di Mario Pirani - Nel 1941 le forze dell'Asse invasero la Grecia. Le isole joniche erano presiedute dalla divisione italiana Acqui. L'8 settembre '43 i tedeschi rivolsero agli ex-alleati un ultimatum: restare a fianco del Reich o consegnare le armi. A Cefalonia e a Cefalù nella truppa e tra gli ufficiali maturò un rifiuto della resa. I tedeschi uccisero prima in battaglia, poi mediante fucilazione 9500 soldati italiani su 11500, e 390 ufficiali su 525.

di Gian Enrico Rusconi

Caro Direttore, sono grato a Mario Pirani delle osservazioni critiche fatte al mio libro su Cefalonia nella sua rubrica "Linea di confine" del 13 u.s. («Quelli di Cefalonia eroi o "tutti a casa"»). Se mi permetto di replicare, non è per contestare questo o quel giudizio sul mio lavoro, ma perché il tema Cefalonia va ben oltre l'orizzonte di una disputa storiografica. Del resto è questo il motivo per cui ho sentito il bisogno di riflettere su quell'episodio, rileggendo la documentazione originaria, ma tenendo ben presente la «politica della storia» che accompagna tutta la sua interpretazione. Inizio dal titolo dell'articolo che imposta male il problema. «Tutti a casa» infatti è diventata un'espressione spregevole e umiliante. Dire quindi che soldati della Acqui volevano «tornare a casa» getta già il sospetto di una gratuita diffamazione di quei giovani valorosi. Invece è da qui che bisogna cominciare: per capire le iniziali trattative con i tedeschi intraprese dal comandante Antonio Gandin - esse, sì, diffamate a torto come segno di codardia o tradimento. invece come mostrano i documenti sia anglo-americani che italiani (che pure rivelano una sconfortante confusione), il rientro in patria era previsto dagli accordi. Ritorno, con le armi, certo. Questo è il punto qualificante, per l'onore militare, prima di ogni ipotesi di scontro con i tedeschi. Qui si inserisce la seconda considerazione. Il rifiuto della Acqui di cedere alla imposizione di disarmo dei tedeschi è un atto di «resistenza militare». In questo senso rientra legittimamente nel concetto allargato di Resistenza che oggi finalmente si riconosce. Ma la motivazione anti-tedesca a Cefalonia non ha le connotazioni di quella dei piccoli gruppi militari resistenti nella Madrepatria. Lo confermano le testimonianze del comportamento degli ufficiali del comando, che hanno posizioni molto diverse anche se alla fine assolutamente solidali. Tanto meno la resistenza della Acqui ha il carattere «partigiano» che le si sarebbe incautamente attribuito dopo. A questo proposito Pirani scrive risentito «chi mai lo ha sostenuto?». Nel mio lavoro documento la persistenza di questa interpretazione ideologica di sinistra, che puntualmente ha provocato reazioni di segno opposto altrettanto ideologiche. Se si correggono queste letture specularmente parziali, si arriva alla conclusione che la «resistenza militare» ha una sua logica specifica, diversa da quella civile e politica. In questa ottica vanno ridimensionati e rivisti alcuni episodi considerati sinora qualificanti di Cefalonia come «il referendum» con il quale i soldati della Acqui sarebbero stati consultati prima di decidere la battaglia. Non c'è dubbio che il comandante Gandin, un militare riflessivo e sensibile, abbia ordinato una sorta di consultazione di alcuni reparti. Ma si trattava di una operazione di sensibilizzazione della truppa, in una situazione di emergenza, non di un segnale di «democrazia militare», come si sarebbe detto in seguito. Il tragico paradosso in cui si trova Gandin è che mentre i suoi soldati (quanto meno i reparti-guida vogliono combattere, lui è consapevole della prospettiva militare disperata, in assenza di comunicazioni tempestive e responsabili del Comando supremo di Brindisi. Qui sta il vero dramma di Cefalonia: impazienza di soldati generosi, impotenza e irresponsabilità dei vertici militari in Patria e indifferenza degli Alleati. Per chiudere. Non so a chi si riferisca Pirani quando parla di irrisione verso la fiera risposta di Gandin ai tedeschi: «Per ordine del comando supremo e per volontà degli ufficiali e dei soldati, la divisione Acqui non cede le armi». Irridente non è certamente chi scrive, che si è fatto un'idea molto alta di questo singolare militare. Il guaio è che la bellissima frase di Gandin ora riportata è probabilmente spuria. Infatti nella precisa documentazione tedesca su Cefalonia c'è un altro documento che dice le stesse cose ma con un linguaggio assai più sobrio. Ma non importa: l'onore e l'esempio della Acqui non hanno bisogno di ritocchi letterari o ideologici. Questo è il senso della mia ricerca. 

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Una versione inaccettabile

La replica/La relazione Picozzi e l'intervento di Ciampi

di Mario Pirani

Rusconi sostiene che sua intenzione è stata quella di contestare l'interpretazione ideologica di sinistra, che avrebbe caricato Cefalonia di significati eccessivi, provocando reazioni di segno opposto, altrettanto ideologiche. Non è così; come lo stesso Rusconi documenta nel suo saggio solo il governo Parri, primo governo della Liberazione, assunse Cefalonia a esemplare paradigma patriottico, con una dichiarazione ufficiale (13 settembre 1945) in cui si afferma che «la Divisione Acqui rappresenta la continuità tra l'epopea della prima Guerra mondiale e l'attuale guerra di Liberazione» L'organo del Pci, nello stesso periodo (Unità, 21 settembre '45), non si appropria affatto dell'evento e non dice che quelli della Acqui siano stati «partigiani» ma che quella divisione «è stata d'avanguardia su tutte le formazioni partigiane». Purtroppo questa giusta lettura degli eventi, collegata al periodo iniziate (dal governo Badoglio al governo Parri) della politica di unità nazionale perseguita da Togliatti, fu presto abbandonata. Per decenni la storiografia di sinistra, quasi nella sua totalità, e i riti celebrativi ad essa ispirati (25 aprile, Fosse Ardeatine, Marzabotto, ecc.) lasciarono cadere in secondarissimo piano Cefalonia e l'insieme degli episodi in cui rifulse, dopo l'armistizio, la volontà di combattere e di resistere dei militari italiani sopravvissuti allo sfascio dell'8 settembre (dall'Egeo alla Jugoslavia, da Barletta a Piombino alla Corsica, fino al rifiuto di aderire a Salò dei 600.000 rinchiusi nei lager). E si capisce perché: si preferiva la vulgata di una Resistenza nata da un moto popolare guidato dal Pci e dai partiti del Cln, piuttosto che farne risalire l'origine, anche temporale, alla fedeltà alla Patria e al giuramento regio di quei reparti i cui comandi non si erano dissolti. Fu un gravissimo errore che restrinse le basi politiche dello stesso patto costituzionale, nato appunto da una Resistenza simbolicamente amputata di una sua componente essenziale. A questo errore nel declassamento di Cefalonia, concepito da allora come tragica sequela dell'8 settembre, meritevole solo della pietosa commemorazione di reduci e di famigliari, si aggiunse in tempi più recenti la lettura, di stampo neorevisionistico, di quella data come «morte della patria», cui si accompagnò l'interpretazione (non quella di Claudio Pavone) del biennio '43-'45 come un'epoca di guerra civile tra due minoranze in lotta, nel contesto di una maggioranza «grigia» e neutra. Ma ancor prima, a partire dal 1948, in una stagione governativa segnata da un'aspra restaurazione anti-partigiana, accompagnata dalle preoccupazioni di smorzare ogni polemica con la Germania atlantica (vedi «armadio della vergogna» e carteggio Taviani-Martino sulla opportunità di mettere a tacere il ricordo della strage compiuta dalla Wermacht), si colloca la rimozione operata dal ministero della Difesa. Compendio di questa indegna versione dei fatti di Cefalonia è la relazione ministeriale firmata dal ten. col. Picozzi nel 1948, in cui, irridendo (a questo mi riferivo) agli episodi dove si manifestò lo spirito bellicoso dei soldati e ufficiali della Acqui, si legge: «Dal punto dì vista militare non costituiscono certo motivo di gloria.... prevale la ferma intenzione di ritornare al più presto in Italia per non combattere né con l'una né con l'altra parte... Perciò si assiste a uno strano fenomeno che si conclude con una disordinata e prevalente volontà di combattere avente per finalità la pronta liberazione dall'onere di dover combattere per chicchessia». Come fa Rusconi ad avallare questa indecente versione dei fatti? Non si tratta, come egli mostra di credere, di «dispiacere» al sottoscritto (anche se su queste colonne, fin dal 1999, ho rotto sulla questione un generale silenzio pluridecennale) ma di cogliere il senso della straordinaria operazione intrapresa da Ciampi e culminata nel suo viaggio e discorso a Cefalonia il 1° marzo 2001, operazione innanzitutto di verità storica, tesa al recupero dei valori militari e partigiani, concepiti l'uno non disgiunto dall'altro, della continuità della Patria, attraverso la temperie dell'8 settembre, del sentimento antinazista e antifascista che, proprio come conseguenza del disastro bellico, pervase in quella stagione la stragrande maggioranza dei cittadini, combattenti e no (il referendum della Acqui ne costituì una prova inoppugnabile), del rapporto che allora si forgiò e su cui si basò nel biennio successivo la stesura della Costituzione, i cui principi vengono oggi messi in discussione, non a caso, dagli eredi dell'«altra Italia» che aborrono non solo la Resistenza ma anche l'unità risorgimentale. In questo contesto si collocala polemica su Cefalonia. Altro che lettura «canonica» o, al più, «riuscita operazione di politica della storia» come recita Rusconi.

la Repubblica - 16 settembre 2004

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