la Repubblica
Gli
scheletri nell'armadio Kesselring e le stragi in Toscana
Su
15mila civili uccisi dalla Wermacht in fuga dall'Italia, 5mila furono trucidati
nella regione - Tognarini: "Non rappresaglie ma una vera strategia" - "I
colpevoli impuniti chi rifiutava rischiava la vita - "I tedeschi
combattevano la Resistenza con i massacri. - Un errore responsabilizzare anche i
partigiani - "Una richiesta al
Senato per riaprire i 695 fascicoli sui crimini di guerra della Procura generale
militare di Roma"
di
B. M.
La
Toscana ha buona memoria perché ha molto da ricordare. I suoi ebrei deportati,
i civili massacrati, le decine di stragi che nell'estate di sangue del '44 le
hanno assicurato per sempre un posto di primo piano nella contabilità
dell'orrore. "Stime molto approssimative parlano di 15 mila civili uccisi
in tutta Italia dai tedeschi in ritirata - spiega Ivan Tognarini, docente di
storia moderna all'università di Siena e direttore dell'Istituto storico della
Resistenza in Toscana - In Toscana sono quasi 5 mila: un terzo del totale. I
motivi sono di vario tipo. La fase della guerra, innanzitutto. Nell'estate del
'44, quando il fronte entra in Toscana, la Resistenza comincia a farsi sentire
in maniera decisa. D'altro canto, pur essendo sufficientemente forte da
preoccupare i tedeschi, non lo è abbastanza per imporre la sua strategia. È
per questo che i tedeschi pensano di colpire i partigiani infierendo col terrore
sui civili. In una direttiva del giugno 1944, la famosa "cambiale in bianco
il comandante dell'esercito tedesco in Italia, Albert Kesselring, ordina ai suoi
uomini di procedere in maniera spietata, garantendo l'impunità a chi eccede e a
minacciando punizioni nei confronti dei soldati troppo morbidi". Comincia
così, tra Grosseto e la Garfagnana, quella che Kesselring chiamava la
"ritirata aggressiva" e che Tognarini, nel libro che ha dedicato a
Kesselring e le stragi nazifasciste (uscito da Carocci nella primavera dello
scorso anno), definisce "la strategia del massacro. Contrariamente a quello
che si pensa - prosegue - le stragi di civili non sono casuali, ma seguono una
logica precisa. Si trovano tutte, cioè, sulle vie di ritirata della Wehrmacht:
la via Aurelia, la Cassia, e poi la linea gotica. La mente di questa strategia
è Kesselring, cosa che molti storici tendono a dimenticare. Sia chiaro, questo
non assolve nessuno, però dimenticare le responsabilità di Kesselring fa
perdere di vista il quadro d'insieme, col rischio di far passare i singoli
episodi per delle beghe di paese". Ricordare è un lavoro faticoso, che
spesso scompiglia le carte e costringe a cambiare opinione non solo sugli altri,
ma anche su noi stessi. C'è un vasto cono d'ombra che anche in Toscana
accompagna la memoria delle stragi naziste: ed è lì che si è fermato
Tognarini. "Nell'opinione pubblica si è depositata la convinzione che
delle stragi, in quanto rappresaglie, fossero responsabili non solo i soldati
tedeschi, ma anche i partigiani. È una grande mistificazione. Personalmente
rifiuto il termine "rappresaglia", che considero fuorviante. In primo
luogo, una rappresaglia dovrebbe colpire i responsabili dell'atto, al limite le
autorità preposte al mantenimento dell'ordine, non dei civili innocenti. Ma c'è
di più: in molti casi, il più noto è Sant'Anna di Stazzema, non si capisce
quale sia l'azione partigiana all'origine della strage. I tedeschi non facevano
rappresaglie, mettevano in atto una strategia di massacri già sperimentata in
altri paesi europei". Tutto questo nel 1946 era chiarissimo. La "ridislocazione
della colpa", come la chiama Tognarini, avviene più tardi. "Nel
dopoguerra vengono fatti i processi ai criminali di guerra. Quello a Kesselring,
in particolare, avrebbe dovuto essere la Norimberga d'Italia. Ma gli inglesi si
mettono in mezzo, impongono l'ergastolo al posto della condanna a morte, finché
nel 1952 Kesselring viene graziato. Per non parlare dei criminali di guerra
italiani, che non vengono neppure toccati. E così che a gente comune, di fronte
all'impunità dilagante, ha cominciato a confondere le responsabilità. C'è una
specie di gioco a tre fra Inghilterra, Italia e Germania, per chiudere alla
svelta il capitolo delle colpe, una serie di scelte che, complice la guerra
fredda, hanno portato al famoso armadio della vergogna della Procura generale
militare di Roma: l'armadio con le ante voltate verso il muro dove per quasi
cinquant'anni sono stati nascosti i 695 fascicoli sulle stragi italiane".
Poche immagini come quell'armadio illustrano altrettanto bene che tentazione sia
dimenticare. "Dalla Toscana conclude Tognarini - è partita la richiesta al
Senato perché venga istituita una commissione parlamentare d'inchiesta e quei
fascicoli riprendano il loro corso interrotto". La Storia continua.
la
Repubblica - 26
gennaio 2003
Wehrmacht
- La leggenda diventa nera
Esce
un libro in Germania sui crimini commessi in Italia - Cristiane
Kohl ha indagato sugli eccidi di Civitella - Alcuni musicisti salvarono una
ragazza
di
Vanna Vannuccini
Qualche
anno fa suscitò irritazione e sgomento in Germania l'esposizione sui
"Crimini della Wehrmacht". Era la fine di una leggenda che aveva
finito in Germania per attribuire la colpa di crimini di guerra e massacri
esclusivamente alle SS, lasciando alla Wehrmacht un'aureola se non di innocenza,
quanto meno di responsabilità limitata ad azioni che tutti gli eserciti possono
compiere perché fanno parte della normalità della guerra. Christiane Kohl,
corrispondente a Roma della Sueddeutsche Zeitung, è diventata uno dei maggiori
esperti dei crimini commessi dalla Wehrmacht in Italia. È stato grazie alle sue
ricerche se furono riprese le indagini sul massacro, dimenticato da tutti meno
che dagli abitanti, di Sant'Anna di Stazzema. Nel libro Villa Paradiso - als
der Krieg in der Toskana kam (pubblicato in Germania da Goldmann uscirà a
marzo da Garzanti) Kohl racconta orala storia di "quando la guerra arrivò
in Toscana". A Civitella, cittadina della Val di Chiana che era stata un
tempo residenza dei vescovi aretini, e in due frazioni vicine, i soldati della
divisione Hermann Goering, comandati dal capitano Heinz Kapp, trucidarono il 29
giugno del '44 duecentocinquanta tra uomini donne e bambini. Due soldati
tedeschi erano entrati in un bar di Civitella, avevano sparato dei razzi forse
perché i compagni sapessero dove si trovavano, ed erano stati uccisi dai
partigiani. La popolazione, temendo la rappresaglia tedesca, si rifugiò nei
boschi, ma il capitano Kapp aspettò il loro ritorno. Il 29 giugno, è S. Pietro
e Paolo, il suo reparto arriva nel paese, entra nella chiesa, ne fa uscire i
fedeli, fucila subito quarantacinque uomini poi fa irruzione nelle case e
massacra tutti quelli che trova. Degli uomini se ne salveranno solo quattro.
Dopo la guerra, il capitano della Feldgendarmerie, tornato a casa sua ad
Amburgo, fece una brillante carriera, fino a diventare il vice capo della
polizia. Negli anni Cinquanta qualcuno l'aveva accusato di aver ucciso a freddo
un handicappato durante la campagna di Polonia, ma il processo si chiuse
frettolosamente con una assoluzione. Probabilmente errata, dice Christiane Kohl,
che ha rintracciato tra l'altro documenti che testimoniano la partecipazione di
Kapp a massacri di ebrei in Ucraina, di cui lui si era sempre proclamato
innocente. Persino di fronte al figlio, un sessantottino militante, che una
volta gli aveva chiesto la verità. "Mai torto un capello a nessuno",
era stata la risposta. Anche a Civitella invece aveva sparato di persona,
uccidendo a freddo un contadino inerme. Con Kapp, Cristiane Kohl, non ha potuto
parlare. L'ex capitano della Wehrmacht era morto pochi mesi prima che le sue
ricerche la portassero fino al suo indirizzo di Amburgo. La giornalista ha
rintracciato quasi tutti i soldati tedeschi ancora invita che avevano
partecipato al massacro di Civitella, ma la sua non è una storia solo di
cattivi. "È passato abbastanza tempo per poter guardare luci e ombre. Per
esempio possiamo chiederci il perché di certe azioni dei partigiani quando
ormai i tedeschi si stavano ritirando, e gli Alleati era vicini", In questo
senso il libro s'inserisce nella tendenza, nuova per la Germania ma
autorevolmente inaugurata da Gunter Grass con il suo libro L'andatura del
gambero, di guardare per la prima volta alla seconda guerra mondiale da una
prospettiva tedesca. Il fulcro del libro, "un romanzo di fatti", come
lo definisce l'autrice, è la storia, le vicissitudini di Villa Paradiso, una
confortevole dimora di campagna vicino a Civitella, come le è stata raccontata
dalla figlia del padrone di casa, Flavia Castelli, che nel '44 aveva 19 anni. La
storia comincia come un idillio, tra la fine della primavera e la fine
dell'estate, nella bella casa in cima alla collina. Quasi uno script per un film
americano. Le ragazze sono belle, i soldati tedeschi gentili, e amanti della
musica e della poesia più che delle armi. Ma dopo il massacro di Civitella la
villa viene occupata dal capitano Kapp e dalla sua Feldgendarmerie. Ed è la
fine dei concertini in famiglia. Alcuni abitanti della villa saranno uccisi,
altri torturati, i sopravvissuti trasferiti in un lager a Firenze. E questo
nonostante Kapp, come ha scoperto Christiane Kohl, avesse avuto ordine dai
superiori di lasciarli liberi: c'era infatti tra i prigionieri portati da Kapp
nella villa una svedese, e la sua presenza preoccupava i comandi tedeschi che
non volevano grane con paesi neutrali. Ma ci sono appunto anche i buoni, i pochi
capaci anche di opporsi agli ordini, soprattutto se si trattava di salvare una
ragazza di cui magari erano segretamente innamorati. Sono dei musicisti,
facevano parte di un'orchestra che suonava Bach e Beethoven nei paesi occupati,
ma verso la fine della guerra i loro strumenti erano stati rispediti a Berlino e
loro arruolati nella Feldgendarmerie. Uno di loro, che Christiane Kohl ha
rintracciato in Germania, un insegnante ormai in pensione, aiuterà Flavia e la
madre a fuggire dal collegio delle Leopoldine di Santa Maria Novella, che i
tedeschi avevano trasformato in lager.
la Repubblica - 29 gennaio 2003
La
faccia cattiva dell'Italia
Tra
i capitoli rimossi del passato fascista figura la vicenda degli italiani
conquistatori tra il 1940 e '43 nelle zone mediterranee - Esce ora un libro di
Davide Rodogno che analizza le atrocità commesse ribaltando il mito dei nostri
soldati brava gente -
Un nuovo ordine voluto dal duce - Per mezzo secolo abbiamo rimosso
di
Simonetta Fiori
Tra i capitoli rimossi del passato fascista, espulsi dalla memoria per ragioni disegno differente, figura a pieno titolo la vicenda degli italiani conquistatori tra il 1940 e il 1943 in alcune terre dell'Europa mediterranea. Una storia che coinvolge la Corsica e parte della Francia. La Slovenia meridionale. La parte occidentale e meridionale della Croazia. Il litorale dalmata. Il Montenegro. La Grecia continentale e molte delle sue isole. Gran parte del Kossovo. La Macedonia occidentale. Nel complesso, un'estesa e articolata "colonia", militarmente occupata da un esercito di cinquecentomila soldati, spesso spaesati, impauriti, affamati, ma non per questo meno brutali degli alleati tedeschi. Per mezzo secolo, la tragica vicenda di questi militari - e il progetto di un nuovo ordine mediterraneo inseguito da Mussolini - è rimasta come avvolta nell'ombra, al chiuso di archivi blindati. Gli studiosi tendenzialmente - con alcune eccezioni hanno preferito concentrarsi sulle vittime delle potenze dell'Asse, le popolazioni occupate, e in generale non hanno preso troppo sul serio il disegno imperiale del duce, ridimensionato dai suoi stessi esiti fallimentari. Nell'immaginario collettivo è poi prevalso il mito degli "italiani brava gente" conquistatori di calda umanità, vulgata assolutoria di cui è ancora viva traccia in opere di fiction. La stessa editoria non sempre ha incoraggiato i libri sui crimini di guerra commessi dai connazionali. "Questione troppo a lungo ignorata, oppure liquidata sbrigativamente e con un senso di malcelato fastidio", scrive sul nuovo mensile Millenovecento lo storico Mimmo Franzinelli, che rievoca le censure esercitate in Italia su film e saggi sull'argomento. Le atrocità del passato fascista spesso rimangono confinate ai margini della memoria. Anche nel corso del recente omaggio reso alle vittime delle foibe, soltanto Luciano Violante è tornato indietro alle gravi responsabilità del regime di Mussolini, colpevole nelle terre annesse di una violenta snazionalizzazione antislava. Ora un'importante ricerca di Davide Rodogno, giovane studioso del Fonds national de la recerche scientifique suisse, fa luce sul sogno imperiale del duce e, grazie a una vasta documentazione inedita raccolta negli archivi storici dello Stato maggiore dell'esercito, del Ministero degli esteri, del Comité international de la Croix-Rouge e della Banca d'Italia, aiuta a rovesciare la leggenda del buon italiano, raccontando nelle sue reali dimensioni la durezza della repressione fascista, una brutalità - come scrive Philippe Burrin nell'introduzione "molto spesso minimizzata" (Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell'Italia fascista in Europa 1940-1943, Bollati Boringhieri, pagg. 600, euro 35,00). "Non fummo quelli del film Mediterraneo o della fiction Il mandolino del capitano Corelli", dice Rodogno. "Forse dovrei dire non fummo solo quelli. Per cinquant'anni ci e piaciuto ricordare soltanto le relazioni sentimentali, dimenticando altre questioni più complesse, dolorose, sconosciute. Vi furono anche episodi di stupri collettivi, ancora avvolti in un velo di reticenza: la documentazione a riguardo non è ancora consultabile". Nel solco tracciato dagli studi di Enzo Collotti ed Emilio Gentile, Rodogno interpreta la "conquista dello spazio vitale" pianificata dal duce come "parte essenziale di un progetto totalitario" di trasformazione della società, approdo della rivoluzione cominciata nel 1922. Il nuovo ordine imperiale immaginato dal duce viene disegnato in tre cerchi concentrici. "II nucleo, il primo cerchio, sarebbe stato quello della razza italiana dei dominatori, inclusi tutti i territori "irredenti": la Dalmazia, le isole Ionie, la Francia sudorientale. Il secondo cerchio avrebbe raccolto i popoli di razza bianca, cristiani ed europei, come la Croazia, la Grecia e una piccola parte della Francia, tutti dominati sul modello albanese. Infine il terzo cerchio era rappresentato dalle colonie africane e asiatiche". Mussolini si considerava un "liberatore", il suo obiettivo era imporre ai sottomessi la civiltà superiore. "La guerra e le occupazioni dovevano rappresentare il banco di prova per l'uomo nuovo forgiato dal fascismo. Fu un tragico fallimento". Pur non essendo "la razza" di conquistatori voluta da Mussolini, i soldati italiani non si astennero da atrocità e violenze, simili a quelle commesse dagli alleati nazisti, ma con motivazioni del tutto differenti. "Soprattutto nei Balcani, gli italiani si sentirono mandati al massacro e, quando odiarono il nemico, non fu per ragioni ideologiche ma per paura. Le loro repressioni feroci non furono caratterizzate, come nel caso dei nazisti, dalla volontà di trionfo né dal sentimento della superiorità razziale. Manifestarono al contrario tutta la debolezza di chi non aveva altra possibilità di far percepire la propria forza. Solo in alcuni casi, almeno secondo la storiografia jugoslava, le camicie nere furono mosse da motivazioni marcatamente ideologiche. Ma generalmente l'ideologia fascista ebbe un ruolo secondario".
-
Rappresaglie, devastazioni, ostaggi e deportazioni - La creazione di campi in
cui si commisero violenze
Un
capitolo tra i più ricchi e inediti riguarda la repressione. Rodogno dimostra
l'univocità delle normative imposte in tutti i territori occupati sul modello
della circolare "3C", una sorta di manifesto della repressione
italiana nei territori jugoslavi. "Quelle disposizioni non rappresentarono
un episodio circoscritto né il frutto dell'iniziativa d'un generale più
fascista di altri. Misure analoghe furono adottate in Grecia e in Albania. Le
azioni concrete degli italiani non furono dissimili da quelle della Wehrmacht o
delle SS tedesche. Negli ordini emanati dalle autorità fasciste contro le bande
partigiane - e per spezzare l'appoggio ai ribelli delle popolazioni - figura di
tutto. La presa di ostaggi. La devastazione di intere località. Le rappresaglie
sulle famiglie di semplici sospetti. La deportazione di larghi nuclei delle
popolazioni locali. La distruzione e il saccheggio del bestiame. E l'impunità
per gli eccessi compiuti. Una violenza riservata in passato agli auctotoni
africani". La ricerca fa luce anche su un terreno finora poco studiato, i
campi di concentramento in cui venivano reclusi i civili, generalmente in
condizioni igieniche e sanitarie assai precarie. Oscilla tra i 150.000 e i
100.000 il numero degli internati jugoslavi per mano italiana, suddivisi tra
"repressivi" (sospettati cioè di attività antiitaliane) e
"protettivi" (i famigliari dei collaborazionisti" da
proteggere"). La gestione dei campi era suddivisa tra il ministero
dell'Interno (circa 50 nell'Italia centromeridionale) e il Regio Esercito (una
decina nell'Italia centrosettentrionale). Il saggio si sofferma sui campi nei
territori annessi, alcuni dei quali registrarono un elevato tasso di mortalità
(alto anche il numero dei bambini nati morti). Secondo una nota della Croce
Rossa Internazionale (14 aprile 1943), ad Arbe, tra l'Istria e il Nord della
Dalmazia, "sarebbero stati constatati tremila decessi dovuti principalmente
alla cattiva alimentazione (del tutto insufficiente) e al cattivo
alloggiamento". Rileva lo storico che "sulle reali condizioni del
campo i vertici militari mentirono al cospetto della stessa diplomazia
vaticana". Altro capitolo innovativo è quello che riguarda la politica nei
confronti degli ebrei. Contrastando una pur nobile storiografia che celebra il
generoso carattere italiano, Rodogno dimostra come il comportamento verso gli
ebrei - a lungo esaltato come "benefattore" - fu essenzialmente
dettato da ragioni di strategia politica nella contesa con l'alleato tedesco.
"Da parte di Mussolini del governo, degli alti funzionari italiani e dei
vertici militari non vi fu alcun tentativo di "salvataggio umanitario"
degli ebrei. Essi furono pedine in una sorta di guerra interna all'Asse. In
molti ritennero - come il generale Mario Roatta, comandante della II Armata -
che consegnare gli ebrei ai tedeschi avrebbe danneggiato il prestigio degli
italiani, con gravi ripercussioni nel rapporto con le popolazioni occupate. Da
qui la scelta di internarli". A lungo è invalsa l'immagine delle truppe
italiane che fecero ogni sforzo per salvare i perseguitati. "Un'immagine
incoraggiata da autorevoli personalità come Léon Poliakov e Hannah Arendt, che
così vollero mettere in evidenza l'orrore della soluzione finale. Ma anche
dalla giovane repubblica italiana, che sfruttò il tema dell'umanità del popolo
e dei soldati per allontanare dai connazionali il sospetto di
antisemitismo". Se è vero dunque che migliaia di ebrei furono internati e
dunque non consegnati ai tedeschi, un numero rilevante fu respinto o allontanato
oltre frontiera in tutti i territori occupati. Soltanto a Fiume - stando ai dati
incompleti del ministero degli Interni - in ottocento rifugiati ebrei furono
espulsi o respinti oltre frontiera, consegnati nelle mani dei croati. "Le
autorità italiane - a Roma, a Fiume, in Dalmazia sapevano perfettamente quale
sorte sarebbe toccata agli ebrei consegnati ai croati. Erano bene informate
sulle atrocità commesse a pochi chilometri dalle frontiere del regno. Furono
gli stessi italiani a definire Jasenovac un campo dì concentramento talmente
orribile che chi proveniva da Dachau e Buchenwald finiva per considerare i lager
nazisti, rispetto a quest'ultimo "quasi luoghi di cura". Non va
dimenticato, conclude Rodogno, che singoli individui, poco importa la
nazionalità, in determinate circostanze furono davvero brava gente. Ma questa
è un'altra storia.
la Repubblica - 24 febbraio 2003
Ma
in Italia Norimberga non c'è stata
Un
nuovo saggio racconta la storia del processo istruito dagli alleati contro i
comandi nazisti attivi nel nostro paese tra '43 e '45 - Il processo però non fu
mai celebrato. Per la nostra classe politica c'era il rischio di veder
perseguiti anche i crimini dei connazionali -
Una vicenda tortuosa. Perché se da una parte prevalse una grande rimozione,
dall'altra si enfatizzava la ferocia tedesca per celebrare il mito
"italiani brava gente"- Tutto si risolse con un paio di dibattimenti
abbaglianti e un pulviscolo di piccoli processi locali: così vennero insabbiate
le responsabilità delle nostre truppe
di
Adriano Sofri
Nella
Scuola Normale pisana c'era un corridoietto cieco accanto al seminario di
storia, occupato da scaffali, riempiti da grossi tomi scuri. Generazioni di
apprendisti storici passavano - toccò anche a me, qualche anno dopo sarebbe
toccato a Michele Battini - ma quasi mai uno di quei tomi veniva estratto dal
suo greve letargo. Erano gli atti del Processo di Norimberga. Si diceva che ne
avesse voluto l'acquisto Delio Cantimori, pensando che prima o poi qualcuno
avrebbe avuto il coraggio di studiarli. Sono passati quarant'anni, e mi chiedo
se sia successo. Michele Battini invece pubblica oggi un libro sulla mancata
Norimberga italiana (Peccati di memoria, Laterza, pagg. 190, euro 15,00). È la
storia di un maxiprocesso - così lo chiameremmo ora - istruito dopo la
Liberazione dagli Alleati, sul modello giuridico di Norimberga, contro l'operato
dell'intero comando militare nazista in Italia fra il 1943 e il 1945. È, più
esattamente, la storia delle ragioni per cui non fu celebrato. Dunque è la
storia tortuosa di una grande rimozione, quella dei crimini di guerra
metodicamente perpetrati dai militari tedeschi in Italia, presto finita in un
mucchio di fascicoli chiusi a chiave in un armadio della Procura militare
romana, con un italianissimo gesto finale: l'armadio addossato al muro dalla
parte delle ante, e lì rimasto, fino a poco fa. Storia tortuosa: perché la
stessa Italia che rivoltava l'armadio degli scheletri del nazismo usava la
ferocia tedesca come uno specchio truccato che le rimandasse l'immagine
indulgente dell'italiano brava gente. Si barattava la riduzione striminzita
della Norimberga italiana a un paio di processi abbaglianti e a un pulviscolo di
piccoli processi locali, con la rimozione dei crimini commessi da truppe
italiane. Argomenti lasciati per decenni a pochi appassionati specialisti, quasi
fissazioni personali - così Del Boca per l'Africa - solo da pochi anni
riscavati e divulgati, spesso con documenti filmati di impressionante evidenza.
La situazione del mondo di oggi, fra resistenze di sovranità statali e sfide
terroristiche planetarie e guerre unilaterali e Tribunale penale internazionale
- da pochi giorni finalmente in vigore - fanno delle Norimberga attuate e
mancate un riferimento urgente e irrisolto. Ne parlo con Battini, che oltre che
lo storico fa il volontario nel mio carcere: e chissà che nesso trova fra i due
impieghi. Battini: "Ho cominciato studiando le rappresaglie sui civili e le
stragi fra il '43 e il '45. È l'oggetto del libro che pubblicai con Paolo
Pezzino, Guerra ai civili, la politica del massacro sotto l'occupazione tedesca
in Toscana. Per l'Italia occupata, la documentazione essenziale sta nelle
inchieste dell'Onu sui crimini di guerra in Italia, affidate alla Sezione
speciale investigativa britannica. Il governo italiano partecipava delle
indagini grazie allo status, successivo all'8 settembre, di paese
cobelligerante. Posizione assai ambigua, naturalmente. L'Italia era anche un
paese nemico fino al '43, e in quella veste imputata nei Balcani, in Grecia
ecc".
Che
atteggiamento ebbe Il governo italiano? E come si insabbia l'idea del grande
processo unificato al responsabili nazisti?
"C'è
subito uno scontro sulla consegna dei sospetti criminali di guerra italiani agli
alleati. Grecia e Jugoslavia avevano richiesto la consegna di 1.500 persone
circa. La diplomazia italiana si adoperò per evitarla. A loro volta gli inglesi
si preoccuparono precocemente per lo stato dell'opinione pubblica italiana. Che
divenne per loro allarmante nella primavera del '46, dopo le elezioni
amministrative, e in attesa delle politiche e del referendum istituzionale. Fra
la fine del '46 e il '47 ha già prevalso sia fra gli alleati che nel governo
italiano la scelta di celebrare pochi processi spezzettati, da tribunali alleati
prima e poi italiani. In periferia le procure raccoglievano la documentazione
sui crimini di militari tedeschi, e la Procura romana imboscava. Nel famigerato
armadio, rimesso alla luce dal procuratore Intellisano e studiato da Lutz
Klinkhammer e Filippo Focardi, erano sepolti almeno 600 episodi
criminali!".
Tu documenti come, pur nella dimensione
incomparabilmente minore, la macchina della rappresaglia e degli stermini di
civili in Italia la stessa metodicità che nell'Europa orientale.
"Sì,
e infatti non si trattò solo dell'attività delle polizie e delle forze
speciali, ma dell'intera Wehrmacht. Gli stessi ordini terroristici contro i
civili emanati da Keitel su impulso personale di Hitler nel 1942, e riferiti
all'Europa orientale, vengono ristrasmessi al fronte mediterraneo e all'Italia
dopo il "voltafaccia italiano". "Tra il giugno e l'ottobre del
'44, in particolare, fra il Lazio e la Linea Gotica si intensificarono, oltre
alla guerriglia partigiana, anche gli episodi di disobbedienza civile, contro
ordini di sgombero di abitati o di strade: repressi indiscriminatamente come
resistenza militare. La natura politica e ordinaria di questa repressione
richiedeva una risposta giudiziaria unificata: essa avrebbe riguardato una
cinquantina di alti ufficiali, a cominciare dal Comando supremo di SS ed
esercito. "Ci sono le prove dell'intenzione iniziale di arrivare al
"grande processo", e del vincolo con Norimberga. A Norimberga, oltre
al processo ai gerarchi nazisti, se ne celebrarono altri 12 suddivisi per
categorie sociali - banchieri, industriali, o, a volerli chiamare categoria
sociale, aguzzini...Si decise di trasferire in Italia parte dell'apparato
tecnico, traduttori ecc. Da Norimberga dipendeva anche il quadro giuridico,
oltre che dal diritto militare tradizionale. A Norimberga si misero sotto accusa
(con una forzatura retroattiva) la cospirazione contro la pace e i crimini di
guerra, ma anche i crimini contro l'umanità: benché li si lasciasse sullo
sfondo. Nei processi britannici contro i tedeschi in Italia le novità di
Norimberga furono largamente inapplicate. "C'erano anche forti divergenze
fra i diversi codici nazionali. Per il codice tedesco la fucilazione degli
ostaggi era legale. Il diritto internazionale (L'Aia 1899 e 1907, Ginevra 1928)
era a sua volta lacunoso e fonte di contraddizioni imbarazzanti. Per esempio,
dichiarava illegale la rappresaglia ma anche la guerra partigiana: però la
guerra partigiana era stata fomentata e sostenuta dagli alleati. Per complicare
le cose arriva presto la preoccupazione - per inglesi e francesi soprattutto -
di non contagiare con la legittimazione delle guerre partigiane e i movimenti di
liberazione anticoloniale che presentano il conto della guerra".
L'ambiguità
era nelle cose, anche a Norimberga: dove i sovietici erano fra i giudici, e
potevano pretendere l'impuinità per i propri crimini, o addirittura di
addebitarli ad altri, come per l'eccidio di Katyn. Questa, che a Norimberga (e
poi anche in Giappone) fu una contraddizione morale e giuridica difficilmente
evitabile, ma gravissima, si trasformò poi per mezzo secolo, fino al crollo
sovietico, nell'impossibilità di un diritto internazionale. Se a Norimberga (e
a Tokio) i crimini contro l'umanità restarono sullo sfondo rispetto ai
tradizionali crimini di guerra e soprattutto all'attentato alla pace -
comprensibilmente, anche: l'aspirazione più urgente era a costruire condizioni
che sventassero la premeditazione di guerre - lungo il dopoguerra restarono al
margini di una politica mondiale regolata dalla guerra fredda. Il primato dei
crimini contro l'umanità (e il suo seguito, la delega di poteri delle
sovranità statali, il diritto e il dovere dell'ingerenza, il tribunale
internazionale) è un frutto della decadenza dell'imperialismo sovietico e della
tendenziale unificazione del mondo. Anzi, al feticcio della sovranità nazionale
era stato devoto (e lo è ancora) proprio quel comunismo degradato che si era
sognato internazionalista e aveva poi cancellato negli Stati satelliti del suo
Patto militare ogni autonomia e indipendenza. Il superamento della
contraddizione di Norimberga è diventato possibile solo dopo l'89 e con la
cosiddetta globalizzazione: ma ancora embrionale e osteggiato. Com'è evidente
nell'atteggiamento degli Stati Uniti, che hanno voluto i Tribunali ad hoc e si
tengono fuori dal Tribunale Penale Internazionale. Oltretutto, a parte la sua
giurisdizione effettiva, che deve fare i conti con rapporti di forza - giudicare
i governanti cinesi non è affare imminente - il TPI ha bisogno di una più
limpida e definita legislazione, e soprattutto di una effettiva polizia
internazionale. La polizia internazionale è l'unica alternativa pensabile alla
guerra, e alla sua versione unilaterale, al gendarme mondiale. Qui è naufragata
la Società delle Nazioni, e si è trascinata invalidamente l'Onu. Oltretutto, i
processi diventano riti fondanti per le comunità che escono da una guerra.
"Infatti
Kesselring fu processato a Venezia, per le Fosse Ardeatine e la repressione
sistematica contro i civili. Ancora per le Ardeatine furono processati a Roma
due alti ufficiali, Mackensen e Maeltzer. Furono eventi importanti, specialmente
il primo. Fra il '45 e il '47 si resta sorpresi di scoprire come difficile alla
nuova Italia di trovare occasioni di unità, di celebrazione, di identificazione
nazionale, 25 aprile compreso. Nel '47 attorno al "mostro" Kesselring
l'identità comune disertata si ricostruisce attorno all'idea, e poi al rito,
della sofferenza degli italiani. È lei, la nazione sofferente, a offrire il
denominatore comune. E la polarizzazione fra il feroce tedesco e l'italiano
brava gente: togliendo spazio al riconoscimento della ferocia italiana dove
c'era stata. L'uso vasto dei gas, l'iprite contro l'esercito in fuga, in Etiopia
nel 1935, che Montanelli volle a torto negare contro Del Boca, è ammesso solo
da pochi anni. E la Slovenia, la Grecia. Si sono trovate e pubblicate in questi
anni le lettere di tanti soldati italiani che raccontavano la strategia della
tabula rasa e dei massacri. Su Kessebing, poi fra gli alleati si moltiplicarono
i riconoscimenti del vaIor militare e gli inglesi in particolare si batterono
per strapparlo alla condanna capitale".
Questo
è interessante: sono i conservatori a opporsi alla condanna a morte di
Kesselring, mentre la sinistra - sia detto all'ingrosso - è per il rigore. Un
connotato decisivo dei Tribunali internazionali dì oggi, quelli ad hoc - ex
Jugoslavia, Ruanda, adesso Cambogia - e quello Penale generale, che per statuto
escludono la pena di morte. C'è un paradosso. La Norimberga italiana avrebbe
consacrato la rimozione delle responsabilità Italiane attraverso la proiezione
sulla Germania, e tuttavia avrebbe trascinato nella propria scia
l'incriminazione di italiani. La rinuncia la sventò senza impedire la
demonizzazione dei tedeschi - "denominazione abbastanza da non aver bisogno
del maxiprocesso per fare da contraltare all'autoindulgenza italiana.
"Naturalmente
pesò l'intenzione di molte correnti antifasciste di presentare il fascismo come
l'oppressione di una minoranza sulla larga maggioranza degli italiani. Il
fascismo è colpevole, l'Italia innocente. Fa impressione l'ordine del giorno
Bonomi nella prima adunanza del 1944, che descrive l'ingresso in guerra nel 1940
come una sopraffazione sulla gran maggioranza del paese. "Quella grande
maggioranza del paese che già nel 1940 era schierata contro la dominazione
fascista e contraria all'ingresso in guerra dell'Italia accanto alla Germania
hitleriana". Una storiella consolante, ma del tutto falsa".
A
parte Bonomi, la contraddizione travolge anche una buona parte della sinistra,
divisa fra un impegno di epurazione dello Stato e il desiderio di restituire una
verginità alla storia nazionale.
"Si
costruisce una memoria selettiva e parziale, che anestetizza sia l'adesione
larga al fascismo, sia la dimensione della collaborazione con l'occupazione
tedesca. C'è una peculiarità italiana, ma anche una affinità con la Francia
di Vichy. Là nei processi degli anni '50 domina l'intenzione di trattare gli
episodi più criminali di collaborazionismo come "eccezioni". Solo
dagli anni '80 la natura volontaria del regime di Vichy, l'elezione legale del
governo di Pétain nel 1940, la compromissione nella deportazione degli ebrei
anche francesi ecc., vengono al centro dell'attenzione, e dei processi, Papon e
Touvier, Barbie".
Mi
ha colpito la nota di Benedetto Croce dell'ottobre 1945, che tu ripubblichi, in
cui pure si proponeva di raccogliere le prove delle stragi e distruzioni
compiute dagli occupanti tedeschi du-rante la guerra. Sarebbe servito, scriveva
Croce, a "mettere sotto gli occhi del mondo con quanti dolori atroci, con
quanti danni spaventosi e irreparabili, l'Italia abbia pagato la pena della
stoltezza fascista, alla quale soggiacque", e a "fornire al popolo
tedesco, che ha in gran parte ignorato la qualità e l'estensione di quegli
orrori, uno specchio in cui guardarsi (e in cui guarderemo tutti noi,
inorridendo delle forze paurose che si agitavano nel fondo dell'uomo; il che
forse aiuterà quel popolo alla conversione che spontaneamente deve compiere di
se stesso al liberarsi da istinti e da concetti perniciosi a sé e al
mondo…" È impressionante, perché l'Italia sta da una parte e il
fascismo dall'altra, anzi - poiché la prosa crociana prende una singolare
risonanza sessuale - l'Italia sta sotto il fascismo, gli soggiace, come la
vittima femminile di uno stupro. Immagine completata nel rapporto fra
quell'Italia soggiaciuta e il "popolo tedesco" che potrà guardarsi
nello specchio dei propri orrori, e nello stesso specchio offrirà agli altri
l'occasione per inorridire dei tedeschi e assolvere sé, risparmiarsi la
conversione. Ciò che è in effetti avvenuto largamente nel dopoguerra. In
generale, il problema riguarda tutti i dopoguerra, che si tratti di guerre fra
Stati e a maggior ragione di guerre civili. Riguarda drammaticamente la Serbia.
Riguarderà ora l'Iraq. Si oscilla fra punizione e riconciliazione, fra panni
lavati in famiglia e giudizio del mondo: il difficile è trovare un equilibrio.
Per questo l'esempio sudafrica è diventato un modello ormai quasi mitizzato. Il
caso più enorme di "processo mancato" è l'Urss.
"Nell'Italia
del dopoguerra la conciliazione prese la forma togliattiana e un po’
oltraggiosa dell'amnistia (spinta a escludere solo "le sevizie
particolarmente efferate"!). Si arginò la spinta all'epurazione in nome di
un'appartenenza comune, il recupero del “lungo viaggio” attraverso il
fascismo, l'arginamento del qualunquismo, la fusione "risorgimentale"
fra tradizione sabaudo-militare e lotta partigiana. Socialisti e azionisti, più
intransigenti rispetto all'epurazione, furono anche più legati alla
rivendicazione della giurisdizione e a un patriottismo italiano rispetto ai
confini orientali, dove anche partigiani azionisti e liberalsocialisti (e
bianchi e monarchici) erano state vittime di partigiani stalinisti e di
infoibamenti titini. Ne risultò una prevalenza della continuità statale fra
regime fascista e repubblica, il primato del Pci come partito di massa, e la sua
esclusione dal governo. Un groviglio di contraddizioni che si è ripetuto in
altre forme anche nell'Europa del "dopo guerra fredda". Quando nel
1991 il Parlamento cecoslovacco votò una vasta messa al bando di categorie
statali compromesse col regime - polizie, giornali e media, propaganda ecc.
Havel rifiutò di firmarlo, affrontando l'accusa di mutare la rivoluzione di
velluto in una morbidezza compromissoria. Havel ha avuto d'occhio la questione
di fondo: la coesione di una società che esca da un'esperienza totalelitaria.
In Ungheria prevalse il versante della punizione giudiziaria. In Polonia
un'altalena mai risolta, fra lo spirito di conciliazione e prevalente in
politici e intellettuali come Mazowiecki o Michnik, e il ricorso alla guerra dei
dossier: per non dire della questione dell'antisemitismo, esplosa più di mezzo
secolo dopo nel caso di Jedwabne di cui hai scritto".
C'è
un'idea che mi turba. I processi arrivano per definizione dopo il fatto.
Arrivano a sanzionare, a punire, quando il guaio è fatto. Sono anatomia
patologica. Noi abbiamo l'ideale della prevenzione, della medicina preventiva,
di ciò che preveda e sventi il guaio. Ora d'un tratto la prevenzione ci si
presenta come una scelta strategica, ma con i caratteri della giustizia post
factum. La punizione preventiva, per così dire. (So che preventivo non è la
traduzione esatta per preemptive, ma c'intendiamo). La guerra preventiva è una
pessima idea, ed è sbagliata anche quando resti solo una formula verbale. Anche
la parola pace, che è il più bel saluto che abbiamo saputo inventare, può
logorarsi a furia di essere recitata come uno slogan. Bisognerebbe lavorare
sulla Pace Preventiva, e farne una strategia. The
Preemptive Peace. Speriamo.
la Repubblica - 30 marzo 2003
Veronica
Lario, una lettera per Marzabotto
Il
nonno della moglie del premier fu ucciso dai nazisti. Un superstite: ne parli
con Berlusconi e lui ne parli ai colleghi di partito -
La notizia della missiva all'indomani della polemica di Bondi (Forza Italia)
di
M. S.
BOLOGNA - Forza Italia cerca di ribaltare sui partigiani la responsabilità della strage nazista di Marzabotto, ma proprio ad Arcore c'è qualcuno che considera sacra la memoria di quei luoghi: Veronica Lario, consorte del premier Silvio Berlusconi. Il nonno di Veronica, che all'anagrafe si chiama Miriam Bartolini, fu fucilato dai tedeschi a Vizzano, tra Sasso Marconi e i colli di Marzabotto, assieme ad altri sei civili, nell'autunno del 1944, appena venti giorni prima del più feroce eccidio di civili compito dai nazisti in Italia. "La signora Lario mi ha scritto una bellissima lettera", rivela Dante Cruicchi, presidente del Comitato per le onoranze ai caduti di Marzabotto, "di lei ho grande stima e rispetto, da tempo siamo in ottimi rapporti, la teniamo costantemente informata di tutte le nostre iniziative, e spero che prima o poi venga a trovarci". Del contenuto della lettera, ricevuta alcuni mesi fa, quindi prima delle recentissime polemiche, Cruicchi per discrezione non riferisce le parole esatte. Ma di recente è stata la stessa Veronica Lario a parlare in modo intenso e commosso della tragedia di suo nonno, in un passaggio della lunga intervista concessa al mensile Micromega sui temi della guerra e della pace. "Sono cresciuta ascoltando racconti di guerra e ricordi strazianti", ha raccontato rievocando le dolorose vicende dì quell'8 settembre del 1944. "Il nonno fu ucciso per rappresaglia. C'era stato un combattimento in cui morirono dei tedeschi e poi ci fu il rastrellamento". Raffaele Bartolini, classe 1907, viveva con la famiglia vicino a Monzuno, sulle colline del bolognese. "Mia madre si vede ancora oggi, bambina di undici anni, uscire dall'aia dove i tedeschi stanno caricando sui camion pollame, cavalli, buoi, maiali; si vede correre dietro il camion che sta portando via suo padre, insieme ad altri rastrellati dai tedeschi. Corre per lasciargli un fagottino con dentro un pezzo di pane e formaggio, pensando: "Papà avrà fame e avrà bisogno di mangiare". Convinta che sarebbe tornato di lì a poco, lo aspetta invano. I tedeschi appena fuori dal paese lo uccideranno". "Spero che la signora Lario abbia raccontato le stesse cose a suo marito", commenta da Marzabotto Franco Lanzarini, uno dei superstiti della strage, "e che Berlusconi ne parli a sua volta ai suoi compagni di partito". Brucia, nel paese martire, la polemica innescata dal portavoce di Forza ltalia Sandro Bondi, per il quale fu la condotta dei partigiani a scatenare la reazione dei nazisti, che alla fine del '44 sterminarono centinaia di civili innocenti, donne e bambini, nelle valli tra il Reno e il Setta. "È un tentativo di negare la storia", scatta Cruicchi. "Se poi a Bondi per conoscere la verità storica non bastano i libri e i documenti pubblicati in questi anni, si rilegga almeno le parole di papa Giovanni Paolo II su coloro che "offrirono la vita per la causa giusta, la causa della dignità dell'uomo, affrontando la morte da vittime inermi offerte in olocausto".
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"Mia
madre fece da scudo e mi salvò dalle mitragliate"
Mario
Marsili riceverà oggi da Ciampi una medaglia d'oro alla memoria della mamma -
Il racconto d'un superstite dell'eccidio di Stazzema -
Genny Bibolotti fu una delle vittime di Sant'Anna di Stazzema vicino a Lucca
"Avevo sei anni, mi nascosi nella stalla"
PIETRASANTA
- Le rughe della sua faccia, dietro il banco del negozio di giornali, nella
piazza di Pietrasanta, dicono che è passato davvero tanto tempo da quel giorno
in cui Mario Marsili era soltanto un bambino di sei anni. Svegliato all'alba
dagli scarponi e dalle voci dei soldati tedeschi. Un impaurito bambino in
braccio alla mamma mentre i nazisti urlavano, mitra alla mano, a loro due e ai
nonni che dormivano nella stessa stanza, di scendere in fretta, giù per la
strada e di raggiunge e gli altri del paese, ammassati nella stalla. Sant'Anna
di Stazzema è un paese arroccato sopra le montagne dell'Alta Versilia,
provincia di Lucca. Erano sfollati in molti nell'estate del 1944, in quel borgo
povero e isolato che proprio per questo pareva sicuro. "Quante volte ho
ripensato a quella mattina, lei non può nemmeno immaginarlo - racconta oggi
Marsili che ha 65 anni, sposato, due figli e un nipotino di sette -. Quante
volte ho rivisto la mamma che mi prendeva in braccio sollevandomi dal letto, mi
stringeva forte mentre scendevamo di corsa le scale, entravamo nella stalla e mi
diceva: mettiti li dietro". Dietro la porta, nascosto fra due lastre di
roccia. Accovacciato in mezzo. Facendosi piccolo piccolo, per salvarsi. L'unico
fra i quindici finiti là dentro a poter raccontare qualcosa. Sant'Anna di
Stazzema, l'alba tragica del 12 agosto 1944: in 560 (ma neppure sui numerici
sono ancora certezze) vengono trucidati dalle squadre delle Ss tedesche. Una
pagina terribile e ancora piena di ombre, un eccidio contro la popolazione
civile: a morire sono soprattutto donne, vecchi e bambini. L'uomo che sta dietro
il banco dei giornali, fra gli scaffali della cartolibreria di Pietrasanta, oggi
sarà al Quirinale per ricevere dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio
Ciampi la medaglia d'oro alla memoria assegnata a sua madre, Genny Bibolotti
Marsili, la donna che quella mattina del 12 agosto, scagliò il suo zoccolo
contro un soldato tedesco che si stava avvicinando. "Aveva paura che
scoprisse che io ero lì dietro a porta" racconta il figlio. In risposta a
quello zoccolo lanciato e andato a segno, una mitragliata dritta al petto: Genny
muore all'istante. Mario, il figlio, è a pochi metri, ma sta zitto, come le
aveva raccomandato lei. È ferito perché alla stalla hanno già appiccato il
fuoco, ma si salverà da quel lunghissimo giorno di sangue. L'ha raccontata
mille volte Marsili quell'alba, senza mai riuscire ad essere padrone della voce
che all'improvviso si abbassa e trema: "Ero terrorizzato. Nella stalla i
tedeschi avevano buttato sul fondo la gente, c'erano anche due bambini più
piccoli di me. Poi col lanciafiamme avevano appiccato il fuoco alla paglia.
Tutti gridavano disperati, si agitavano cercavano inutilmente un riparo".
Il fotogramma di quegli istanti è nitido, inciso nei ricordi: "È successo
tutto in fretta: il soldato tedesco si stava avvicinando, rivedo mia madre che
si toglie lo zoccolo, allora era estate e in montagna portavamo gli zoccoli, lo
lancia contro di lui, lo colpisce". Una pausa, si ferma. Riprende:
"Pertanto ho creduto di risentire la raffica della mitraglietta, la mamma
che cade a terra, soffocata dal sangue, i tedeschi che si allontanavano con
quelle voci secche, altri colpi di mitraglia". Mario resta ustionato al
petto e a un braccio, guai che si porterà appresso per il resto dei giorni.
"Ho passato un anno e mezzo in cura negli ospedali: ho addosso i segni
delle ustioni, non vanno via, come non se n'è mai andato via quel senso di
mancanza, quella sottrazione improvvisa dell'affetto di mia madre. Ero solo, mio
padre era prigioniero in Russia, non avevo fratelli. Così sono andato ad
abitare da una sorella di mia madre, la zia Lola che è ancora in vita. Quando
è tornato mio padre, dopo un pò di anni si è risposato e io ho capito che
bisognava in qualche modo andare avanti". Però negli anni è rimasto
qualcosa in sospeso, un desiderio più volte espresso: "Volevo che sul
gesto eroico di mia madre che si è fatta uccidere per salvarmi la vita -
prosegue oggi Mario Marsili - ci fosse almeno una medaglia, un
riconoscimento". Arriva, quasi sessant'anni dopo, ma arriva. "Va bene
lo stesso. Avrei un altro desiderio, non vedere più guerre, nè bambini
straziati dalle bombe. Invece accendo la televisione e mi sembra dì sentire
ancora le grida della stalla a Stazzema".
la Repubblica - 25 aprile 2003
Stragi
nazifasciste parte l'indagine
ROMA
- Con il sì della Camera è stata istituita una nuova commissione
parlamentare, che indagherà sulle archiviazioni dei fascicoli riguardanti
crimini nazifascisti che costarono la vita a circa 15 mila persone. Nel '94
furono rinvenuti nella sede romana degli uffici giudiziari militari 695
fascicoli relativi a stragi del periodo '43 - '45. I fascicoli - chiusi in un
armadio con le ante contro il muro e definito "armadio della vergogna"
- si riferivano a stragi come quelle delle Fosse Ardeatine, di Sant'Anna di
Stazzema e di Marzabotto.
la Repubblica - 9 maggio 2003
Negli
occhi la strage dei nazisti
Toscani
ha fotografato i superstiti dell'eccidio di Stazzema del '44; a quel tempo erano
bambini - I
ritratti in bianco e nero dei vecchi riflettono il ricordo della strage del 1944
- Quel giorno furono trucidati 560 civili, ma per lo scempio delle Ss nessuno ha
mai pagato
di
Michele Smargiassi
Quegli
occhi hanno visto. E adesso anche noi, guardando dentro quegli occhi, vediamo.La
magia transitiva dello sguardo umano scavalca la storia e annulla il tempo.
Vediamo tutto l'orrore di quel giorno, il 12 agosto del 1944, come se non
fossero passati ormai sessant'anni dal macello. Lo sguardo di un bambino vede
tutto, annota tutto, tragedie e dettagli: «Uccisero le pecore, il babbo, la
maestra Carpini ...». Quella mattina all'alba, nella piazzetta di Sant'Anna di
Stazzema, gli occhi dei bambini erano spalancati, nel tentativo di comprendere
l'inconcepibile, cercando disperatamente un motivo per non piangere. I tedeschi
montavano dei treppiedi: sarebbero serviti per le mitragliatrici, ma Enio
Mancini, sei anni, volle credere alle parole ingenue o forse pietose di una
vecchia del paese: «State tranquilli bambini, vogliono solo farci la
fotografia». Neanche Susan Sontag, nei suoi saggi su guerra e fotografia, ha
trovato un modo migliore per spiegare quanto si somiglino i riti dell'una e
dell'altra. Forse anche per riscattare la fotografia dalle sue imbarazzanti
parentele con la violenza Oliviero Toscani è salito a Sant'Anna, qualche mese
fa, con un progetto in testa, chiaro come forse nessun altro nella sua carriera
di immaginatore, comunicatore, provocatore visuale. «Ho cercato gli occhi dei
bambini». Quelli che erano bambini allora, quelli che sopravvissero al
mostruoso eccidio di Stazzema, 560 trucidati, tutti civili, tutti innocenti,
tutti ancora senza giustizia perché, per quella strage, nessuno ha mai pagato.
Ne ha trovati trentanove. Trentanove ritratti per trentanove racconti, raccolti
in un libro, impaginati con severità in un'alternanza drammatica di pagine
rosse e nere, introdotti in punta di piedi dallo scrittore Antonio Tabucchi.
Trentanove bimbi che ora sono vecchi, ma non conta: in queste pagine hanno
l'età di allora, dai 3 mesi ai vent'anni, e non conta nulla se si vedono le
rughe, nei ritratti in primissimo piano; nitide, profonde rughe ancor più
scavate da un bianco e nero intenso, che diventa catramoso sulla carta
volutamente non patinata ai colori con cui ha giocato per anni quando lavorava
per Benetton. Il bianco e nero è il colore del ricordo, del sogno e della
storia, tre dimensioni che in queste pagine, così come nella mente di un
bambino, non è possibile districare. Pazienza se a rimetterci, a volte, è
l'esattezza documentaria. i bambini vecchi a volte si contraddicono: «Usarono i
lanciafiamme», «No, i fiammiferi», «Avevano il volto mascherato», «Li ho
visti in faccia». Anzi, meglio così: questo non è un libro di storia, è un
libro su come si vive la storia, sulla realtà che si sfaccetta nel prisma dei
ri cordi individuali. Anche se, a differenza dei «Rashomori» di Kurosawa, qui
la verità non è indecidibile; è invece terribilmente, irrevocabilmente
chiara: nessuno storico revisionista potrà mai negare «l'angosciosa
irreversibilità dei fatti», come la definì nel cinquantennale il poeta Mario
Luzi. Si tratta piuttosto di capire come maneggiare la memoria, facoltà umana
tanto indispensabile quanto delicata. «Non so se qualcuno troverà troppo
invadenti questi ritratti, troppo cariche di emozione queste immagini», ragiona
il sindaco di Stazzema Gian Piero Lorenzoni, «io credo che abbiamo bisogno di
questa provocazione di Toscani, cioè di rinnovare la memoria cercandola oltre
le parole». Non che Toscani abbia svalutato le parole, anzi: i suoi bambini
parlano, alcuni pocoo per niente, ma altri tanto, tantissimo. Raccontano le loro
esistenze spezzate troppo presto: «Ogni giorno andavo là dove avevo perso la
mamma, l'andavo sempre a cercare» (Adele Pardini, 4 anni). Raccontano ciò che
ricordano troppo, ma anche ciò che non possono ricordare perché erano piccoli,
ma che hanno imparato a ricordare di riflesso, immersi da sempre nelle
narrazioni della comunità, nel racconto corale mille volte ripetuto, «perché
in paese, sempre, non si faceva che parlare di questi fatti, quasi quasi mi
sembra di averli vissuti in maniera diretta» (Ennio Bazzicchi, 3 anni). «Le
cose le so perché me le hanno raccontate gli altri, ho il rammarico di non
poter ricordare» (Liliana Mancini, 2 anni). In questi sessant'anni la memoria
di Stazzema é diventata un'epica, un unico racconto dell'Omero collettivo,
ormai fissato nei suoi canoni, divenuto nel tempo un meta orrore, una pedagogia
dell'orrore, un patrimonio di tutti, da raccontare ai visitatori o alle
scolaresche in gita. Narrare è un gesto di autodifesa, raccontare il passato
significa tenerlo a distanza, ma quello di Stazzema è un passato che fa fatica
a passare. Le parole, anche quelle familiari e maneggevoli del dialetto, non
riescono a domarlo, sono penosamente insufficienti a isolare l'orrore in una
condanna: «Un lo dovevino fa', un istà bene», «La cattiveria è sempre una
cosa cattiva». Le parole non curano la grande ferita, neppure odiare l'odio
serve a nulla: «L'odio no! No! L'odio porterà altro odio!». Alla fine, i
bambini vecchi restano muti, svuotati: «Basta», «Basta adesso», così
s'interrompe bruscamente più d'un racconto. Ma è qui, allora, quando terminano
le parole, che le fotografie continuano. Toscani ha scattato da vicino, da
vicinissimo, «Sono andato a cercarli» spiega, «fin dentro le loro rughe».
Niente sfondo, pagina invasa e letteralmente riempita dai volti, spesso solo
dagli occhi, l'unico particolare sempre perfettamente a fuoco. Gli occhi,
specchio dell'anima, sono uno specchio nero quando l'anima è scura. Le pupille,
in questi ritratti, riflettono sempre qualcosa, il profilo d'un albero, il
crinale d'un monte, forme confuse che potrebbero anche essere qualcosa d'altro,
fiamme, cataste di corpi bruciati, immagini indelebili, che urlano ancora
d'angoscia: «L'ho sempre in mente, sempre! Sempre! Sempre!» (Licia Pardini, 12
anni). Immagini che ha cancellato, ma l'inconscio no: «Mi sognavo proprio
questo ammasso di cadaveri, che quello gli mancava la gamba, quello era
carbonizzato...» (Massimo Mancini, 9 anni). Immagini allucinate: «In cima al
mucchio una gamba aveva una calza nera e mio padre mi disse: vedi questo? E' il
nostro parroco» (Aldo Ulivi, 6 anni). Immagini così concrete che si possono
toccare, annusare: «L'odore della carne bruciata, questa ancora oggi mi sta
perseguitando ancora» (Enio Mancini, 6 anni).
Se la fotografia è «la presenza di un'assenza», queste sono fotografie al
quadrato. Le immagini che nessuno quel giorno scattò, Toscani le ha trovate
oggi, pescandole nel pozzo di quegli sguardi, «Mi parlavano mentre li
fotografavo», dice Toscani, «e i loro occhi raccontavano più delle loro
parole». Occhi lucidi, le lacrime sul ciglio, pronte a traboccare. «Troppe
cose, basta così», ma il fotografo è stato pronto sul pulsante, nell'attimo
decisivo prima che gli occhi, come la bocca, come il cuore, tornassero a
chiudersi.
la
Repubblica - 11
luglio 2003
"Pronta
la commissione sulle stragi nazifasciste"
Il
presidente della Camera Casini a Sant'Anna di Stazzema - Il sindaco alla
cerimonia per ricordare la Liberazione di Firenze
ROMA
- È scattato il conto alla rovescia, la commissione parlamentare d'inchiesta
sulle stragi nazifasciste è ormai ai nastri di partenza. Lo ha annunciato il
presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, a Sant'Anna di Stazzema, il
paese della Versilia dove la mattina del 12 agosto del 1944 le squadre delle Ss
guidate da Reder e Kesserling trucidarono 360 donne, vecchi e bambini. è stata
la strage più odiosa fra quelle compiute nel 1944 lungo la Linea Gotica, ancora
senza colpevoli. Il presidente dell'assemblea a una cerimonia in ricordo delle
vittime, ha infatti detto: «Due giorni fa sono stati consegnati al presidente
del Senato i nomi dei membri della Camera nella commissione d'inchiesta sui
fascicoli dimenticati». Dunque, la commissione parlamentare sull'occultamento
dei 695 fascicoli che potrebbero far luce sulle responsabilità nelle stragi che
dal 1943 al 1945 insanguinarono l'Italia, «presto potrà avviare i lavori».
Non soltanto. Casini ha sottolineato: «Per quanto attiene alla mia
responsabilità mi sento di poter assumere un preciso impegno in questo senso».
Il presidente della Camera ha voluto ricordare due elementi che hanno segnato
«una inversione di tendenza» nella volontà di fare emergere la verità sulla
vicenda, non dimenticando che «per un periodo purtroppo non breve l'attenzione
delle istituzioni non è stata adeguata». Pier Ferdinando Casini ha così
citato l'istituzione del Parco della Memoria, avvenuta nel 2000, e quella della
commissione parlamentare sui fascicoli dimenticati, voluta nel maggio scorso. E
ha ricordato che nella tredicesima e nella quattordicesima legislatura, che
hanno visto alternarsi al governo il centrosinistra e il centrodestra, «si è
registrata la sostanziale volontà di maggioranza e opposizione». Un fatto che
«dimostra che la memoria non ha colore politico». Casini ha, tra l'altro,
inaugurato una mostra di fotografie di Oliviero Toscani, immagini che ritraggono
i volti di chi nel 1944 conobbe con occhi di bambino l'orrore della strage. Sei
persone sono già state identificate dalla magistratura come nazisti
responsabili, tra altri, dell'eccidio di Sant'Anna di Stazzema. È già stato
chiesto il loro rinvio a giudizio. A quasi sessant'anni da quel tragico 12
agosto del 1944, tutti i partecipanti alla cerimonia di commemorazione ieri si
sono augurati che presto possa esserci un processo, nella speranza di un barlume
di giustizia su uno dei più efferati delitti della seconda guerra mondiale.
la Repubblica - 2 agosto 2003
"Giustizia
per le stragi naziste ancora impunite"
E
il rettore Marinelli: "Quell'11 agosto è rinata la democrazia".
Presenti solo due esponenti del centrodestra
Il
sindaco alla cerimonia per ricordare la Liberazione di Firenze
di
M. V.
«È
necessario che siano riaperti i fascicoli e il cosiddetto "armadio della
vergogna" per far andare avanti le inchieste, non per vendetta ma per
ricordare e fare luce sui quei tragici giorni». Così il sindaco Leonardo
Domenici, che oggi sarà a Sant'Anna di Stazzema, ha ricordato la Liberazione di
Firenze dai nazifascisti avvenuta 59 anni fa. Di fronte agli stendardi delle
associazioni partigiane allineati nel salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio,
dopo aver deposto una corona al monumento dei caduti in piazza dell'Unità
italiana, Domenici ha chiesto «giustizia per le stragi rimaste impunite»
ribadendo che le inchieste devono proseguire. Un messaggio «per il Parlamento e
per il governo», ha spiegato davanti alle autorità civili e militari. Davanti
anche ad un inviato della Curia, monsignor Alessandro Berti. Ma non davanti al
centrodestra, che ha quasi disertatole celebrazioni: solo il consigliere azzurro
Graziano Grazzini, che è vicepresidente del consiglio comunale, e l'ex
parlamentare dell'Udc in qualità di presidente della biblioteca pedagogica,
erano presenti nel salone affollato dai gonfaloni (Scandicci, Fiesole, Bagno,
Lastra a Signa, Sesto, Rufina, Pontassieve, Greve, Rignano, San Casciano
Vaglia). Con il sindaco Domenici oggi a Stazzema per ricordare l'eccidio
ayvenuto il giorno dopo la liberazione dei capoluogo toscano, è toccato
quest'anno al rettore Augusto Marinelli tenere la commemorazione.
«L'insurrezione di Firenze, che vide la partecipazione di formazioni partigiane
espresse da tutti i raggruppamenti politici, dai comunisti ai liberali e dai
democratici cristiani ai socialisti - ha detto Marinelli - precostituì la trama
dell'autogoverno, a Firenze è rinata la democrazia italiana». Il rettore ha
poi ripercorso momenti importanti della vita di Firenze, citando l'alluvione e
in tempi molto più recenti anche il Social forum europeo: «È stato un atto di
grande coraggio, perché i giovani si proiettano in avanti, si sentono cittadini
del mondo e hanno un'acuta sensibilità per l'ingiustizia» Sfiorando
l'attualità però Marinelli ha anche detto che «Firenze non può essere solo
la città dei musei e della bellezza architettonica, non può vivere di un
centro storico da contemplare perché ciò che si contempla ma che si considera
estraneo all'oggi è morto». Una delegazione di An si è recata come ogni anno
a rendere maggio al sacrario della Repubblica sociale a Trespiano. Mentre
l'associazione «A voce forte» di Forte dei Marmi ha scelto di ricordare le 560
vittime, in gran parte donne, anziani e bambini, uccise a Sant' Anna di Stazzema
con le bandiere a mezz'asta nelle stazioni balneari della riviera versiliese.
la Repubblica - 12 agosto 2003
"Stazzema
sia simbolo di pace"
Il
sindaco ha proposto che i Comuni collaborino con la commissione d'inchiesta
sull'eccidio - Domenici alla cerimonia per i 59 anni della strage nazista -
Fassino: "Il dovere della memoria deve aiutarci a costruire il futuro"
di
Simona Poli
Molti
non hanno ancora un volto, un nome, un fascicolo aperto a loro carico in un
processo per strage. Gli assassini di Sant'Anna di Stazzema, quelli che
sterminarono 560 civili innocenti nell'agosto del '44, hanno vissuto e ancora
vivono impuniti. Ieri è stato il sindaco di Firenze Leonardo Domenici,
presidente dell'Associazione dei Comuni, a parlare di fronte all'ossario delle
Alpi Apuane nel 59° anniversario dell'eccidio. «Anche a distanza di quasi
sessanta anni è giusto dare un nome agli autori delle stragi naziste. Non per
vendetta ma per il rispetto della memoria e per l'accertamento della verità e
soprattutto per superare quell'oblìo che è durato troppi anni», ha detto.
Riaprire gli archivi della vergogna, avviare finalmente le inchieste sulle
stragi compiute in tempo di guerra. È una battaglia che il Parlamento ha vinto,
dopo anni di attese e rinvii. Le procure tedesche e quelle italiane collaborano.
NON è tardi, non sarà mai tardi per rendere giustizie alle vittime ha
ricordato Domenici. «Il 2003 è stato un anno comunque importante, il
presidente della Repubblica ha conferito un riconoscimento alla memoria a Genny
Marsili, il presidente della Camera Pierferdinando Casini, cui seguirà, ne sono
certo, il presidente del Senato, si è impegnato per l'istituzione di una
commissione parlamentare d'inchiesta. Bisogna ripartire da qui. È giusto dare
una risposta a chi si chiede se dopo così tanti anni valga ancora la pena di
cercare la verità: noi diciamo di sì, non finiremo mai di impegnarci, non ci
fermeremo e questo deve essere un monito per tutti, sapere che c'è una
giustizia che non si ferma. Chiederò, sia come sindaco di Firenze che come
presidente dell'Anci, che nella futura commissione d'inchiesta sulle stragi
nazifasciste i Comuni italiani siano resi coprotagonisti e possano svolgere un
ruolo non solo di auditori». Sotto al sole rovente ieri la cerimonia è
iniziata con la deposizione delle corone di alloro delle istituzioni al
monumento ai caduti, poi è stata celebrata una messa dal vescovo vicario di
Livorno Paolo Razzauti. Oltre a Domenici hanno parlato l'assessore regionale
Marco Montemagni, il sindaco di Stazzema Gian Piero Lorenzoni, il vicepresidente
del consiglio regionale Enrico Cecchetti e il presidente della provincia di
Bologna Vittorio Prodi. A Lorenzoni ha inviato un messaggio il segretario dei Ds
Piero Fassino: «Il dovere della memoria deve aiutarci a costruire un futuro in
cui non ci sia più la possibilità di creare aberrazioni e discriminazioni»,
scrive Fassino. «Il dovere della memoria ci deve anche impegnare a combattere
ogni tentativo di revisionismo teso a delegittimare non solo la verità storica
ma il concetto stesso di solidarietà e rispetto della persona umana».
la Repubblica - 13 agosto 2003
Stazzema:
"Un riconoscimento a Milena"
Un
riconoscimento a Milena Bernabò: lo propone l'onorevole Carlo Carli (Ds)
che ieri dopo aver fatto visita alla signora Bernabò ha scritto al ministro
degli Interni. La donna, sopravvissuta alla strage fascista di Sant'Anna di
Stazzema dell'agosto 1944, allora sedicenne, riuscì a portare in salvo tre
ragazzini. Milena Bernabò fu rinchiusa in una stalla alla quale i nazisti
diedero fuoco. Lei, nonostante fosse ferita, riuscì a scappare dal soffitto e a
portare in salvo i bambini.
la Repubblica - 28 agosto 2003
Quei
ventinove partigiani impiccati da un giurista
Le
ricerche dello storico Carlo Gentile rivelano il colpevole della strage dei
nazisti in fuga il 5 settembre '44 - Torna alla luce il boia di Figline di Prato
- "Fu il maggiore Karl Laqua a dare l'ordine - Nell'agosto '44 la sua
divisione sterminò quattro adulti e cinque ragazzi alla Consuma" -
"Cercare la verità senza strumentalizzarla far capire che i crimini non
resteranno impuniti, parlarne a scuola coi giovani"
di
Simona Poli
Li
misero in fila in ventinove davanti al patibolo, quelli che dovevano
salire erano costretti a rimuovere i cadaveri dei compagni uccisi prima di loro.
I tedeschi guardavano, il comandante fumava lentamente una sigaretta, poi
un'altra sigaretta, poi un'altra ancora mentre dava l'ordine di stringere il
cappio intorno al collo dei partigiani. Uno che vide tutto, che ha raccontato la
strage, disse che c'era una specie di sorriso sulla sua faccia, sembrava che
godesse dello spettacolo, ripeteva ridendo e storpiando le parole l'ultimo grido
dei condannati «viva l'Italia libera». Era la notte tra il 5 e il 6 settembre
del '44 (il 6 fu il giorno della liberazione) quando a Figline di Prato, sulla
mulattiera che porta a Migliana, alle falde del monte Javello, la Wermacht di
Kesselring in fuga verso il nord rastrellò e ammazzò prima alcuni civili e poi
un gruppo di combattenti che ritenevano responsabili di aver ucciso tre soldati
tedeschi. Tra le stragi compiute in Toscana questa non è tra le più note,
anche se il nome del comandante alto e bruno che guardava morire i partigiani
fumando e ridendo adesso è conosciuto. A scoprirlo è stato lo storico Carlo
Gentile, consulente di varie procure militari italiane ed europee per i crimini
di guerra e docente all'università di Colonia. Nella sua documentazione ha
trovato riscontri precisi e li ha raccontati in un incontro pubblico nel Museo
della deportazione, coordinato da Camilla Brunelli, a cui partecipava anche lo
storico Ivano Tognarini, docente a Siena e presidente dell'Istituto storico
della Resistenza.
Professor
Gentile, chi era il boia di Figline?
«Era
il maggiore Karl Laqua nato il 28 luglio del 1903 a Maerdorf, una cittadina del
Reich ora nel territorio della Repubblica Ceca. Era un ufficiale di complemento,
comandante del primo battaglione del reggimento granatieri 755. Attualmente
quella di Figline resta l'unica strage che gli viene direttamente imputata. Ma
è noto che la divisione di cui faceva parte si macchiò di altri eccidi tra
metà luglio e metà agosto del '44 nel Pratomagno: vicino alla Consuma morirono
nove civili, cinque poco più che bambini».
È stato difficile ricostruire
l'identità di Laqua?
«Come
esperto del periodo sono risalito piuttosto facilmente al nome del comandante,
credo che anche la procura di La Spezia che indaga su quella strage abbia fatto
il mio stesso percorso. Sarebbe interessante capire come Laqua abbia proseguito
la sua vita, se sia stato ucciso in guerra oppure sia riuscito a fuggire, a
nascondersi. Ora avrebbe più di cento anni, ormai è morto di sicuro».
Come è iniziata la sua indagine?
«Ci
sono documenti del tempo. Gli americani a metà dell'ottobre 1944 aprirono un
fascicolo, il comandante Clark si trovava a Prato e fu informato dell'eccidio
compiuto poche settimane prima. Fu lui a inviare quattro investigatori della Fbi
che interrogarono alcuni testimoni, tra cui don Milton Nesi, parroco di San
Bartolomeo a Coiano. Ci fu poi un supplemento di indagine curato da agenti
britannici, poi nel '46 il dossier fu consegnato alle autorità italiane e se ne
persero le tracce».
Finì
nel cosiddetto "armadio della vergogna" insieme a tanta altra
documentazione sulle stragi nazi-fasciste?
«Si,
ci è rimasto fino al '94 e poi è stato consegnato alla procura militare di La
Spezia. A Figline però quella strage non era mai stata dimenticata, lo storico
locale Michele Di Sabato ha scritto vari libri sull'argomento».
Chi
era Karl Laqua?
«Un
funzionario della giustizia, un giurista dell'apparato nazista richiamato in
servizio come ufficiale. Quei trenta partigiani uno riuscì a scappare prima
dell'impiccagione - appartenenti alla brigata Bogardo Buricchi erano stati
catturati dopo uno scontro con l'esercito tedesco sulla collina di Pacciana.
Furono giustiziati nella piazza di Figline, Laqua assistette compiaciuto».
A
distanza di sessant'anni è ancora importante trovare il nome dei colpevoli?
Cercare la verità?
«Solo
sulla base della verità si costruisce una memoria utile per tutti, anche se non
si arriva mai alla verità con la V maiuscola ma a una versione storica più
vicina possibile alla realtà dei fatti. Ovviamente esiste il rischio che
l'interesse si indebolisca, il tempo passa, i testimoni scompaiono, i giovani
sono meno informati. Ma all'incontro di Figline è venuta tanta gente, che ha
fatto domande, che era curiosa. L'importante parlare di quel periodo nelle
scuole, importante scrivere e raccontare la storia senza strumentalizzazioni,
far capire che nessun crimine può restare impunito, che ci sarà sempre
qualcuno che indaga, apre gli armadi, cerca la verità».
la
Repubblica - 5 settembre 2003
Otto
settembre storia complessa degli italiani
Le
varie letture di una data al di là delle polemiche -
Una più serena visione critica dopo l'ondata revisionista
di
Pietro Scoppola
Cosa
c'è ancora da dire sull'8 settembre a sessant'anni dall'evento che non sia
celebrativo? Può sembrare paradossale eppure quella data è divenuta con il
trascorrere del tempo più pregnante, più significativa, più coinvolgente.
Hanno certo contribuito a questo recupero dell'8 settembre le molte iniziative
del presidente Ciampi, iniziative passate e iniziative che si annunciano per la
prossima ricorrenza: sarà fra l'altro presente, con una testimonianza, in una
rievocazione di Rai 3 in onda proprio l'8 settembre. Ma se l'attenzione del
presidente a quella data ha contribuito al suo recupero, non credo si possa
considerarne la causa: Ciampi ha piuttosto colto e ha dato voce a qualcosa che
era maturato nella coscienza del Paese e nel mondo stesso della cultura.
Anzitutto nella coscienza del Paese: la memoria di quegli eventi è ormai non
spenta ma pacificata; non suscita più violente reazioni e contrapposizioni
emotive; chi custodisce ancora quella memoria reagisce con fastidio ai
tentativi, per fortuna sempre meno frequenti, di servirsi di quegli eventi per
la polemica politica. È una memoria insomma distesa che consente, senza
livellare il giudizio sulle scelte di allora, di comprendere tutta la
complessità di eventi che non furono solo militari o politici, ma che
coinvolsero in profondità il vissuto degli italiani. E qui il processo
spontaneo a livello di memoria collettiva si intreccia e si salda con il lavoro
degli storici. L'ondata revisionista degli anni Novanta, quella per intendersi
riassunta nella formula dell'8 settembre «morte della patria», si è esaurita
e si è sciolta in un recupero di aspetti rimasti in ombra della vicenda: in
fondo il revisionismo aveva rovesciato senza superarla la storiografia «di
sinistra» degli anni Settanta; l'esasperata rivendicazione, negli anni
Settanta, del ruolo dominante se non addirittura esclusivo della lotta
partigiana, il disinteresse o almeno la sottovalutazione del ruolo dei militari,
i «badogliani» come spregiativamente venivano chiamati dalle bande partigiane
più politicizzate, si sono ribaltati nel revisionismo in un drastico
ridimensionamento dell'importanza della Resistenza ai fini della liberazione del
Paese e in una visione restrittiva della Resistenza stessa; la polemica contro
gli attendisti si è rovesciata a sua volta nell'immagine della lunga zona
grigia di indifferenza fra le due minoranze in lotta fra loro. Il revisionismo
ha esaurito il suo compito e ha provocato una feconda reazione che porta ad una
più ampia e serena visione critica, nella quale tutta la complessità del
fenomeno «resistenza», non solo militare ma anche civile ritrova i suoi spazi.
L'8 settembre diventa una data simbolo intorno alla quale molti fili della
ricerca storica si incontrano e si saldano. Dopo la fondamentale ricerca di
Elena Aga Rossi nel suo classico lavoro di dieci anni fa, Una nazione allo
sbando. L'armistizio italiano del settembre 1943, la letteratura sull'8
settembre si è notevolmente arricchita. È in atto un pieno ricupero del ruolo
svolto dai militari: proprio in questi giorni compare nelle librerie un
documentato volume di Carlo Vallauri (di cui ha parlato ieri Lucio Villari ndr),
I soldati. Le forze armate italiane dall'armistizio alla liberazione, (Utet
2003), nel quale l'aspetto più suggestivo non è tanto la ricostruzione della
vicenda militare ma la riflessione sulle premesse morali e psicologiche che
hanno portato all'impegno armato contro i tedeschi: di fronte al dissolversi di
tutte le istituzioni il fatto di assumere personalmente, da soli, le proprie
responsabilità è stato un elemento decisivo ai fini della ricostruzione morale
del Paese. Da qualche anno sono tornati alla luce molti documenti sulle
rappresaglie compiute dalle truppe germaniche a carico delle popolazioni civili:
dopo il riarmo della Germania il clima della guerra fredda aveva steso un velo
di oblio su questi episodi. È in atto un grande lavoro, che coinvolge molti
comuni specie della Toscana, per il ricupero della memoria popolare su questi
eventi e compaiono libri di memorie che contribuiscono a darci lo spessore del
vissuto popolare. E ancora: i luoghi della Resistenza vengono rivisitati e
ridefiniti nella loro configurazione di allora. I luoghi della disperata ed
eroica resistenza a Roma dopo l'8 settembre hanno visto storici e architetti
collaborare in una suggestiva ricerca coordinata da Piero Ostilio Rossi. Si
potrebbe continuare. Ma tanto basta a mostrare che l'8 settembre non è una data
esausta per il trascorrere del tempo e condannata perciò al lustro e al
grigiore della ufficialità: al contrario è una data che aiuta ed obbliga a
riscoprire tutta la complessità e la ricchezza della storia da cui è nata la
nostra Repubblica.
la Repubblica - 8 settembre 2003
Strage
di S. Anna di Stazzema saranno processati sette nazisti
Rinvii
a giudizio firmati dal procuratore militare di La Spezia
GENOVA
- Sette
rinvii a giudizio per altrettanti nazisti che avrebbero preso parte il 12 agosto
1944 alla strage di Sant'Anna di Stazzema, quando il paesino toscano fu messo a
ferro e fuoco. Quel giorno furono massacrate 560 persone, per la maggior parte
vecchi, donne e bambini. I rinvii a giudizio sono stati firmati dal procuratore
militare della Spezia Marco De Paolis. I sette nazisti chiamati alla sbarra
hanno tutti più di ottant'anni. Alcuni degli indagati iniziali sono morti in
questi anni. Si tratta di un caso ad elevato valore simbolico: quello di
Sant'Anna di Stazzema è infatti uno degli episodi più atroci avvenuti fra l'8
settembre del 1943 e l'aprile del 1945, quando la violenza degli squadroni
nazisti si accanirono contro i civili italiani, e fece registrare oltre 400
stragi. L'inchiesta sulla strage è ripartita grazie all'apertura nel 1994
dell'"armadio della vergogna", dove per più di trent'anni erano stati
sepolti i risultati delle indagini sulle stragi svolte nell'immediato
dopoguerra. Oltre 200 dei fascicoli ritrovati nell'"armadio della
vergogna" sono stati affidati alla Procura militare della Spezia.
la
Repubblica - 11
ottobre 2003
Dieci
SS accusano: "Furono loro i boia"
La
procura militare di La Spezia ha chiuso l'inchiesta sull'eccidio del 12 agosto
1944, dove furono massacrate 560 persone - Sant'Anna di Stazzema, chiesto il
processo per sei nazisti -
Individuati anche grazie alle deposizioni di altri soldati tedeschi o di
disertori interrogati dagli Alleati poco dopo la strage
di
Maurizio Bologni
L'indagine
è arrivata ad un passo dai nomi che avrebbero riaperto le ferite più dolorose.
Sono i nomi degli italiani "con accento versiliese" che all'alba del
12 agosto 1944 accompagnarono le SS a Sant'Anna di Stazzema per massacrare 560
civili, tra cui tanti bambini e donne. Per tutto il tempo dell'inchiesta
condotta dalla procura militare di La Spezia, iniziata nel 1994 quando fu
riaperto a Roma l'armadio della vergogna coi dossier sulle stragi naziste, quei
nomi hanno continuato a riaffiorare e a scomparire, fino a disegnare l'identità
di un uomo che nel massacro perse moglie e figli. Davvero troppo per essere
vero. Così per lui e così per altri: non una prova per processare gli
"italiani". I magistrati hanno invece raccolto indizi sulla
partecipazione di nove ufficiali e sottufficiali tedeschi all'eccidio di
Sant'Anna. E il capo della procura militare Marco De Paolis ha chiesto il rinvio
a giudizio di sei sopravvissuti dopo - la morte il 4 luglio scorso del caporal
maggiore Horst Eggert - gli ex sottotenenti ottantaduenni Gerard Sommer e George
Rauch, gli ex sottufficiali Werner Bruss, 83 anni, Ludwig Heinrich Sontag, 79
anni, Fleinrich Schendel, 82, e Alfred Schoneberg, 82. Le accuse: "Omicidio
contro privati nemici e concorso in violenza pluriaggravata e continuata".
Il gip Anna Marconcini dovrebbe fissare l'udienza preliminare entro dicembre e
l'eventuale processo all'inizio dei prossimo anno. Sessanta anni dopo. La
procura ha spulciato i verbali degli interrogatori di prigionieri di guerra
fatti nell'ottobre 1944 dagli Alleati, gli organigrammi delle SS, le indagini
della questura di Massa, vecchi rapporti e deposizioni. Ma i magistrati e i
carabinieri bilingue altoatesini hanno soprattutto interrogato almeno una
ventina di anziani cittadini tedeschi sospettati di aver partecipato alla
strage. Nove sono quelli finiti nell'inchiesta come indagati - rimasti in sei
dopo i decessi per cause naturali - mentre un'altra decina sono ex SS che hanno
assunto il ruolo di testimoni a carico dei commilitoni, sebbene siano apparsi
spesso reticenti e lacunosi, disposti semmai a fare i nomi di militari morti.
Alcune deposizioni di questi soldati sono però utilizzate dalla procura come
indizi per chiedere i sei rinvii a giudizio. La procura è così arrivata alla
conclusione che la strage fu compiuta da SS delle compagnie dalla 5° alla 8°
del 2° Battaglione del 35° Reggimento della 16° Divisione SS Panzegrenadier.
In tutto tra i 150 e i 300 uomini. Tra di loro sarebbero però stati notati
anche i berretti col teschio umano delle formazioni SS note come Totenkopf. Alla
fine di un lavoro approfondito il pm De Paolis ha chiesto il rinvio a giudizio
solo di ufficiali e sottufficiali nei confronti dei quali fossero stati raccolti
più indizi di partecipazione all'eccidio. Ad accusare l'ex sottotenente Gerard
Sommer, che fece parte del 2° Battaglione, sono ad esempio tre elementi. Un
disertore diciannovenne, Willy Haase, interrogato dagli Alleati, sostenne che
l'intero 2° Battaglione partecipò alla strage, e un altro ex militare tedesco,
sentito in questi anni dalla procura di La Spezia, ha specificato che
sicuramente tra le compagnie presenti a Sant'Anna quella mattina c'era la 7°
comandata da Sommer. Questo nome, "G. Sommer", compare infine nella
postilla di un Rapporto del Comando alleato sugli organigrammi SS come persona
che avrebbe partecipato all'eccidio. Sommer, interrogato di recente ad Amburgo,
si è avvalso della facoltà di non rispondere. Al suo avvocato di fiducia,
Andrea Amati di La Spezia, ha invece assicurato: "A Sant'Anna non c'ero,
mai compiuto atrocità come questa". E il legale, autore di una memoria
difensiva che non ha evitato la richiesta di rinvio a giudizio del suo
assistito, è pronto a dare battaglia: "Abbiamo le prove che Sommer assunse
il comando della 7° compagnia nel settembre 1944, quando la strage era già
stata compiuta".
la
Repubblica -12
ottobre 2003
Priebke
alla radio chiede la grazia ma non si pente
Condannato
per le Fosse Ardeatine - Entro
pochi mesi chiuse le indagini per altri massacri compiuti in Toscana
ROMA
- Erich Priebke chiede la grazia dai microfoni della Rai. Succederà questa
mattina alle 9 a "Radio Anch'io", la trasmissione di Radio Uno che ha
deciso di mandare in onda l'intervista di Bruno Sokolowicz bloccata l'11 ottobre
dopo le proteste dell'Anpi e dei familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine.
Priebke, che ha 90 anni, esprime il desiderio di poter riabbracciare la moglie
malata che vive in Argentina. Ai parenti delle vittime l'ex ufficiale delle SS
condannato all'ergastolo, ora agli arresti domiciliari a Roma, dice di essere
pronto al dialogo. Nell'intervista Priebke afferma anche: «Fu una grande
tragedia personale. Ma non la volli io, dunque non posso dire di essere
pentito».
la
Repubblica - 20 ottobre 2003
Diversi
ex soldati tedeschi nel mirino della procura militare
Vicini
ai boia delle stragi dimenticate -
Entro pochi mesi chiuse le indagini per altri massacri compiuti in Toscana -
Gli accusati non rispondono oppure negano di aver partecipato
di
Maurizio Bologni
LA SPEZIA - A giudizio sei ex soldati accusati di essere tra i macellai di Sant'Anna di Stazzema, che il 12 agosto 1944 mitragliarono e bruciarono vivi donne e bambini, 560 le vittime. A giudizio un boia della Certosa di Farneta, che venti giorni dopo, a mezzanotte tra il 1 e il 2 settembre, entrò assieme ad altre SS nel trecentesco edificio religioso a 10 chilometri da Lucca: torturarono i frati e ne ammazzarono dodici. A giudizio quattro massacratori di Marzabotto. Il 2 dicembre, davanti al giudice delle indagini preliminari del tribunale militare di La Spezia, il procuratore militare Marco De Paolis sosterrà la richiesta di processare due ex ufficiali e quattro ex sottufficiali SS che parteciparono all'eccidio di Sant'Anna. E in quegli stessi giorni De Paolis chiederà il processo anche per un SS di Certosa di Farneta. Poi le richieste di rinvio a giudizio per Marzabotto, all'inizio del prossimo anno, ed entro la primavera per altre delle trenta carneficine naziste sulle quali indaga: i rastrellamenti in dodici villaggi e le 160 esecuzioni di Bardine di San Terenzio in provincia di Massa, le stragi aretine di Civitella, San Pancrazio, San Polo e Cornia. I nomi dei responsabili sono agli atti. E così l'anno 2004 promette di passare alla storia come quello in cui sarà fatta giustizia coi processi delle "stragi dimenticate" che tra il luglio e la fine di settembre 1944 tolsero la vita a 2.000 persone. Ora che i massacratori muoiono uno dopo l'altro per vecchiaia, è una corsa contro il tempo quella di Marco De Paolis, 44 anni, romano, per dodici anni a capo dell'ufficio dei gip del tribunale militare di La Spezia e dall'aprile 2002 passato a capo della procura. E' l'ultima possibilità di fare giustizia e ricostruire quei crimini contro l'umanità. A De Paolis dà una mano la stia polizia giudiziaria e il comando generale dell'Arma dei carabinieri, che gli ha affiancato uno straordinario nucleo di carabinieri bilingui, altoatesini di stanza a Bolzano, guidati dal tenente colonnello Roberto D'Elia. "Il loro aiuto è stato prezioso" dice il pm. Nell'ultimo anno e mezzo il magistrato e i carabinieri hanno fatto la spola tra l'Italia e le città tedesche dove sono stati interrogati in rogatoria internazionale indagati e testimoni: Amburgo, Berlino, Stoccarda, Brema e Friburgo. Sentiti una cinquantina di sopravvissuti italiani alla strage di Sant'Anna e una quindicina di tedeschi, indagati e testimoni. L'ultima raffica di interrogatori tra l'aprile e il luglio scorsi. Passati al setaccio migliaia di pagine tratte da archivi tedeschi, inglesi e americani. E alla fine ecco i nomi dei comandanti di compagnia e di plotone ancora in vita che guidarono il massacro di Sant'Anna. "Usarono i lanciafiamme per distruggere i corpi e non lasciare tracce, un disegno criminale tipico delle più spregevoli accozzaglie brigantesche" chiude uno dei suoi rapporti il colonnello D'Elia. I sei incriminati, però, negano. Nessuno ha ammesso responsabilità. L'unico che ha riconosciuto di aver partecipato all'eccidio era stato il settimo indagato, Horst Eggert, che è morto il 4 luglio scorso. Degli altri c'è chi ha scelto la strada del silenzio e chi di non rispondere agli inquirenti. Ma c'è anche chi si difende. Werner Bruss, 83 anni, ex sergente della quinta compagnia difeso dall'avvocato Mauro Boni di La Spezia, attraverso un fresco memoriale si appella ad una donna che, se ancora invita, potrebbe scagionarlo: "Mi dissero che quella mattina avremmo bonificato Sant'Anna dai partigiani dopo aver evacuato il paese. Fui lasciato coi miei uomini all'incrocio tra due sentieri per controllare il passaggio dei civili che sarebbero dovuti arrivare da Sant'Anna. Aspettammo tre ore senza vedere nessuno. Respingemmo indietro solo una donna in stato di gravidanza avanzata. Passando da una fattoria rividi quella mamma. Penso di aver salvato la vita a lei e ai suoi bambini". Alfred Concina, che è tra i testimoni ma non tra gli imputati, sentito il 21 luglio scorso nella casa di cura Johanna Ravad Holzen, ha almeno un moto di orrore: "Sentii parlare di quella porcata, a Sant'Anna. No, non vi presi parte. Non ho mai fatto cose dei genere. Mio padre, italiano, mi avrebbe maledetto".
la
Repubblica - 21
ottobre 2003
Tra
gli aguzzini delle SS italiani col volto coperto
Alcuni
avevano l'accento versiliese, per non farsi riconoscere una retina calava
dall'elmetto fino al mento -
In 17 erano inquadrati nella Sedicesima divisione, cinque sono stati
identificati
di
Ma
LA SPEZIA - Vestivano come gli altri. In mimetica e elmetto. Oppure in uniforme grigioverde e berretto rigido con mostrine delle SS. Una retina di colore blu, alata sotto l'elmetto, copriva i loro volti. Parlavano versiliese. Tra i massacratori delle SS a Sant'Anna di Stazzema c'erano italiani, inquadrati tra i soldati nazisti. E' la novità che con più forza emerge dall'inchiesta della procura militare di La Spezia. Tante testimonianze raccontano di quelle "SS toscane". Alcuni di quei nazisti italiani si mostrarono spietati al pari dei tedeschi. Altri ebbero comportamenti meno violenti. I carabinieri altoatesini hanno cercato di identificarli. "Si è accertato che della Sedicesima divisione SS facevano parte anche 17 italiani" scrive il colonnello Roberto D'Elia nelle ultime pagine del suo rapporto alla magistratura quanti di loro facevano parte del Secondo Battaglione che attuò il massacro? Già accertato che italiani furono costretti a portare munizioni, anche su questo fronte l'inchiesta ha portato novità. E' stata identificata una ragazza "portamunizioni", all'epoca diciannovenne, sentita per la prima volta dagli inquirenti. "In casa mia arrivarono dieci soldati, rapinarono il nonno, mi caricarono in spalla uno zaino e mi costrinsero a seguirli" ha ricordato Marisa C., mai sentita prima. "Lungo il cammino rapinarono una donna, poi la uccisero insieme ad altre quattro persone. Alla fine mi lasciarono inspiegabilmente andare via". Diverso il discorso sugli italiani inquadrati nelle SS. Dei 17, i carabinieri sono riusciti ad identificarne 5. Tre sono morti. Gli altri 2 hanno fornito spiegazioni sufficienti ad allontanare il sospetto di aver partecipato all'eccidio di Sant'Anna. Giacomo M., che vive in Francia e che compirà 79 anni il 2 dicembre, ha sostenuto di essere stato catturato dai tedeschi dopo lo sbandamento dell'8 settembre e di aver poi accettato di arruolarsi nelle SS per evitare il lager. Sostiene di essere stato destinato alla Decima compagnia, diversa dunque da quelle che insanguinarono Sant'Anna, presso la quale avrebbe fatto il calzolaio. "Non ho mai preso parte a combattimenti, né assistito e tanto meno partecipato a violenze contro cittadini italiani, non ricordo i nomi degli ufficiali del reparto" ha raccontato. Negli archivi tedeschi Giacomo M. risulta in effetti disperso il 4 luglio 1944, prima di Sant'Anna, nella zona di Rosignano. Giordano G., 79 anni da compiere, residente a Milano, era invece arruolato nella compagnia logistica della Sedicesima divisione. Ha ricordato che nel maggio 1944 arrivò in Toscana e che nel giugno ebbe un incidente stradale con il camion e fu catturato. Gli archivi tedeschi confermano. Della presenza a Sant'Anna di "SS italiane" hanno testimoniato i sopravvissuti. Enio Mancini: "Due dei tedeschi che ci portarono a Valdicastello avevano il volto nascosto da una rete. Di questi uno parlava italiano con accento toscano". Lilia Pardini, sentita il 4 aprile 2000: "Prima che ci mitragliassero uno di quei soldati, che indossava l'uniforme tedesca, mi rivolse la parola in italiano con inflessione dialettale versiliese. Ci misero al muro e ci spararono. Il corpo di mia mamma mi fece da scudo e mi salvai". Renato Bono celli, sentito il 9 aprile scorso: "Mio nonno Nello si salvò dall'esplosioni di un lanciafiamme puntato contro la sua casa. Mi raccontò che prima dell'esecuzione aveva incrociato un soldato in uniforme tedesca, a lui sconosciuto, che in perfetto italiano gli aveva chiesto: "Ma come, anche tu qui?". Milena Bernabò, interrogata l'8 aprile scorso: "Sentii alcuni ne SS parlare in italiano, uno dei "tedeschi" aveva una rete di colore blu che gli copriva il volto per non farsi riconoscere". Mauro Pieri: "Uno di quei soldati a Vacarecia parlava in italiano con cadenza dialettale versiliese. Mi fecero entrare assieme a mia madre e a due miei fratelli in una stalla, poi vi gettarono dentro bombe mano e ci mitragliarono, lo mi salvai. Posso descrivere quell'italiano". Avio Pieri: "Sotto la minacci, delle armi delle SS camminavamo lungo una mulattiera quando una donna anziana, di nome Pierotti si rivolse ad no soldato tedesco , che aveva gli occhi coperti da una retina, dicendogli che non ce la faceva più a camminare. Lui le rispose in perfetto toscano: "Seno ce la fai mettiti a sède". Ne vidi altri tre di soldati che parlavano italiano e avevano la faccia coperta dalla retina". Cesira Pardini: "Una donna, di nome Maria Bonucelli in Gamba, si rivolse ad un soldato con il volto coperto chiedendogli pietà per suo figlio di 14 mesi morente di leucemia Il soldato tirò fuori la pistola dalla fondina. Sparò in testa prima a lei e poi il bimbo".
_____________________________________________________________
Stragi in Toscana, altre ex SS nel mirino
La procura militare di La Spezia sta per chiudere le indagini su vari eccidi del '44
È
una corsa contro il tempo, i boia invecchiano, i boia muoiono. Ecco perché si
deve fare in fretta, i processi hanno bisogno di imputati invita, ecco perché
la procura militare di La Spezia sta cercando di stringere per fare giustizia
sulle stragi nazifasciste che insanguinarono l'Italia e la Toscana nel '44: non
solo quelle famose come Sant'Anna a anche quelle dimenticate. Entro la primavera
del 20 la procura promette di chiudere con richieste di rinvio a giudizio altri
dei trenta eccidi nazisti i sulle quali indaga: i rastrellamenti in dodici
villaggi e le 160 esecuzioni che vengono ricordate come la strage di Bardine di
San Terenzio in provincia di Massa, le stragi aretine di Civitella, San
Pancrazio, San Polo e Cornia.
la Repubblica - 21 ottobre 2003
Processo
per la strage di Sant'Anna Regione e Comune parte civile
Oggi
l'udienza preliminare, il pm chiede il rinvio a giudizio di sei ex militari
tedeschi - Nell'eccidio
nazifascista del '44 morirono 560 persone
di
Maurizio Bologni
Stamattina
il gip del Tribunale militare di La Spezia tiene l'udienza preliminare del
processo per la strage nazifascista del 12 agosto 1944 a Sant'Anna di Stazzema,
dove furono trucidati 560 civili (140 erano bambini altri anziani), Il pm Marco
De Paolis - che ha spulciato milioni di carte e interrogato decine di persone
tra l'Italia e la Germania con la collaborazione di un nucleo di carabinieri
bilingui guidati dal colonnello Roberto D'Elia distaccato a La Spezia dal
Comando generale dell'Arma - chiede il rinvio a giudizio di sei ufficiali e
sottufficiali tedeschi ancora in vita, Georg Rauch, Gerhard Sonimer, Alfred
Schöneherg, Werner Bruss, Hainrich Schendel, Ludwig Hainrich Sonntag, che
avrebbero fatto parte delle quattro compagnie della 16° Divisione delle SS
individuate come protagoniste del massacro. Se la richiesta verrà accolta, nei
prossimi mesi si svolgerà il processo pubblico. Regione Toscana, Provincia di
Luogo, Comune di Stazzema ed Associazione "Martiri di Sant'Anna" si
costituiranno parte civile assieme, assistiti dall'avvocatura regionale e da due
campioni del foro: Carlo Federico Grosso, ex vicepresidente del Consiglio
superiore della magistratura e professore universitario, e Paolo Trombetti, già
parte civile per le stragi dell'Italicus, di Vernio e della stazione di Bologna.
Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta, ha comunicato
che anche il Governo sta valutando se costituirsi parte civile. "Si apre
una finestra spettacolare sulla storia d'Italia. Non cerchiamo vendetta, ma
giustizia e verità, anche se abbiamo dovuto attendere 60 anni" ha detto
ieri il sindaco di Stazzema, Gian Piero Lorenzoni. "L'avvio del processo -
ha dichiarato il vicepresidente del consiglio regionale Enrico Cecchetti - un
primo risultato, perché riafferma un diritto fondamentale: i delitti contro
l'umanità non vanno mai in prescrizione".
la Repubblica - 2 dicembre 2003