la Repubblica
L'eccidio
di Barletta
La
Resistenza rimossa: così il sud si ribellò ai tedeschi - Quei
morti dimenticati dalla storia ufficiale
di
Mario Pirani
In
quei giorni del settembre 1943 giorni cittadini, uomini e donne, operai e
studenti, si unirono spontaneamente ai soldati e agli ufficiali che si
opponevano all'invasore. Ebbe inizio quell'unione di popolo che ha permesso
all'Italia di resistere alla tragedia dell'occupazione e della separazione del
territorio. Il filo dell'unità d'Italia non si spezzò". Così si è
espresso Ciampi il 10 settembre in occasione della celebrazione della difesa di
Roma a Porta San Paolo, dove caddero 414 militari e 156 civili. Parole che
ribadiscono concetti già sostenuti molte altre volte negli ultimi tempi,
riassumibili in quelle brevi frasi con cui aprì il discorso pronunciato il
primo marzo scorso a Cefalonia, ricordando i 6.500 trucidati della Divisione
Acqui: "Dimostraste che la Patria non era morta. Anzi, con la vostra
decisione, ne riaffermaste l'esistenza. Su queste fondamenta risorse
l'Italia". Con queste ed analoghe iniziative - citiamo le commemorazioni
della brigata Majella a Sulmona e degli scontri di Piombino - il presidente
della Repubblica ha portato a livello di diffusa coscienza nazionale una
esigenza, in un primo tempo circoscritta all'ambito storico-giornalistico, che
s'imperniava in un irrisolto quesito. Se, cioè, la Resistenza andasse
richiamata essenzialmente alla matrice partitico-antifascista, con una
dimensione popolare significativa ma relativamente ridotta, che ebbe modo di
estrinsecarsi nel Centro-Nord a partire dall'inverno '43 - '44 fino al 25 aprile
'45, così come la storiografia ufficiale ha per un cinquantennio affermato,
oppure quel movimento di riscatto e di rinascita ebbe inizio - e, quindi, anche
dimensione qualitativa e politica nei giorni immediatamente successivi all'8
settembre 1943, con tutti quei fatti d'arme, grandi e piccoli, che
testimoniarono la fedeltà al giuramento, almeno da una parte significativa
delle Forze armate? Ed ancora: in quello scorcio di tempo, susseguente
l'armistizio, quando molte regioni meridionali erano ancora sotto una
occupazione tedesca, spietata e vendicativa, questa non generò forse numerosi e
significativi moti di ribellione e aneliti di libertà, soffocati nel sangue con
stragi efferate, in Campania, in Abruzzo, nelle Puglie, a dimostrazione che il
Mezzogiorno non fu affatto indifferente e assente, come fino ad oggi si tende a
credere? I lettori di tenace memoria rammenteranno forse che due anni orsono (la
Repubblica, 15 settembre 1999) sollevammo la prima questione, cercando,
nell'ambito delle nostre modeste possibilità, di far uscire dall'oblìo
l'eccidio di Cefalonia. Quell'articolo dette impulso ad altre testimonianze
sull'operato valoroso di molte unità dell'Esercito e della Marina, come anche
sull'"altra resistenza", quella dei 600.000 militari internati in
Germania, i quali, malgrado le durissime persecuzioni (non pochi i trucidati),
rifiutarono in grandissima maggioranza di aderire alla repubblica di Salò.
Episodi terribili, eroismi commoventi, sacrifici individuali e collettivi sono
emersi da questo affluire di testimonianze e ricordi. Su questa scia le Forze
armate hanno recuperato un filone di orgoglio che la catastrofe aveva
completamente cancellato, col suggello di quella teoria sulla "morte della
Patria" che non lasciava scampo ad alcuna rivisitazione e ripensamento.
Ora, proprio la scesa in campo di Ciampi, con i suoi ripetuti e insistenti
richiami, hanno indotto almeno una parte dell'opinione pubblica ad una visione
opposta dell'8 settembre ("in quei giorni la Patria rinacque nella nostra
coscienza.... la dissoluzione dello Stato fu un trauma spaventoso al quale
sentimmo di dover reagire... gli italiani devono qualcosa a tutti coloro che
dopo l'8 settembre reagirono... non furono pochi ... grazie a loro l'Italia è
rinata... l'anelito di libertà e di giustizia, il sentimento di dignità
nazionale si sono poi consolidati e hanno assunto espressione nella Costituzione
repubblicana"). Come non cogliere il valore dirompente, nient'affatto
retorico ma, se mai, in contro tendenza, del "viaggio nella memoria"
che il presidente della Repubblica ha intrapreso e riproposto agli italiani?
Davvero un'alta prova di revisionismo storico indispensabile, offerto
soprattutto alle generazioni più giovani, succubi spesso di una ricostruzione
distorta, settaria o riduttiva delle vicende nazionali. Ne sta uscendo, quindi,
un quadro assai più completo e ricco su cosa avvenne in Italia dall'8 settembre
1943 al 25 aprile 1945. Tanti attori ammutoliti riprendono a parlare, quasi
sempre attraverso la testimonianza di chi è sopravvissuto o ha raccolto di
persona il lascito dei suoi morti. Tanti paesi che resistettero alla barbarie
nazista, pagando conseguenze durissime, tornano a richiedere che quei sacrifici
vengano rievocati per contribuire alla formazione di una coscienza civica
consapevole della sua ascendenza. Quanti ad esempio hanno sentito fin qui
parlare della battaglia e degli eccidi di Barletta (Bari)? E' con commozione che
l'8 settembre, appunto, accettando un invito del Comune, ho partecipato a una
commemorazione-dibattito con un folto pubblico, soprattutto di studenti, che
volevano sapere e che - molti per la prima volta - venivano a conoscere cosa era
accaduto lì, nelle strade che tutti i giorni frequentavano. Un filmato,
documenti e foto ripescati dagli archivi tedeschi, ricerche locali hanno
raccontato di come, ricevuto alle due del mattino dallo Stato maggiore
rifugiatosi a Brindisi l'atteso ordine di "considerare le truppe germaniche
come nemiche", il comandante dei presidio di Barletta, colonnello Francesco
Grasso, desse ordine alle sue poche e male armate truppe (si trattava
soprattutto di reparti territoriali) di schierarsi a difesa della città. Narra
in proposito lo storico tedesco Gerhard Schreiber (encomiabile studioso, autore
di importanti ricerche sull'occupazione germanica in Italia, tra cui La vendetta
tedesca: le rappresaglie naziste in Italia, Mondadori) che la Wehrmacht aveva
deciso di trasformare Barletta in un caposaldo della linea di difesa che si
stendeva dall'Adriatico al Tirreno, nei pressi di Salerno. All'uopo unità
scelte della Prima Divisione paracadutisti si diressero per occupare la città e
il porto ma, con grande sorpresa dei generali comandanti e dello stesso
feldmaresciallo Kesselring, l'attacco fallì per la strenua resistenza dei
soldati italiani che distrussero quattro carri armati, due autoblindo e fecero
150 prigionieri fra gli attaccanti. Solo dopo due giorni di battaglia, con
l'ausilio di nuovi reparti corazzati e di un pesante bombardamento aereo e
terrestre, i tedeschi riuscirono a sfondare. Di fronte alla minaccia di far
saltare la città intera, il colonnello Grasso, che con i reparti residui si era
chiuso a difesa all'interno del castello, accettò di arrendersi e venne
deportato in un lager fino alla fine del conflitto. I caduti italiani furono 71
(37 militari e 34 civili), le rappresaglie spietate. Un ragazzino di 14 anni
venne finito con una revolverata alla testa di fronte alla madre per aver tirato
un sasso. Una donna venne uccisa per aver traversato col suo carretto la strada
dove passava una colonna di paracadutisti. Ma l'atto più nefando fu
l'esecuzione di undici guardie municipali e di due netturbini, catturati nei
locali del municipio e messi a morte per rappresaglia. Altri venti cittadini
persero la vita nei giorni seguenti nella caccia all'uomo intrapresa dai
tedeschi per le vie della città. Nei confronti di Cefalonia, la battaglia di
Barletta e il suo tragico esito hanno certamente dimensioni di gran lunga
minori. Esso, però, dimostra ancora una volta, che, dove gli ordini vennero
dati, i militari italiani non cedettero, da subito dopo l'8 settembre,
innescando il movimento di resistenza all'occupazione nazista. Una resistenza
che coinvolse anche la popolazione civile e che ebbe come primo teatro d'azione
proprio il Mezzogiorno. E' sempre Schreiber a rammentare che il disarmo della
Settima Armata italiana, che copriva l'area dal Garigliano a Termoli, riuscì
solo grazie alla collaborazione del suo comandante in capo, generale Arisio, che
accettò senza frapporre difficoltà le disposizioni di Kesserling:
"Tuttavia numerose unità - scrive lo storico tedesco - opposero
resistenza. Oltre a Barletta ricordo il sedicesimo reggimento costiero a
Mondragone che rifiutò di deporre le armi e il suo comandante, colonnello
Ferraiulo, con dieci suoi ufficiali venne fucilato. E' doveroso ricordare la
resistenza della guarnigione di Nola alla divisione corazzata Goering,
conclusasi con l'uccisione del comandante del presidio, colonnello Ruberto, e di
nove ufficiali del 48 artiglieria. Sempre l'11 settembre i tedeschi fucilarono a
Castellammare di Stabia, dove gli italiani opponevano strenua resistenza, il
comandante del presidio, colonnello Olivieri, e tre altri ufficiali. Perché
questi fatti sono stati cancellati dalla memoria degli italiani? Perché né gli
storici di sinistra né i "nuovi storici" (preferisco denominarli cosi
invece che revisionisti) non vi hanno dedicato alcuna riflessione? O, meglio,
qualcuno vi è stato, ma chi lo ascolta? Intendo riferirmi alla recente nuova
serie di Nord Sud, la celebre rivista meridionalista fondata da Francesco
Compagna con la collaborazione della nostra compianta Rosellina Balbi, che ha
dedicato un numero unico (nov. - dic 1999) al Mezzogiorno tra guerra e
dopoguerra, a cura di Gloria Chianese, una seria studiosa dell'Istituto campano
per la Storia della Resistenza. I saggi pubblicati ripercorrono, regione per
regione, una mappa fitta di eroismi e di orrori. Se ne analizzano anche le
ragioni di rimozione dalla memoria storiografica o, anche, la riduzione alle
sole Quattro giornate di Napoli, in qualche modo inserite come moto spontaneo -
e, perciò, "diverso"-nella vicenda generale della Resistenza "in
senso proprio". Un ribaltamento della verità e una mortificazione del
ricordo da addebitare alla svalutazione della resistenza militare, da un lato, e
alla colpevole ignoranza dei mille episodi che segnarono le prime rivolte di
popolo in quelle terre. Ora gli studiosi di Nord Sud, con un certosino scavo
documentario, ci trasmettono una realtà tutt'altro che grigia e agnostica. Una
cartina sui fatti d'arme e gli eccidi avvenuti tra il settembre e il dicembre
del '43 traccia una mappa con almeno un centinaio di località di Calabria,
Lucania, Puglie e Campania forse persino più fitta di quelle dell'Emilia o del
Piemonte. Solo che su di esse è calato il silenzio. Chi è più al corrente che
a Matera il 21 settembre scoppiò una vera insurrezione popolare, alimentata
dalle armi distribuite da un ufficiale, Francesco Nitti, che accelerò la
ritirata dei tedeschi, i quali, però, prima di andarsene, fecero esplodere la
caserma con 21 ostaggi? Chi rammenta che, sempre in Lucania, a Rionero in
Vulture la popolazione assaltò un magazzino militare e, dopo una settimana,
scattò la rappresaglia, alla quale, per la prima volta, accanto ai tedeschi,
partecipano le milizie repubblichine che mitragliano 18 civili? E l'Abruzzo-Molise
che conta l'insurrezione di Lanciano, l'eccidio di Pietransieri, caposaldo della
linea Gustav con 110 vittime, la battaglia di Bosco Matese del 25-26 settembre,
dove le prime bande partigiane mettono alla frusta reparti alpini tedeschi,
appoggiati da artiglieria pesante? Il bilancio finale della Regione sarà di
centinaia di caduti, 1.600 deportati e un coinvolgimento di 6.000 partigiani,
suddivisi in quarantotto bande. Ancor più sanguinosa la repressione in
Campania. Le deportazioni, le razzie, gli incendi cui si abbandonano le truppe
naziste alimentano la rivolta. Da Castellammare a Ponticelli, da Scafati a Nola,
da Marano a Mugnano, da Acerra ad Orta d'Atella, da Santa Maria Capua Vetere a
Capua si susseguono gli scontri, le rivolte, le ribellioni cui partecipano
popolani e gruppi militari sbandati. In particolare la Terra di Lavoro, dove la
Wehrmacht approntò ben tre linee difensive: la "guerra ai civili" si
lasciò alle spalle una scia di ben 709 trucidati (83 donne e 626 uomini) di
tutte le età, dai dieci mesi agli 87 anni. Duecentotrenta sono contadini. La
maggior parte cade in seguito ad atti di sabotaggio, alla uccisione o al
ferimento di soldati tedeschi o in veri e propri conflitti a fuoco. Duecento
perdono la vita nel tentativo di sottrarsi ai rastrellamenti, per non aver
rispettato il coprifuoco o per aver violato i bandi di evacuazione dei loro
paesi. Un episodio fra i tanti: a Bellona, la sera del 6 ottobre, un giovane
lancia una bomba per difendere alcune ragazze pesantemente molestate dai
granatieri germanici. Un tedesco cade morto. Il giorno seguente più di cento
uomini vengono catturati, rinchiusi in una cappella e, a gruppi di dieci,
condotti ad una cava di tufo, dove saranno mitragliati, ad eccezione degli
ultimi tre gruppi che in extremis sono risparmiati. Dopo l'esecuzione le pareti
della cava furono fatte saltare, con un precedente che verrà ripreso alle
Ardeatine. Il 17 ottobre con l'arrivo degli anglo-americani l'eccidio sarà
scoperto e le vittime dissepolte.
Tutto ciò non ha forse il diritto di essere chiamato Resistenza e di entrare
finalmente a far parte della memoria storica degli italiani?
la
Repubblica - 16
settembre 2001