la Repubblica

Ma come scriveremo la parola Resistenza?

di Mario Pirani

Scrivo a poche ore dal voto. Quando queste righe appariranno i risultati saranno già noti. Vedremo se avranno o meno prevalso coloro che vorrebbero scrivere la parola Resistenza con la r minuscola, come preconizza don Baget Bozzo, il torbidiccio prete, consigliere ideologico di Berlusconi, oppure quanti ancora credono che quello storico spartiacque tra la libertà e la tirannide nazi-fascista, configuri i valori fondativi permanenti della nostra Repubblica. Comunque mi sembra evidente fin d'ora, quale che sia l'esito elettorale, che il tema seguiterà ad accendere gli animi. Attorno ad esso s'incrociano la problematica neo revisionistica e lo sdoganamento berlusconiano di tutto il post-fascismo (non solo An ma anche Rauti o i sindaci razzisti di Treviso e Chieti). Ambedue tendono a ridurre l'antifascismo ad epifenomeno marginale, discutibile e, comunque, inquinato dalla presenza comunista (basti pensare alle polemiche sulla guerra di Spagna, sull'azionismo, sui cedimenti di Bobbio, sull'8 settembre). In quest'ottica il saggio, apparentemente disincantato, si colloca, senza soluzioni di continuità, a fianco delle direttive del governatore Storace sui libri di testo, così che siano quanto meno "parificati" storicamente ed eticamente, partigiani e ragazzi di. Salò, Marzabotto e l'esecuzione di Mussolini. Si ripete - questa volta con speranza di successo anche politico - una geremiade vecchia di oltre mezzo secolo. E' bene ricordarla. Quando il 18 giugno 1946, il ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti, proclamò l'amnistia per festeggiare la vittoria della Repubblica, erano in carcere circa 40 mila repubblichini. Uscirono quasi tutti in breve tempo. Dovevano seguitare a scontare la pena solo coloro che si erano macchiati di "sevizie efferate". Stravolgendo sconciamente il senso di questa definizione la Cassazione liberò anche i peggiori torturatori (circa 20 mila fascisti si erano persino arruolati direttamente nelle Ss tedesche). In un recente numero del "Diario", lo storico Giovanni De Luna, ricorda alcune di queste sentenze a cominciare da quella che non considerava come particolarmente efferato appendere per i piedi un partigiano e giocare a calci con la sua testa che penzola; così anche un'altra secondo cui "le scudisciate e i calci non possono essere considerate sevizie ma forme normali di violenza"; e ancora l'amnistia venne applicata ad un brigatista nero che aveva finito un partigiano ferito perché costui "era morituro senza speranza di salvarsi"; quanto ad un capitano della Rsi, accusato per aver, dopo l'interrogatorio, fatta stuprare una partigiana prigioniera "bendata e con le mani legate, da tutti i suoi militi, uno dopo l'altro", l'amnistia venne concessa perché "il fatto non costituisce sevizia ma solo la massima offesa all'onore e al pudore di una donna". Sono solo alcuni esempi fra i tanti. Ma evidentemente ai missini, antesignani di An, non bastava. Nel 1952 il ministro degli Interni, Mario Scelba, che non era certo un cripto comunista, esclamò al Parlamento: "La stampa neofascista parla ancora oggi di 150 mila eroici combattenti della Rsi che languiscono nelle carceri. Sapete quanti sono questi eroici combattenti? Sono 442. Che cosa vogliono di più da noi i fascisti? In realtà non si chiede la pacificazione ma il capovolgimento dei criteri. Si chiede insomma, il nostro riconoscimento dell'infallibilità di Mussolini!" Mezzo secolo dopo ci stanno quasi riuscendo. Per nostra fortuna questa deriva trova a sbarrarle oggi il passo Carlo Azeglio Ciampi. Quasi a voler segnare con il suo sigillo un simbolico "qui non si passa", il Presidente della Repubblica ha già annunciato che, subito dopo le elezioni, il 17 maggio, si recherà in Abruzzo. Dove, a Sulmona, s'incontrerà con 300 ex prigionieri di guerra anglo americani, i quali aiutati dalle popolazioni locali, riuscirono nell'inverno del '43 a passare le linee (come lo stesso sottotenente Ciampi fece); mentre a Taranta Peligna (Chieti) renderà omaggio al Sacrario della Brigata Maiella. Una formazione partigiana autonoma che ebbe 55 caduti e fu decorata di medaglia d'oro al VM. Costituita da Ettore Troilo, un avvocato socialista, allievo di Turati, raccolse dapprima un centinaio di contadini sfuggiti alle pesanti rappresaglie tedesche, ma decisi a combattere, e via via s'ingrossò, raggiungendo i 1500 uomini. Inserita accanto alle unità regolari alleate, seguitò ad operare, ben oltre l'Abruzzo, partecipando alla liberazione della Penisola, fino ad Asiago. Evidentemente i suoi membri non erano stati informati della "morte della Patria".

la Repubblica - 14 maggio 2001

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