la Repubblica

Ciampi e la strage dimenticata

di Mario Pirani

Con la visita a Cefalonia Ciampi inserisce una tappa essenziale nel viaggio ideale che ha intrapreso, ormai da qualche tempo, con l'esplicita ambizione di sollecitare gli italiani ad un recupero del senso della Nazione e della storia patria, di cui andrebbero condivisi i grandi discrimini, pur nella diversità delle opzioni politiche odierne. Per questo il presidente della Repubblica nelle visite precedenti a Piombino, a S. Anna di Stazzena, a Trieste, tanto per ricordarne qualcuna, ha posto al centro dei suoi interventi un discorso sulla Resistenza non celebrativo né ripetitivo di una stanca vulgata, quanto di consapevole riflessione. L'esigenza posta dal presidente della Repubblica trova a Cefalonia il suo risvolto più esplicito.Per più di un motivo: perché qui si ebbe il primo, grande episodio di resistenza italiana all'esercito nazista; perché questa resistenza fu, ad un tempo, militare e popolare, in quanto decisa da un referendum fra tutti i reparti della Divisione Acqui; perché, infine, nell'isola jonica venne commesso uno sterminio di massa, senza paragoni, per dimensione, nelle vicende che seguirono l'8 settembre. Eppure quell’episodio che avrebbe dovuto scandire il punto d’inizio della Resistenza, subì il velame di una memoria debole e non si inserì mai appieno nella cronologia simbolica del cinquantennio repubblicano. Solo l’iniziativa presa dal nostro giornale in merito, qualche anno orsono, ruppe l’incantesimo negativo.Il perché ha più di una spiegazione: la storiografia politica della Resistenza fu ispirata dall’idea che questa fu un movimento nazional popolare, guidato da una avanguardia politica, incentrata sulla alleanza dei partiti antifascisti, organizzata nei Cln (Comitati di liberazione nazionale), con un netto prevalere, peraltro, della sinistra, dal Pci al Partito d’azione. Di conseguenza il ruolo delle Forze Armate (che rifulse non solo a Cefalonia ma nell’Egeo, in Jugoslavia, in Corsica, a Barletta, a porta S. Paolo, a Piombino, nei lager dell’internamento, nel ricostituito esercito del Sud e, infine, nelle stesse formazioni partigiane, che erano comandate, non a caso, dal generale Cadorna) venne messo in secondo piano. Nell’immaginario collettivo la dimensione unitaria e nazionale della Resistenza subì così un vulnus, che finì per imprimerle un profilo essenzialmente di sinistra. Sul terreno politico le conseguenze furono diverse. Comunque la legittimazione della Repubblica e la collocazione internazionale dell’Italia nel dopoguerra trovarono nella Resistenza la base fondativa. Il cosiddetto «arco costituzionale» è filiazione diretta dei Cln ed esso assicurò non solo la stesura della Costituzione ma suggellò, sia la formazione dei governi, sia il patto consociativo non scritto che regolò per decenni i rapporti tra maggioranza e partito comunista all’opposizione. In questo contesto il ricordo pubblico della Resistenza finì per disseccarsi nella retorica ripetitiva delle celebrazioni ufficiali e per subire l’usura delle vicende politiche. Ma col venir meno del quadro partitico di riferimento, dopo Tangentopoli, e con la crisi del partito comunista, dopo il crollo del muro di Berlino, si è aperto un processo di contestazione anche delle basi fondanti della Repubblica, giustamente individuate nel legame inscindibile tra Resistenza e Costituzione. Lo scontro ideale per l’egemonia culturale tra destra e sinistra si svolge attorno a questo crinale. Le polemiche suscitate dal cosiddetto neo revisionismo ne costituiscono uno dei momenti salienti. Ma anche qui occorre fare delle distinzioni, in particolare attorno alla definizione della lotta di Liberazione come guerra civile, tesi sostanziata da una ormai celebre e approfondita disamina di Claudio Pavone. Il quale peraltro, mentre ne affrontava gli aspetti tutti italiani (e, perciò stesso, di certame finale tra fascisti e no) si guardava bene dal confondere il giudizio tra i due fronti e dal negare il valore rifondativo della Resistenza. Per quanti, invece, interpretano l’8 settembre come punto d’avvio di un processo di «morte della Patria», che non avrebbe mai ritrovato da allora la piena autonomia di Nazione indipendente, la formulazione di «guerra civile» è fortemente riduttiva: la guerra di Liberazione è stato lo scontro di due fazioni minoritarie, in un quadro di destrutturazione dello Stato e di crollo delle istituzioni, trascinate nel gorgo dalla fuga della monarchia e dallo sfascio dell’esercito. Il giudizio di De Felice, in particolare sul ruolo delle forze armate, è senza appello. Non stupisce che i suoi allievi non si siano scaldati più che tanto per Cefalonia. Il pensiero neo revisionista ha per contro coltivato e approfondito una specie di principio di equanimità fra repubblichini e partigiani, i primi riscattati dalla «buona fede» con cui si batterono, i secondi, malgrado l’eroico impegno, penalizzati dall’assenteismo di una maggioranza grigia e opportunista, quanto insidiati da una preponderante partecipazione comunista, portatrice di finalità tutt’altro che patriottiche ma di potere politico, per di più etero guidato. Questa griglia ottica è falsificante. La «buona fede» non è una categoria interpretativa della Storia. Anche Hitler era in buona fede. E se è auspicabile l’umana pietas per i ragazzi di Salò, questa non può confondersi col giudizio storico e neppure con quello etico. Il generale Gandin, fucilato a Cefalonia coi suoi soldati per esser rimasto fedele al giuramento, non può essere messo sullo stesso piano del maresciallo Graziani, che quel giuramento aveva rinnegato e si era messo al servizio dei tedeschi. L’equiparazione appare, invece, percorribile per quanti assumono la definizione di «guerra civile» come dato assoluto, quasi quello che si combatteva fosse un conflitto esclusivamente italiano. Ma non era affatto così. L’Italia nel ‘43’45 era solo uno scacchiere di uno scontro mondiale tra democrazia e nazismo. Quella era la posta mortale in gioco. In quella battaglia epocale e in quel preciso quadro storico gli Stati Uniti, l’Inghilterra e l’Urss stavano da una parte, Hitler, i suoi alleati e seguaci dall’altra. Quindi, quali che siano i crimini, gli errori e le degenerazioni del comunismo, precedenti e antecedenti quell’epoca, allora l’Armata rossa combatteva oggettivamente per la salvezza del mondo libero, da Stalingrado fino all’irruzione nei recinti spinati di Auschwitz, dove strappò allo sterminio gli ultimi superstiti . Grazie agli eroi di Cefalonia e alla Resistenza che da lì iniziò, l’Italia è riuscita a schierarsi dalla parte giusta, dopo che era stata trascinata in una infausta alleanza e condotta alla sconfitta. Se ci fossimo piegati a quel destino, allora sì la Patria era morta. E qui si pone, appunto, un altro snodo del dibattito storiografico, che anche di recente si è acceso attorno al libro di un ex brigatista nero: gli alleati erano da considerarsi «occupatori» dell’Italia o liberatori da accogliere e da appoggiare anche con la lotta armata? Il quesito non è di poco momento. La prima risposta è quella che accompagnò la nascita e la vita del Msi, fino alla svolta di Fiuggi. La seconda è quella che dette la Resistenza. Il fatto, assolutamente positivo, che Alleanza nazionale abbia compiuto, sotto l’impulso di Fini, un marcato distacco da quell’assunto non comporta, però, una vidimazione assolutoria sul piano storico della repubblica di Salò né delle motivazioni dei suoi adepti. Non c’è parificazione, né allora né oggi, tra chi stava dalla parte della democrazia e della libertà, sia che portasse le stellette o la falce e martello sul berretto e chi stava dalla parte del nazifascismo, con il teschio delle brigate nere o le insegne delle Ss. Gli uni hanno salvato la Patria e rilegittimato l’Italia, gli altri l’avrebbero asservita ai carnefici di Cefalonia.

la Repubblica - 28 febbraio 2001


1943, diario di Cefalonia così un tedesco racconta l'eccidio

"Una vergogna vedere cosa fanno i nostri soldati agli italiani" - I cacciatori delle Alpi colpirono ancora a ottobre a Saranda: i corpi di 130 ufficiali gettati in mare con le pietre legate alle gambe

di Christiane Kohl

IL "CARO Waldemar" (è così che il cacciatore delle Alpi Waldemar Taudtmann si definisce nel suo diario) non si sentiva affatto bene. La sera prima aveva cantato in coro i canti alpini tradizionali della Carinzia con il suo sottotenente e quella mattina doveva andare contro gli italiani: "Non si fanno prigionieri, sparate a tutto quello che vi trovate davanti", annota sul suo diario di guerra in data 20 settembre 1943. Alcuni giorni dopo lo stesso Taudtmann assistette alla spietata fucilazione di 200 soldati italiani che si erano già arresi ai tedeschi. Il 24 settembre scrive che le truppe alpine tedesche saccheggiarono e distrussero abitazioni civili nella città di Argostoli, e ai feriti ricoverati nell'ospedale militare italiano rubarono persino gli orologi e le stilografiche: "E una vergogna come si comportano i soldati tedeschi", commenta. I fatti descritti dal soldato Taudtmann, del 54esimo battaglione dei cacciatori delle Alpi, accaddero sull'isola greca di Cefalonia nel settembre 1943. Lì e altrove le truppe tedesche si trovarono a dover disarmare i commilitoni italiani, dopo che l'Italia, l'8 settembre, aveva concluso un armistizio separato con gli alleati. Ma i cacciatori delle Alpi, invece di limitarsi a togliere i fucili agli italiani, diedero avvio ad un vero e proprio bagno di sangue, paragonabile solo al massacro dei soldati russi a Katin: sembra che circa 5000 soldati della divisione italiana Acqui siano stati uccisi dopo essersi arresi.
L'eccidio di Cefalonia non è stato comunque il primo crimine di guerra imputabile ai cacciatori delle Alpi, e forse neppure l'ultimo. Nell'ottobre 1943 un cappellano militare scrive al comandante dell'angoscia che affligge i soldati: A molti, anche tra gli ufficiali, grava pesantemente sulla coscienza l'aver dovuto uccidere donne e bambini nelle operazioni contro le bande". Le operazioni contro le bande, erano attacchi condotti contro i partigiani o persone ritenute tali. Già nell'agosto 1943 i cacciatori delle Alpi trucidarono 317 persone nel villaggio greco di Kommeno. Secondo testimoni oculari, tra le vittime pare ci fossero anche "donne in gravidanza". Negli atti istruttori della procura di Monaco di Baviera risulta che "molte donne sarebbero state violentate prima dell'esecuzione, ai bambini venne dato fuoco dopo che i soldati gli avevano infilato in bocca ovatta imbevuta di benzina". Un successivo eccidio venne compiuto nella città albanese di Saranda, sulla costa, appena oltre il confine greco. Un commando dei cacciatori vi uccise il 4 ottobre 1943 il generale italiano Ernesto Chiminello insieme a circa 130 ufficiali della divisione "Perugia". I cadaveri, "vennero portati al largo e fatti affondare con dei sassi legati alle gambe", scrive il caporale Richter nel suo diario.

(Copyright Sueddeutsche Zeitung - La Repubblica. Traduzione di Emilia Benghi)

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"Li ho visti uccidere e poi calpestare uno implorava e cantava arie d'opera"

Le pagine delle memorie del soldato Alfred Richter: "Non c'erano riguardi per nessuno neanche per i sanitari e i cappellani"

Ecco alcuni tratti tratti dal diario di guerra del soldato Alfred Richter

20 settembre 1943. Mi sveglio solo al momento dello sbarco. Dopo sette ore e mezza di traver-sata approdiamo sulla costa occidentale della più grande delle isole ioniche presso Kipuria. Pare che la spiaggia sia disseminata di mine. Dobbiamo utilizzare solo stretti passaggi demarcati.

21 settembre 1943. Alle 0.20 tutto il battaglione si mette in movimento. La strada è sempre più brutta man mano che saliamo, in certi punti non si può neppure più definire un sentiero. Ci precede il terzo '98 (terzo battaglione dei cacciatori delle Alpi, novantottesimo reggimento agli ordini del maggiore Harald von Hirschfeld ndr). I due battaglioni costituiscono un gruppo di combattimento con il compito di attaccare la città di Diglinata, mentre un secondo gruppo... con un attacco frontale deve distogliere gli italiani... Alle prime luci dell'alba raggiungiamo indisturbati la strada di Falari per Diglinata. Conduce ad un passo, presso il quale il novantottesimo ha il primo scontro con il nemico. Vengono sparati solo pochi colpi, poi gli italiani scendono a frotte dalla montagna sventolando fazzoletti bianchi. Quando, dopo il breve scontro a fuoco, superiamo il passo, ci imbattiamo nei cadaveri di italiani caduti. Tutti portano i segni di colpi alla testa, quindi sono stati uccisi dal novantottesimo dopo che si erano arresi.Alcuni dei cacciatori sfilano ai cadaveri gli scarponi ancora in buono stato... Sono le 13 e fa un caldo infernale... Sopra di noi continuano a incrociare caccia e ricognitori... Su per il crinale di una montagna avanziamo verso Frangata. Ci fermiamo in un campo, presso una postazione italiana brutalmente annientata dal novantottesimo, che ci precede. Gli artiglieri giacciono a terra ammazzati a fucilate, calpestati dagli scarponi. Deve essere successo da pochi minuti, sotto quel mucchio di corpi insanguinati ce n'è uno che sussulta e respira ancora, dal cranio calpestato di un altro sono usciti fuori gli occhi. Alle 17.00 siamo davanti a Frangata. Due compagnie di alpini si arrendono senza sparare un colpo... sono tutti tranquilli e rilassati, non hanno intenzione di combattere contro di noi e sono convinti di salvare la pelle consegnandosi volontariamente...entriamo a Frangata e consegniamo i nostri prigionieri. Qui li attende una terribile punizione: plotone dopo plotone vengono portati all'interno di cave di pietra e di orti recintati da mura appena fuori dalla cittadina ed eliminati dalle mitragliatrici del novantottesimo. Restiamo in paese due ore, durante le quali il rumore delle raffiche dei mitragliatori è incessante e le urla arrivano fin dentro le case dei greci. Vengono fucilati tutti, senza considerare grado e posizione, anche i sanitari e i cappellani. Alcuni bavaresi, non certo particolarmente sensibili, cercano di ribellarsi a quest'ordine inumano, ma vengono immediatamente ridotti al silenzio da un ufficiale con la minaccia di mettere anche loro al muro... Tragicomica la figura di un prigioniero che sale su un podio improvvisato di fronte a noi e intona arie d'opera con una bella voce e le movenze giuste, salvandosi così la vita, mentre poco lontano i suoi connazionali vengono fucilati...

23 settembre 1943... Si dice che l'ordine di uccidere tutti gli uomini della divisione Acqui sia venuto dal Führer. Ne dubito. Credo piuttosto che abbiano deciso i comandanti, ubriachi di potere. Per loro la vita di un uomo è solo un numero.

(Copyright Sueddeutsche Zeitung - La Repubblica. Traduzione Emilia Benghi)

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LA POLEMICA

Dalla visita di Ciampi alle rivelazioni choc

ROMA - Sull'eccidio di Cefalonia in Italia si sono accesi i riflettori dopo la visita compiuta sull'isola greca dal presidente Carlo Azeglio Ciampi il primo marzo. Il capo dello Stato italiano davanti al monumento che ricorda i soldati trucidati dai tedeschi a Cefalonia ha sostenuto che proprio con quel massacro ebbe inizio in Italia la Resistenza. La scelta delle migliaia di militari italiani che rifiutarono di consegnare le armi ai tedeschi - dopo l'armistizio dell'8 settembre firmato da Pietro Badoglio con gli alleati anglo-americani - rappresentò, secondo Ciampi, "il primo atto della Resistenza di un paese libero dal fascismo". La posizione del presidente è stata contestata, in particolare dallo storico Ernesto Galli della Loggia che ha sottolineato come in realtà la storiografia del dopoguerra abbia per anni deliberatamente "cancellato" i fatti di Cefalonia per dare spazio esclusivo ai morti partigiani e alla lotta dei partiti anti-fascisti. Anche in Germania si è riaperto il dibattito sull'eccidio. Il quotidiano Sueddeutsche Zeitung ha pubblicato i brani dei diari dei soldati dell'esercito tedesco che descrivono le atrocità perpetrate dai soldati tedeschi ai danni degli italiani sull'isola greca. I testi sono stati raccolti dallo storico militare Roland Kaltenegger. Stasera la tv tedesca Zdf, nella trasmissione "History"manderà in onda altre testimonianze choc.

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LE TAPPE

Prima di allora, violenze anche contro i greci: torturati a morte donne e bambini

L'ARMISTIZIO

L'8 settembre del 1943 il maresciallo Pietro Badoglio firma l'armistizio con gli Alleati anglo-americani

IL MASSACRO

Il 9 settembre a Cefalonia i tedeschi chiedono agli italiani di arrendersi. È battaglia e poi massacro

NORIMBERGA

Del massacro di Cefalonia si parlò anche al processo di Norimberga. Condannato solo un generale

la Repubblica - 25 marzo 2001


"La strage di Cefalonia non interessa ai tedeschi"

L'intervista  - Parla Erich Kuby, studioso dei crimini compiuti dalla Wehrmacht contro i soldati italiani

di A. T.

BERLINO - Erich Kuby, il suo libro Tradimento alla tedesca è lo studio più esauriente sui crimini della Wehrmacht contro i soldati italiani. Che effetto avranno le rivelazioni su Cefalonia?

"Il tema non interessa molto in Germania. Si parla molto dell'Olocausto, e negli ultimi tempi la grande pubblicistica vi si è dedicata a fondo, per motivi comprensibili. Ciò nonostante non si può dire che esista una tendenza a parlare a fondo dei crimini di guerra compiuti dalle forze armate tedesche".

Perché?
"La gente non ama confrontarsi con questo tema. Con il genocidio degli ebrei il caso è diverso. Anche perché esiste lo Stato d'Israele. Ma quanto all'Italia, si preferisce concentrarsi sui rapporti del tutto normali esistenti oggi tra i nostri due paesi. Certo, gli italiani furono anche tra le vittime dei crimini di guerra tedeschi, ma questo non pesa oggi sui rapporti bilaterali. Il tema non è ritenuto attuale".

Vede un revival nazionalista, anche alla luce del dibattito sull'orgoglio della patria?

"Nella Germania di oggi si assiste a un certo tipo di Nationalisierung, a una riappropriazione della coscienza nazionale, ma è diverso, non ha nulla a che fare con la guerra. Dipende, tra l'altro, dai successi dell'attuale governo e dal suo prestigio. Ma per fortuna non si vede una tendenza a riscrivere la Storia".

È vero che nel dopoguerra però Bonn reagì con freddezza e magari con ostilità ai tentativi italiani di fare luce su quei massacri?

"I primi anni del dopoguerra furono segnati dalla figura di Adenauer, e a lui quei fatti non interessavano quasi per nulla. Gli stava a cuore solo stringere l'alleanza con l'America e rapporti normali col resto d'Europa. Cercò di liquidare quei temi dalla coscienza popolare. Voleva una cosa sola, tirare fuori i tedeschi dal fango e trasformarli da nemici in alleati".

Il reportage della Sueddeutsche Zeitung e quello della tv Zdf apriranno di più gli occhi al grande pubblico?

"L'Olocausto e la conduzione della guerra in generale da parte della Germania sono due rami dello stesso albero, invece ci si fissa troppo solo sull'Olocausto. Atrocità come Cefalonia furono commesse ovunque. Ma quando uscì l'importante mostra fotografico - storica sui crimini dell'esercito tedesco, il fatto che contenesse solo poche foto sbagliate spinse a rivederla tutta. Fu un errore: nel complesso era importantissima e giusta. Quella mostra almeno riuscì a spruzzare un po' di fango sulla "camicia immacolata" della Wehrmacht".

la Repubblica - 26 marzo 2001


Strage di Cefalonia "Ufficiali nazisti presto incriminati"

Il giudice tedesco: svolta vicina

BERLINO - Gli ex ufficiali nazisti coinvolti nella strage di Cefalonia potrebbero presto essere incriminati. L'annuncio nella svolta delle indagini sul massacro di cinquemila soldati italiani, avvenuto il 22 e 23 settembre 1943, è stato dato oggi dal capo della procura di Dortmund Ulrich Maass. Il magistrato - che recentemente ha riaperto l'inchiesta - ha spiegato di avere in mano nuovi e importanti documenti per argomentare l'accusa di omicidio premeditato. "La disponibilità delle prove a carico - ha detto Maass in una intervista al giornale Welt am Sonntag - è cambiata in maniera decisiva. Adesso abbiamo ottenuto nuovo materiale". Il riferimento è soprattutto agli archivi della Stasi, l'ex servizio segreto della Germania dell'Est, accessibili solo dal 1990. Fra i documenti trovati dal giudice ci sarebbero anche "i diari dei soldati tedeschi che parteciparono ai combattimenti a Cefalonia". Gli ufficiali ancora in vita sarebbero dieci: il più anziano ha 92 anni, il più giovane 79.

la Repubblica - 3 dicembre 2001


CEFALONIA - "Così massacrammo i soldati italiani"

Le drammatiche rivelazioni di un ufficiale tedesco

di Andrea Tarquini

Una giornalista della "Sueddeutsche Zeitung" ha rintracciato e intervistato il capo del plotone di esecuzione che compì una delle terribili stragi avvenute nell'isola greca quel settembre del 1943. Il reduce vive in un paese della Baviera. E ora potrebbe finire davanti al giudice che indaga sulla vicenda che sta per aprire il processo. "Se mi fossi opposto a quell'ordine sarei stato fucilato", si difende

Berlino - "Nemmeno mia moglie lo sa, ma fui io, in quel settembre del 1943, a comandare il plotone d'esecuzione di Cefalonia. Vidi gli ufficiali italiani cadere in silenzio sotto i nostri colpi, e ancora oggi ricordo quell'ultimo grido del generale Antonio Gandin, il comandante della guarnigione italiana, prima di cadere ucciso: "Viva il Re, viva la Patria". Sono passati cinquantotto anni, ma l'anziano reduce della Wehrmacht non ha dimenticato. Christiane Kohl, inviata della Sueddeutsche Zeitung, lo ha trovato e incontrato in un piccolo villaggio bavarese dove possiede con la consorte un negozio di abiti folcloristici locali. E ha individuato altri reduci che parteciparono, nell'isola greca, al massacro compiuto dai tedeschi ai danni dei soldati italiani nel settembre del 1943. Il vecchio militare ha vuotato il sacco, a condizione di essere identificato solo con uno pseudonimo, Otto Markmeier, e che non venisse citato il suo luogo di residenza. Sa che la sua lunga impu-nità di uomo tranquillo forse sta per finire, sa che dovrà forse rendere con-to alla giustizia. Alla giustizia tedesca: grazie soprattutto a documenti segreti sulla strage dei quattromila sol-dati italiani, nascosti per decenni dal regime comunista di Berlino giudice UIrich Maas ha riaperto l'inchiesta, un procedimento che negli anni Sessanta fu avviato e poi archiviato. "Hanno fatto bene, chi ha ucciso deve essere condannato, anche se sono passati tanti anni", dice alla Sueddeutsche l'erede del grande cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal, Efraim Zuroff. "II clima in Germania è cambiato, adesso c'è più determinazione che mai a indagare sui crimini nazisti e a fare i conti con quel passato", aggiunge. Zuroff ha già messo a disposizione della magistratura di Dortmund i dossier che il Centro Wiesenthal aveva approntato su 1850 soldati della Wehrmacht di stanza all'epoca nell'isola della strage. Il resoconto di Christiane Kohl sui colloqui con i reduci è un documento storico e viene ritenuto di grande valore. "In un modo o nell'altro", confessa l'ex Ordonnanzoffizier Otto Markmeier, "avevo cominciato a pensare che quanto stavamo facendo non era del tutto in ordine. Ma se mi fossi rifiutato di eseguire gli ordini, sarei finito lo stesso davanti a un tribunale di guerra". I dossier segreti di Berlino Est, dicono i magistrati, fanno luce sulle responsabilità degli assassini: almeno duecento dei Gebirgsjaeger (truppe speciali di montagna) tedeschi che per ordine di Hitler trucidarono i 4000 italiani come vendetta per l'8 settembre vivono o vivevano tranquilli nella Ddr. La dittatura cooptò non pochi ex nazisti nella sua burocrazia e tra quadri e funzionari del suo apparato repressivo. Contro dieci di loro - nove ufficiali e un sottufficiale, di età tra i 79 e i 92 anni è in corso l'indagine. "lo ero solo una piccolissima ruota del carro", racconta Markmeier. "Non so, non ricordo più perché dovesse toccare a me co-mandare il plotone d'esecuzione, in ogni caso non mi offrivo- volontario. Scelsi nove soldati. La sera prima delle fucilazioni, ci esercitammo con le carabine sparando a salve". Al mattino, continua il racconto del vecchio militare, il maggiore Reinhold Klebe comandante del terzo battaglione del 98mo reggimento dei Gebirgsjaeger, si presentò a Markmeier e al suo plotone. Estrasse dalla manica della giacca un foglio e lesse la sentenza di morte che un tribunale militare sul campo aveva appena emesso in tutta fretta a carico del generale. Gandin fu subito condotto con le spalle al muretto d'una casa rossa, e Markmeier ordinò di aprire il fuoco. Poi toccò agli altri. Almeno duecento ufficiali ita-liani, prosegue il resoconto, cad-dero per mano dello Erschies-sungskommando della casetta rossa presso il villaggio di Argostoli, uno dei plotoni d'esecuzione formati dalla Wehrmacht a Cefalonia. "Ma io ho partecipato solo alla fucilazione di circa trenta militari italiani", afferma Mark-meier. Un altro ex soldato di Hitler di stanza nell'isola, oggi un tranquillo 79enne residente in una cittadina presso Augsburg, ha fornito a Christiane Kohl una testimonianza diversa: "Davanti alla casetta rossa", dice, "le ese-cuzioni durarono ore. lo vidi tutto, ero in turno di guardia in cima a un faro poco lontano. Vidi gli uf-ficiali italiani condotti a gruppi davanti al plotone d'esecuzione". Dopo la guerra l'ex soldato divenne panettiere. Negli anni Sessanta fu interrogato. "Rammento come due sottufficiali dello Erschiessungskommando estrassero più volte la pistola d'ordinanza per sparare colpi di grazia agli ufficiali italiani che davano ancora segni di vita dopo la fucilazione". Uno di loro è ancora vivo e la Kohl lo ha individuato: abita in un villaggio a ottanta chilometri da Markmeier. "Dopo circa un'ora tutto era finito", narrò nel 1967. Le salme degli italiani fucilati furono avvolte nel filo spinato e gettate in mare. "Non appena il maggiore Klebe si allontanò", chiarisce Markmeier, "io, cedetti il comando del plotone d'esecuzione a due sottufficiali, non ce la facevo più". Spesso, dopo la guerra, ha rivisto gli ex commilitoni alla Oktoberfest di Monaco, "ma non abbiamo mai parlato di quei giorni a Cefalonia. Abbiamo sempre avuto una convinzione: la colpa era di Hitler, che aveva impartito quell'ordine". Errato, replica il giudice Ulrich Maas: il paragrafo 47 dei codici militari di allora dice chiaro e tondo che anche il sottoposto si assume colpe, se esegue un ordine pur essendo conscio che si tratta di un crimine di guerra o comunque di un'azione militare illecita". Adesso, nella Germania rossoverde, i vecchi reduci sparsi per la Baviera si dovranno probabilmente preparare all'appuntamento col tribunale della Storia.

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Una strage rimossa

È stato Mario Pirani a rompere il silenzio

La strage di Cefalonia è stata a lungo rimossa e ancora lo sarebbe se, due anni fa, Mario Pirani non l'avesse riportata alla memoria con un articolo su Repubblica. La tragedia iniziò dopo l'8 settembre, quando alle truppe italiane a Cefalonia i tedeschi ingiunsero dì consegnate le armi. Dopo giorni di esitazioni, il generale Antonio Gandin i soldati si opposero all'ordine. Fu ingaggiata una battaglia, che vide gli italiani soccombere: morirono 1.200 uomini. Dopo che gli scontri erano cessati, e violando tutte le regole, i tedeschi ordinarono il massacro di 4.700 soldati. Poi vennero giustiziati Gandin e colonnelli Lusignani e Bettini. Altri 1.500 uomini morirono nel naufragio delle navi che li deportavano in Germania e i sopravvissuti finirono nei lager.

la Repubblica - 12 dicembre 2001

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