la Repubblica

Eichmann i quaderni dell'inferno

Premessa. Avendo appena riletto per la prima volta il mio manoscritto, devo dire che mi sembra troppo lacunoso e impreciso in più parti. Avrei dovuto affrontare più approfonditamente il tema dell'antisemitismo. Avrei voluto studiare più a fondo le fonti (presentate al processo, ndr). Non so decidere dunque se il testo debba rimanere così com'è, se io debba riscriverlo da capo o se debba completarlo qua e là con nuovi capitoli. Oltretutto, non è facile scrivere nella condizioni di detenuto. So che il mio testo passerà il vaglio della censura, e questo significa che non mi sento interamente libero di scrivere. Avrei preferito presentare una versione più franca e dettagliata delle mie opinioni e dei miei ricordi.

Gioventù. Sono nato il 19 marzo 1906 a Salinger, nella regione del Reno, primo figlio di Elheute e Maria Eichmann. Qualche giorno dopo la nascita, venni battezzato secondo il rito protestante di orientamento calvinista e ricevetti il nome di Adolf Otto. Da bambino mi trasferii con i miei genitori a Linz, sul Danubio, in Austria, dove mio padre trovò un impiego come direttore di un'impresa di trasporti municipali. Dopo le scuole elementari e le medie, feci due anni di istituto tecnico e in seguito, dal 1925 al '27, lavorai presso una ditta di costruzioni a Linz. A quell'epoca, Linz era una piccola, linda, adorabile cittadina di provincia nella regione centrale dell'Austria. Ero enormemente attratto da quel luogo pieno di antiche rovine, fortezze, foreste, leggende, attraversato da romantici fiumiciattoli d'acqua chiara e da torrenti pieni di trote. Furono per me anni di vita serena, tra scampagnate in motocicletta, gite in montagna, serate al caffè con gli amici e, perché no, con le amiche. Nel 1932 mi arruolai volontario nelle SS, ma non subii mai fino in fondo il fascino dell'ideologia nazionalsocialista né l'influenza dell'antisemitismo. Da allora rimasi nell'Esercito e all'avvio della seconda guerra mondiale fui trasferito al comando centrale a Berlino.

Sterminio. Fu il Fürher a ordinare personalmente l'eliminazione fisica di tutti gli ebrei. Il generale Globocnigg dello Stato Maggiore, ricevette le istruzioni al riguardo da Hitler in persona. Allo stadio iniziale, il piano prevedeva che gli ebrei venissero ammassati in grandi fosse o trincee e fucilati sul posto. A me venne ordinato di verificare come procedeva il progetto, di fare rapporto e riferire tutto quello che avrei visto e sentito. Ma, ricevuto l'ordine, per prima cosa dovetti provare a comprendere il significato di quel termine che avevo sentito per la prima volta: 'sterminio'. Quale era il pieno significato? Si trattava di un concetto nuovo, sconosciuto, insolito (quest'ultima frase è cancellata, ndr.). Cercai di digerire quel termine mai sentito prima. Più ci pensavo, più mi faceva l'effetto di un fulmine caduto dal cielo.

Il primo gas. Nel 1942 ricevetti l'ordine di recarmi a Kulm, per fare rapporto sulla realizzazione di una nuova fase dello sterminio. Devo dire che non mi aspettavo di essere turbato più di quanto lo fui in precedenza, alla divulgazione dei progetto, peraltro fino a quel momento tenuto segreto e diffuso solo tra gli alti comandi. Del resto non ero io a dare quell'ordine o ad eseguirlo, pensai, e non potevo esercitare alcuna influenza per fermarlo. Non potevo nemmeno immaginare in concreto di che cosa si trattasse, perché nelle mie precedenti missioni non avevo ancora assistito all'eliminazione fisica degli ebrei, né parlato con alcun testimone diretto degli eventi. Dunque arrivai a Kulm, scortato dalla polizia militare. Ma ciò che mi aspettava era l'orrore allo stato puro. Credevo di poter affrontare quell'esperienza, invece la mia mente fu cambiata e sconvolta dall'orrenda realtà che mi trovai davanti, la peggiore della mia vita. Vidi un gruppo di ebrei, uomini e donne, tutti completamente nudi, che venivano fatti salire su una specie di autobus senza finestre. Le porte furono chiuse e qualcuno azionò il meccanismo. I gas di scarico non uscivano dal tubo di scappamento, ma erano invece incanalati all'interno dell'abitacolo. Un medico in camice bianco mi fece cenno di avvicinarmi per osservare da un minuscolo oblò quello che accadeva all'interno. Non riuscii a guardare a lungo. Non trovavo parole dentro di me per esprimere la mia reazione a quello spettacolo. Mi pareva quasi irreale. In quel momento credo di aver perso la piena coscienza di me stesso e la cognizione del tempo. Non so quanto durò. A un certo punto risalimmo in auto, ci avviammo verso una radura in mezzo al bosco e dopo un po' l'autobus ci venne dietro, sino a fermarsi vicino a una profonda fossa appena scavata. Le porte furono aperte e i corpi senza vita vi caddero dentro. Era una scena orribile, degna dell'Inferno. Anzi, no, di un Super Inferno. Non molto tempo prima li avevo visti vivi, ed ora erano tutti morti. Poi un soldato scese nella fossa, aprì una ad una le bocche di quei cadaveri ed estrasse meticolosamente ogni dente d'oro. Molti anni dopo, a Buenos Aires, la sera in cui fu rapito da un commando israeliano, mi ritrovai con mani e piedi legati, gli occhi bendati, immobilizzato su un letto: ricordo che mi conficcai le unghie sul palmo delle mani con tutta la forza di cui disponevo, per capire se stavo per caso sognando o se quello che mì capitava era proprio vero. Ebbene, quel giorno a Kulm, dopo l'esecuzione di quegli ebrei coi gas, provai la medesima sensazione, un misto di incredulità e orrore. Al corso d'addestramento per ufficiali ci avevano insegnato parole come Dovere, Disciplina, Obbedienza: ma non Disobbedienza Civile, non il Coraggio di Ribellarsi. E oggi me ne rincresce profondamente. Eppure io non avevo contribuito direttamente a tanto orrore: ero convinto di potermi lavare le mani con innocenza da quanto era accaduto, come un Ponzio Pilato. Il fatto è che quando cavalchi una tigre inferocita, non è facile scendere giù con un balzo

Un bambino. Sul finire del '42 fui inviato a Minsk per assistere a un altra operazione di sterminio e fare rapporto. Non appena giunsi sul luogo dell'esecuzione, un plotone di soldati con i mitra puntati cominciò a sparare all'impazzata sugli ebrei che erano stati fatti allineare in una lunga fossa. Proprio di fronte a me, dentro la fossa, c'era una donna ebrea con un bambino di pochi anni in braccio. Ebbi un moto istintivo di tirare fuori il suo piccolo dalla fossa, quando una raffica di proiettili gli spappolò la testa. Il mio attendente, che era in piedi al mio fianco, mi ripulì la giubba dell'uniforme da un frammento di cervello del bambino che ci era finito sopra. Risalimmo in auto. "Berlino", ordinai all'autista. Per tutto il viaggio non feci altro che bere acquavite: avevo bisogno di ubriacarmi, stordirmi, anestetizzarmi. Ma non servì. Pensavo ai miei due bambini. Pensavo all'insensatezza della vita, che di colpo mi sembrava priva di ogni ordine e raziocinio. Era incredibilmente difficile credere ancora a qualcosa, a qualunque cosa, dopo quello che avevo visto. I cristiani credono all'inferno per i dannati dopo la morte, ma io avevo visto l'inferno su questa terra. Socrate. Conosci te stesso, era la lezione dei filosofi antichi. E Socrate, questo grande saggio di Atene, fa della consapevolezza delle nostre azioni l'elemento centrale della vita umana. Ma a cosa servono la filosofia, le lezioni, la saggezza degli antichi, se una frusta possente ti mantiene nella condizione di un bambino sotto perenne custodia? Ebbene, anche quel grande saggio perse la vita per l'irragionevolezza e l'orgoglio degli uomini. Neppure lui riuscì a far cambiare idea al Giudice, ma rifiutò ogni possibilità di fuga, accettò il verdetto, bevve l'amara cicuta. Io non sono un Socrate, e nemmeno un Giordano Bruno. Dico solo che nemmeno un uomo eccezionale come Platone riuscì a far cambiare politica al tiranno Dionisio.

L'Italia. I documenti esibiti al processo provano in modo inoppugnabile l'atteggiamento dell'Italia riguardo alla questione ebraica e indicano con chiarezza gli sforzi compiuti dal Reich tedesco per ottenere un cambiamento nella politica italiana in questo campo. Tanto che in effetti il Reich non ottenne risultati in merito sino alla fine del '43. il 6 ottobre '43, l'ambasciatore Moelhusen telegrafò al ministro degli Esteri von Ribbentrop che il generale Kappler, comandante delle SS di Roma, aveva ricevuto un ordine speciale da Berlino: avrebbe dovuto arrestare gli 8 mila ebrei che vivevano a Roma per deportarli nel nord d'Italia, dove essi dovevano essere sterminati. Il generale Stahel, comandante delle forze tedesche a Roma, riferì all'ambasciatore Moelhausen che a suo avviso sarebbe stato meglio usare gli ebrei per lavori di fortificazione. E il 9 ottobre Ribbentrop rispose che gli 8 mila ebrei di Roma dovevano essere deportati nel campo di concentramento di Mathausen. Sottolineo in proposito che, testimoniando sotto giuramento nella prigione militare di Gaeta, il 27 giugno 1961 Kappler ha detto di avere sentito per la prima volta in occasione di quell'ordine il termine "Soluzione Finale" della questione ebraica. E ha inoltre testimoniato di non aver sentito fare il mio nome sino alla fine del '45, quando lo apprese dalla stampa, e di non aver mai ricevuto messaggi o istruzioni con la mia firma. Come ho affermato al processo, anche in questa circostanza come in tutte le altre io fui soltanto una piccola rotella nel meccanismo. Il 16 ottobre '43, l'Alto Comando dei Reich approvò la deportazione immediata di tutti gli ebrei dall'italia. Ma le forze tedesche non erano sufficienti per svolgere una tale operazione e così fu deciso di iniziare la soluzione della questione ebraica nella regioni più vicine alla linea del fronte, per continuare noi gradualmente verso nord. In quel periodo, il mio ufficio ricevette copia di una lettera, che passai immediatamente ai miei diretti superiori, inviata dalla chiesa cattolica di Roma, nella persona del vescovo Hudal, al comandante delle forze tedesche a Roma, generale Stahel. La Chiesa protestava vigorosamente per l'arresto di ebrei di cittadinanza italiana, chiedendo che simili azioni fossero subito interrotte in tutta Roma e nel circondario, altrimenti il Papa le avrebbe denunciate pubblicamente. La Curia era particolarmente furiosa perché questi incidenti avvenivano in pratica fin sotto le finestre del Vaticano. Ma proprio allora, senza alcuna considerazione per la posizione della Chiesa, il governo fascista italiano passo una legge che ordinava la deportazione di tutti gli ebrei italiani nei campi di concentramento. Ciononostante, il comando supremo delle SS a Berlino ammise che la deportazione di massa degli ebrei dall'Italia, ordinata da Himmler, non ebbe i risultati sperati. Le obiezioni sollevate da più parti in Italia, e il rinvio per troppo tempo dei passi necessari alla piena riuscita dell'operazione, fecero si che una larga parte di ebrei italiani potesse nascondersi e sottrarsi alla cattura. Negli ultimi mesi (prima della fine della guerra, ndr.), la scarsa motivazione delle autorità italiane riguardo all'esecuzione delle misure anti-ebraiche ordinate da Mussolini diventò più che mai evidente. Al punto che il ministero degli Esteri tedesco giudicò necessaria l'introduzione un crescente numero di forze tedesche nell'apparato italiano, camuffate per ragioni tattiche e psicologiche sotto forma di consiglieri militari.

Fuga e rapimento. Alla fine della guerra, cercai di raggiungere Hannover insieme al mio attendente, ma non avemmo fortuna: fummo entrambi catturati e presi prigionieri dalle forze americane. Fui rinchiuso in un campo di prigionieri militari, insieme ad altri 300 ufficiali delle SS. Ma grazie all'aiuto dei miei camerati riuscii a fuggire. Per qualche anno restai nelle vicinanze di Hannover, sotto mentite spoglie, con il nome di Oto Henninger, lavorando prima nell'amministrazione forestale, quindi nel commercio di legname infine in un allevamento di polli. Nel maggio 1950 decisi di intraprendere un lungo viaggio: pensavo di andare a stabilirmi in Estremo Oriente, passando dal Sud America, ma una volta giunto dopo molte difficoltà in Argentina preferii fermarmi lì, a Buenos Aires, dove nel '52 mi feci raggiungere dalla mia famiglia. Ho trascorso dunque un decennio in questo bellissimo paese, lavorando per lo più come tecnico presso la filiale argentina della Mercedes-Benz. Ricordo l'aria pura, il silenzio della pampa, le gite in montagna con i miei figli. L'11 maggio 1960 lasciai casa come ogni mattina per andare al lavoro, ma non vi feci mai più ritorno: la sera, a pochi passi dalla mia abitazione, fui ra-pito da un commando israeliano. Gli agenti mi immobilizzarono, mi fecero indossare un pigiama, mi tennero legato a un letto in un appartamento per qualche tempo poi mi trasportarono clandestinamente in Israele. Naturalmente, la cattura e la prigionia non sono state per me un'esperienza piacevole. In Germania si direbbe: non è come affondare il naso in un barattolo di miele. Ma sono sempre stata trattato con correttezza e decenza. Devo dire che mi aspettavo l'opposto. Quindi, l'11 aprile 1961, è cominciato il processo.

Conclusioni. (Dopo la sentenza di condanna a morte, ndr.). Quanto ho atteso per venire al mondo. Chissà, forse cinque milioni di anni. Tornerò a nascere in un distante futuro? Non lo so. Sono sicuro soltanto di una cosa: che dopo aver concluso la mia vita attuale, dove, passare attraverso innumerevoli esistenze di vita organica e non organica, trasformato nella più minuscola particella di un essere vivente. Come essere umano, ho vissuto più o meno sessant'anni. E sono stato molto stupido a lasciare rinchiudere la mia esperienza umana dentro l'angusta, limitata ideologia nazionalista del Reich. E pensare che una forza onnipotente ha donato agli uomini il meraviglioso miracolo della felicità, il bene più grande a disposizione del genere umano. Questo dovrebbe essere il solo e unico compito degli uomini realizzare la felicità, condividerla col prossimo, distribuirla a tutti, nel breve tempo che passiamo su questa terra. Tutto il resto è privo di alcun valore.

Testamento. In caso morte, chiedo quanto segue (le ultime volontà di Eichmann non furono eseguite, ndr.). Che il mio corpo venga portato da Israele a Linz, in Austria. Là deve essere cremato. Le ceneri vanno divise in sette parti uguali. Una parte va deposta nella tomba dei miei genitori; Una parte va gettata sul prato del giardino di casa mia, a Buenos Aires. Le cinque parti restanti sono destinate una ciascuna, a mia moglie Vera, e ai miei quattro figli: Klaus, Horst, Dieter, Ricardo-Francisco. Morire non è peggio che nascere: migliaia di nuove vite, moltiplicate per altre decine di migliaia, seguiranno le nostre.


Il testamento di un boia

Contro i revisionisti Israele ha deciso di pubblicarlo - Lo sterminatore nazista riempì milleduecento fogli a quadretti dopo il 1961 mentre attendeva l'esecuzione della pena capitale

di Enrico Franceschini

Gerusalemme -"Siete pronti?", chiede l'archivista capo Evyatar Friesel ai giornalisti, fotografi, cameramen che lo circondano. Poi, con un gesto solenne, scoperchia lo scatolone che ha posato su un tavolo: dentro ci sono 1200 fogli di carta a quadretti, vergati con calligrafia semi Illeggibile, in go-tici caratteri tedeschi coperti qui e là da cancellature e scarabocchi. E' il "diario dello sterminatore", il manoscritto a cui Adolf Eichmann, l'architetto della Soluzione Finale, affidò le sue ultime speranze di salvare la vita, nei mesi di prigionia successivi alla condanna a morte impartita da un tribunale israeliano nel 1961. Un documento rimasto sepolto negli archivi di Gerusalemme per quasi quarant'anni, reso pubblico ieri per la prima volta e messo a disposizione di stampa, studiosi chiunque sia interessato all'unica testimonianza scritta di uno dei principali gerarchi nazisti responsabili dell' Olocausto. Rapito da un commando dei Mossad in Ar-gentina, dove si era nascosto per un decennio -sotto falsa identità, Eichmann fu impiccato nel '62 per "crimini contro il popo-lo ebraico e contro 1'umanità", la sola pena capitale mai eseguita in Israele. Da allora i suoi familiari reclamano il possesso dei "diari , sul cui copyright si combatte una furiosa battaglia legale. Il governo israeliano aveva sempre rifiutato di consegnarli, sostenendo che il testo, scritto da un criminale nazista nella speranza di dimostrare la propria innocenza e ottenere la grazia, poteva essere usato per sminuire lo sterminio di sei milioni di ebrei o per discolpare uno dei massacratori. In effetti nel manoscritto, così come nelle deposizioni al processo, Eichmann si difende ostinatamente: afferma di essere stato solo un minuscolo ingranaggio nel sistema, un ufficiale delle SS di medio livello e di scarsa importanza. Ben diverso fu il suo comportamento il giorno dell'impicaggione, quando secondo un gíornalista della Reuter ammesso all'esecuzione disse, con il cappio al collo: "Lunga vita alla Germania, all'Austria e all'Argentina, io ho obbedito alle leggi di guerra restando fedele alla mia banda. Yehuda Bauer, il più autorevole storico israeliano dell'Olocausto, rammenta che poco tempo prima del rapimento Eichmann confidò in un'intervista a un giornalista neonazista olandese il suo disappunto per "non avere ucciso ancora più ebrei". Comunque il processo stabilì con chiarezza che, quale direttore dell'ufficio Affari Ebraici della Gestapo, fu lui a organizzare i treni che deportarono gli ebrei in Germania da tutta Europa e a verificare il puntuale funzionamento delle camere a gas. Israele ha infine deciso di rendere pubblico il documento per offrire una prova in pìù al processo in corso a Londra tra lo storico inglese David Irving, il capofila dei "negazionisti" dell' Olocausto, che paragona Auschwitz a "Disneyland" e riduce a 100 mila il numero delle vittime dei lager, e la studiosa americana Deborah Lipstadt, che accusa Irving di apologia del nazismo. Pur sminuendo il proprio ruolo, nei "diari dal carcere" Eichmann conferma che l'Olocausto è stato un eccidio di massa, lo definisce "la più grande atrocità di tutti i tempi " e ammette di provare orrore per uno sterminio a cui ha spesso assistito personalmente. "In ogni caso, sull'Olocausto e giusto pubblicare tutto quello che esiste", commenta il giornalista israeliano Tom Segev, autore di vari libri sull'argomento. "In queste pagine, parla il più grande serial-killer della storia. Fa venire i brividi, ma proprio per questo dobbiamo ascoltarlo".


La soluzione finale secondo un burocrate

In un libro il verbale che egli firmò sullo sterminio degli ebrei

di Simonetta Fiori

Sono soltanto quindici paginette, scritte con la freddezza dello stile burocratico. Parlano di "soluzione finale della questione ebraica", "respingimento degli ebrei dallo spazio vitale del popolo tedesco", di "Mischlinge i primo e secondo grado" (persone di sangue misto), di evacuazione accelerata e dei modi più efficaci per estinguere un'intera collettività. E' il Verbale della conferenza del Wannsee, il testo della famosa riunione che il 20 gennaio del 1942 approvò il più criminale ordine del giorno emesso dal Reich: lo sterminio degli ebrei. A redigere quelle pagine - su indicazione di Reinhard Heydrich (capo della Direzione generale per la sicurezza) - fu proprio Adolf Eichmann. Il "contabile della morte" aveva trentasei anni. L'ignobile incontro tra alti funzionari del regime nazionalsocialista - quattordici persone tra segretari e sottosegretari di Stato, funzionari ministeriali, generali e ufficiali delle SS -, avvenne durante la guerra in un elegante sobborgo di Berlino. Lo raccontano con una ricca mole di documenti gli studiosi Kurt Pätzold ed Erika Schwarz nel libro ora tradotto in Italia Ordine del giorno: sterminio degli ebrei (Bollati Boringhieri, pagg. 182, lire 48.000). "La migliore risposta al revisionismo e al negazionismo", recita la quarta di copertina. Quando, nel giugno del 1960, il capitano della polizia israeliana Avner Less chiederà ad Eichmann - imputato dinanzi al tribunale di Gerusalemme - di ricordare quella conferenza, egli tenterà di minimizzare il proprio contributo. Il 4 luglio - si era ormai al diciassettesimo nastro magnetico, più o meno allo stesso numero di ore di interrogatorio - gli venne consegnata una copia del verbale, redatto di suo pugno. Il registratore fu spento. Eichmann ebbe modo di preparare "la difesa". Il quadro autoassolutorio che tentò di dipingere - lui piccolo personaggio insignificante, insieme ai "generali" e ai "papi", ma non seduto allo stesso tavolo, bensì in disparte insieme a un'ano-nima segretaria - non commosse il capitano Less. Nel quadro dello sterminio degli ebrei, Eichmann aveva avuto un ruolo centrale di or-ganizzazione e coordinamento, documentato anche dalle carte di Wansee. La conferenza non gli assegno un nuovo ruolo, ma ufficializzò il rilievo dell'attività criminale dell'addetto alle questioni ebraiche. Nel volume Ordine del giorno: sterminio degli ebrei sono riprodotti - oltre al Verbale - tutti gli appunti, lettere e testimonianze che riguardano la riunione di Berlino. Ma vi figurano anche documenti risalenti al 1941, selezionati dagli autori nell'intento di dimostrare che lo sterminio ebbe inizio ben prima della tragica conferenza del Wannsee.

la Repubblica – 1 marzo 2000

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