DIARIO di Repubblica

 Trent'anni fa moriva a New York   HANNAH ARENDT

Quel viaggio nel totalitarismo

Al culmine della celebrità e dell’impegno scomparve il 4 dicembre 1975 - Il pensiero di un’ebrea esule, che analizzò gli orrori della politica

di Julia Kristeva

Hannah Arendt deve la propria celebrità all’opera di antropologia politica intitolata Le origini del totalitarismo. Il saggio cerca di descrivere la cristallizzazione di un male assoluto: l’idea e la sua pratica attuazione nel XX secolo che l’umanità sia superflua. Facendo leva sull’economia, la politica, la sociologia, persino sulla psicologia sociale, attingendo alla letteratura e alla filosofia, la Arendt racconta una Storia fatta di storie personali e collettive: i “dati” transitano attraverso l’immaginario e sono strumentalizzati dall’ideologia più mortifera che l’umanità abbia mai conosciuto, poiché arriva al punto di decretare che alcuni esseri umani sono superflui. Alcuni, oppure, sotto la spinta dell’utilitarismo e dell’automazione e a lungo andare tutti gli esseri umani? Questo è il timore, per nulla, dissimulato, della Arendt. L’ambizione di rintracciare le “origini” o la “natura” di tale orrore è temperata dalla sua perspicacia intellettuale: poiché la categoria della “causalità” è estranea al campo delle discipline storiche e politiche, bisogna individuare alcuni “elementi” che divengono un’«origine degli eventi solo quando si cristallizzano in forme fisse e definite. Allora, e solo allora, sarà possibile seguire all’indietro la loro storia. L’evento illumina il suo stesso passato, ma non può mai essere dedotto da esso». L’autrice ammette dunque che la “cristallizzazione”, da lei individuata ripercorrendo gli eventi a ritroso, alla ricerca nel passato degli “elementi” premonitori, è simile a un processo dell’immaginazione. Stendhal non parlava forse della nascita dell’amore come di una “cristallizzazione”? Per altro verso, rivela che la sua intenzione era quella di fornire gli “elementi” (the elemental structure) «che alla fine si cristallizzano» nel totalitarismo. Claude Lévi-Strauss aveva appena pubblicato Le strutture elementari della parentela (1949) e lo strutturalismo cominciava ad assumere importanza, analizzando gli elementi costitutivi del «pensiero selvaggio». Solo lo sfociare parossistico degli “elementi” in “eventi”  porta a indicare i primi come ingredienti dei secondi. Quanto al processo della “cristallizzazione” in sé, il ricercatore non può che raccontarne la storia, basata su fatti incontestabili e su interpretazioni determinate dalle proprie personali implicazioni, dalle proprie scelte politiche e dai propri giudizi personali, che non sono direttamente morali, ma dipendono da una serie di parametri. La Arendt ha rifiutato ogni “impegno” alla maniera di Sartre o di qualunque altra “nuova sinistra”, per rivendicare unicamente il ruolo dello “spettatore” esterno all’azione; solo lo spettatore può giudicarla con imparzialità: è questa la condizione necessaria che permette al giudizio di diventare un’azione, la più pertinente di tutte. La lucidità della Arendt su tale conseguenza, la sua passione per la verità, rivelata come se fosse al tempo stesso una verità personale (quella di un’ebrea sfuggita alla Shoah) e una necessità storica universale (quella del giudizio più informato e più rigoroso, perché non si limita a essere coerente,  ma si basa su un imperativo morale che altro non è che l’amore per il prossimo), fanno di questo libro una testimonianza unica. Oggi, a distanza di tempo, senza trascurare la pertinenza delle analisi storiche e il vigore del pamphlet moralista — salutati o criticati fin dalla pubblicazione — la qualità essenziale di questo testo ci sembra consistere prima di tutto nell’arte di raccontare il romanzo del secolo: Le origini del totalitarismo si presenta infatti come una serie di storie individuali e collettive intervallate dalla storia personale della narratrice, anche lei alle prese con la “cristallizzazione”. «La parola “ebreo” non veniva usata quando ero bambina», ricorda Hannah Arendt in un’intervista. Allevata da una madre che «non era affatto religiosa», ebbe un’ “illuminazione” sulla sua identità di ebrea solo ascoltando le battute antisemite dei bambini per strada, mentre la raccomandazione materna era, in quei casi, di non abbassare la testa, ma di difendersi. Martha prendeva più sul serio le affermazioni antisemite dei professori di liceo: «Avevo l’ordine di alzarmi immediatamente, abbandonare la classe, tornare a casa e fare un resoconto dettagliato [zu Protokoll [...] geben] di ciò che era avvenuto». La madre scriveva allora una delle sue numerose lettere di protesta, e Hannah godeva di un giorno di vacanza. Accettare che si affermi qui una definizione laica, non religiosa, dell’identità ebraica, si rivela insufficiente: io non mi definisco come qualcuno che condivide una religione, ma accetto la mia identità difendendomi da sola, e io scrivo — noi scriviamo — a chi di diritto, perché io credo, noi crediamo — che sia possibile giudicare le ingiustizie. In uno scambio di opinioni ormai celebre con Scholem, dopo lo scandalo suscitato dal suo resoconto del processo a Eichmann, la Arendt respinge un presunto rifiuto laico della religione di cui alcuni sionisti si servivano con l’obiettivo più o meno confessato di trasferire in realtà lo spirito religioso al culto dello Stato o del popolo provvidenziali: senza Dio, il popolo è il nostro Dio. Contraria a tale atteggiamento, sostiene una posizione originale: rifiutando il nichilismo, per lei è importante ripensare la tradizione («credere in Dio») interrogando continuamente la trascendenza. Questa è, secondo la Arendt, la condizione indispensabile perché ogni individuo sia rispettato e possa rinascere all’interno di una comunità politica plurale. Pur tenendo conto del fatto che nasciamo a ogni atto del nostro pensiero, la Arendt si vide segnata dall’educazione dei genitori e dalla lingua materna. A ciò si aggiunge la convinzione che l’ebraicità sia un “dato di fatto”, siano “fattezze”: il che la fa apparire tale nello spazio, sempre politico, degli altri. Né determinazione biologica, sulla quale non si dilunga mai (probabilmente la considerava una semplice zoe che ogni essere vivente, per umanizzarsi, deve trasformare in bios) né particolarità psicologica (che chiama “vizio”, accusando gli ebrei assimilati e i loro assimilatori falsamente filosemiti di compiacersene per meglio braccare l’intruso, una volta arrivato il momento), l’ebraicità è uno di quei doni che si ricevono alla nascita, per i quali si deve essere riconoscenti e sui quali è opportuno riflettere e giudicare. È quello che la Arendt definisce un “problema politico”: «Lei mi chiede se sono tedesca o ebrea. Per essere onesta, devo dire che da un punto di vista individuale e personale, la cosa mi è del tutto indifferente [...]; sul piano politico, parlerò sempre soltanto a nome degli ebrei», scrive a Jaspers. Più avanti, ribadisce la propria posizione: «Ora l’appartenenza all’ebraismo era diventata anche per me un problema, e questo problema era un problema politico: puramente politico!». Impietosa con i nemici del popolo ebraico, non lo è di meno con i suoi pari: il caso Eichmann ne sarà la prova.


SILLABARIO - HANNAH ARENDT

di Hans Jonas

È stata una delle donne di maggior spicco del nostro secolo. Penso di concordare con lei se parlo di “donne” e non di “pensatori” (una definizione che sta come la parte al tutto) o di “persone” (un modo per sfuggire alla caratterizzazione sessuale). La sua scelta priva di riserve per ciò che il caso o il destino avevano fatto di lei – figlia di genitori ebreo-tedeschi di elevata educazione, passeggera sulla nave del ventesimo secolo, delle cui grandi convulsioni è vittima e testimone, amica di molti che ne condividono il viaggio e capace di esprimere le sue angosce, donna bella e magnetica con in più l’infallibile capacità di distinguere tra amicizia maschile e femminile – la piena conferma da parte sua di tutti questi dati relativi alla propria condizione umana è indissociabile dall’immagine che è visibile dietro il racconto di questa vita così unica. Era infatti intensamente femminile e proprio per questo non era femminista (“io non desidero perdere i miei privilegi”); le piaceva ricevere fiori, essere accompagnata, godere delle attenzioni che gli uomini riservano alle signore.


Il suo Novecento inquieto e radicale

Il modello della polis greca e l’esperienza americana

di Roberto Esposito

È possibile, per un autore giustamente considerato, accanto a Max Weber e a Carl Schmitt, tra i massimi pensatori politici del secolo scorso, non essere né autoritario né liberale, né conservatore né progressista, né di destra né di sinistra? È quanto accade a Hannah Arendt, attraverso un’opera che taglia trasversalmente, sventrandola, l’intera filosofia politica moderna alla ricerca di quel nucleo di senso che essa ha rimosso o rinnegato nei suoi protocolli ufficiali. Ma cosa rende la Arendt così refrattaria a tutte le tradizioni consolidate, così irriducibile ed eccedente rispetto alle griglie interpretative in cui siamo abituati ad incasellare testi e linguaggi, pensieri ed autori? Si tratta di un gesto radicale, di uno strappo, che, prima ancora dei contenuti, rompe la forma stessa della filosofia politica, intesa come la prescrizione normativa di determinati valori o comportamenti a partire da una concezione generale – quello che in guise diverse hanno fatto Hobbes e Rousseau, ma anche Platone e Marx. Contro questa prepotenza della teoria, l’obiettivo primo della Arendt è quello di liberare la politica da tale vincolo costrittivo e di assumerla in se stessa, nella sua figura originaria di azione condivisa della pluralità dei cittadini. La tesi fondamentale dell’autrice, così come è espressa soprattutto in quel magistrale saggio di antropologia filosofica che è The Human Condition, è che questo cristallo lucente dell’agire in comune – in forma archetipica riconoscibile nello scenario agonistico della polis greca – sia stato appannato e poi sempre più irrimediabilmente sfigurato dalla sua sostituzione con qualcosa d’altro che ha assunto di volta in volta i nomi di sovranità, rappresentanza, volontà generale – tutti dispositivi concettuali volti a ridurre la naturale molteplicità dell’agire politico alla gabbia dell’unità. Da questo punto di vista la stessa democrazia, nata alla fine dei regimi assolutistici, non ha tenuto fede alle proprie promesse scivolando rapidamente nella gestione governativa da parte di un ceto professionistico di per sé preclusivo di ogni forma di partecipazione civile. È così che, nel corso del tempo, la democrazia è stata confinata in pochi eventi riducibili da un lato alle fragili esperienze di autogoverno che a volte hanno scandito i passaggi di regime e dall’altro alla rivoluzione americana. Come l’autrice sostiene, non senza qualche forzatura storiografica e anche concettuale, nel saggio della metà degli anni Sessanta On Revolution, la rivoluzione americana è stata l’unica – rispetto a quella francese e soprattutto a quella sovietica – ad essere rimasta essenzialmente politica, ad aver, cioè, resistito alla trasposizione in termini sociali che ha consegnato le altre al dominio della necessità e della violenza. Anche in quel caso, tuttavia, per un tempo troppo breve perché la libertà conquistata potesse consolidarsi in forme di democrazia diretta in grado di evitare il ritorno di apparati burocratici portati a confiscare il bene pubblico a favore dell’antica distinzione tra chi comanda e chi obbedisce. Da qui una spirale di progressiva regressione, destinata a confluire, attraverso la doppia deriva dell’antisemitismo e dell’imperialismo, nel gorgo del totalitarismo. Come risulta dal suo celebre libro del 1951, dedicato appunto alla ricostruzione genealogica delle sue origini, il totalitarismo novecentesco è l’estremizzazione parossistica di quella reductio ad unum che ha segnato l’intero percorso della modernità. Già in questa, infatti, si preannunciava quella dinamica spoliticizzante – definita dal primato della categoria di produzione su quella di azione – pervenuta al suo culmine terroristico nel progetto letteralmente nichilistico del nazismo e dello stalinismo. Ciò che, pur nella differenza di presupposti e di finalità, li accomuna in un’unica stretta mortifera è l’idea di fare della natura umana, cioè del corpo stesso dell’uomo, l’oggetto di una trasformazione radicale della storia in termini di razza o di classe. Quanto questo modello interpretativo risulti convincente è un interrogativo che si può lasciare aperto. Che esso tenda a omologare eccessivamente fenomeni di carattere diverso come sono indubbiamente stati nazismo e comunismo è più che probabile. Che la stessa modernità finisca per smarrire le sue diverse anime in una sorta di imbuto in cui tutto alla fine sembra convergere verso l’inferno di Auschwiz e Kolyma anche è un dato difficilmente contestabile. E tuttavia, a lettura ultimata resta l’impressione di un’intelligenza bruciante e di un rigore etico che, soprattutto nelle pagine sui campi di sterminio nazista, tocca un vertice ineguagliato nella letteratura politica contemporanea. Quello che caratterizza la sua opera, come si è detto, non è un insieme di precetti etico-politici su ciò che debba essere una società giusta – ma piuttosto l’individuazione aspra e radicale di ciò che sicuramente non lo è stato. Da questo punto di vista il suo pensiero può bene essere definito impolitico – se con questo termine si voglia indicare l’oltrepassamento delle tradizionali dicotomie politiche in cerca di qualcosa che esse non riescono ad afferrare. Ciò che la Arendt ci invita a riconoscere, pur nelle nostre società malate di entropia politica, è la potenza innovativa implicita nel fatto che l’uomo stesso, fin dalla sua venuta al mondo, è un inizio. Come diceva il suo Agostino, «initium ut esset, creatus est homo».


Con Heidegger l’amore e il tormento

Un legame che durò tutta la vita

di Franco Volpi

Nell’inverno 1924-25, a Marburgo, Heidegger tenne un corso magistrale su Platone e Aristotele. Nonostante la concentrazione sull’arduo greco dell’Etica Nicomachea e del Sofista, il trentacinquenne filosofo rimase colpito – come scriverà nelle lettere – da «quello sguardo che mi rivolgevi mentre parlavo dalla cattedra». A fulminarlo furono gli occhi della diciottenne Hannah Arendt che, vestita di un verde sgargiante, seguiva con soggezione le sue lezioni. Benché sposato e padre di due figli, il promettente professore s’accese come una fiaccola nella travolgente passione per la giovane matricola. Sappiamo, nel frattempo, che stava prendendosi la rivalsa sulla moglie: il secondogenito Hermann non era figlio suo, ma frutto di una scappatella di Elfride. Martin non trovò però mai il coraggio di andare fino in fondo, per dare a Hannah «il dono della visibilità pubblica», che lei con insistenza gli chiedeva. E si lasciò così sfuggire – come confesserà – «la passione della mia vita». Quando trentacinque anni dopo, nel 1960, uscì la versione tedesca di Vita activa, la Arendt spedì la prima copia del suo capolavoro a Martin, scrivendogli: l’opera non avrebbe mai visto la luce «senza tutto quello che da te ho appreso in gioventù. È un libro scaturito direttamente dall’esperienza dei primi giorni a Marburgo e ti sono debitrice, sotto ogni aspetto, più o meno di tutto». Su un foglio a parte abbozzò una dedica, che tuttavia tenne per sé: «De vita activa. Rinuncio alla dedica di questo libro. Come potrei dedicarlo a te, mio intimo, a cui sono e non sono rimasta fedele, sempre, ed entrambe le cose amandoti». Era l’ultima segreta dichiarazione d’amore. Quella tra Heidegger e Hannah Arendt fu una storia d’amore incredibile. Intessuta di incontri segreti di rara intensità («Hannah è l’unica che mi abbia veramente capito»), di strazianti separazioni, ritrovamenti fugaci, smarrimenti e illusioni, è una storia che accende come poche la nostra immaginazione. Vuoi per il nome dei protagonisti, primi attori sulla scena del pensiero ma francamente inattesi nel ruolo di amanti. Vuoi per le travagliate circostanze in cui fu vissuta, che meriterebbero di essere raccontate in un romanzo. Vuoi perché realizzò una coincidentia oppositorum, un combaciare di due modi di essere e di pensare contrapposti, che se avesse avuto libero corso avrebbe potuto cambiare le sorti della filosofia del Novecento. Quali imprevedibili scenari si sarebbero aperti, per il pensiero contemporaneo, se Martin avesse avuto il coraggio di abbandonare Elfride per seguire Hannah in America? Che cosa sarebbe diventato il filosofo della Selva Nera nella vita metropolitana di New York? Insomma, è una storia che alimenta, oltre all’immaginario romantico dell’amore, anche impertinenti fantasie filosofiche.


Io, spesso fraintesa a destra e a sinistra

Confessioni di una teorica che detestava essere etichettata

di Hannah Arendt

La sinistra, si sa, mi considera conservatrice, mentre i conservatori talvolta mi ritengono una persona di sinistra, un’avversaria o Dio sa che. Per quanto mi riguarda devo dire che la cosa mi lascia del tutto indifferente. Non credo che questo genere di cosa possa far luce in nessun modo sulle vere problematiche di questo secolo. Io non appartengo ad alcun gruppo. I sionisti sono l’unico gruppo al quale io sia mai appartenuta, e soltanto per colpa di Hitler, beninteso. E comunque soltanto dal 1933 al 1943, dopo di che ho rotto con il sionismo. Avere soltanto la possibilità di difendersi in quanto ebrei, non in quanto essere umani: ecco, all’epoca pensai che fosse un grave errore il fatto che in quanto ebrei se si era attaccati non era possibile rispondere: «Scusatemi, non sono ebrea, sono un essere umano». E stupido. Sguazzavo in questo genere di stupidità. Non c’erano alternative. Così mi sono impegnata nella politica  ebraica. A dire il vero, non proprio in politica. Ho lavorato in ambito sociale, il che da un certo punto di vista era collegato alla politica. Non sono mai stata socialista. Non sono mai stata comunista. Provengo da un ambiente socialista: i miei genitori erano socialisti, ma per quanto mi riguarda non ho mai avuto la minima velleità di esserlo. Ecco perché non posso rispondere a questa domanda. Non sono mai stata liberale. Quando ho detto che non lo ero, ho trascurato però di precisare che non ho mai creduto al liberalismo. Quando sono arrivata in questo paese, ho scritto nel mio inglese zoppicante un articolo su Kafka. L’hanno «inglesizzato» per pubblicarlo sulla Partisan Review. Quando mi sono recata da loro per parlare di tale «inglesizzazione» ho riletto il mio articolo e mi è saltata agli occhi, tra tutte le altre, la parola “progresso”. Ho obiettato: «Che cosa intendete dire? Io non ho mai adoperato questa parola». A un tratto uno dei redattori è andato nella stanza accanto, da un altro redattore. Mi hanno piantata lì e li ho sentiti esclamare, in tono davvero sconsolato: «Non crede neppure al progresso!». Non condivido l’enorme entusiasmo di Marx per il capitalismo. Se si leggono le prime pagine del Manifesto del Partito Comunista ci si trova davanti il più famoso elogio del capitalismo che sia mai stato fatto. E questo, in un’epoca nella quale il capitalismo era già bersaglio di attacchi sferzanti, in particolare dalla destra. I conservatori sono stati i primi a produrre queste numerose critiche, in seguito riprese dalla sinistra, ma altresì da Marx, certo. In un certo senso Marx aveva perfettamente ragione: il socialismo è il risultato logico del capitalismo. La ragione di tutto ciò è molto semplice: il capitalismo è cominciato con l’espropriazione. E la legge che allora ha determinato lo sviluppo, e il socialismo persegue l’espropriazione fino alla sua conclusione logica, da un certo punto di vista, sfuggendo a qualsiasi influenza moderatrice. Quello che comunemente si denomina socialismo umanitario significa molto semplicemente che questa tendenza crudele che ha avuto inizio con il capitalismo e si è perpetuata con il socialismo è più o meno attenuata dal diritto. Qualsiasi processo produttivo moderno in verità è un processo di espropriazione progressiva. Io mi rifiuterei sempre, pertanto, di operare una distinzione tra i due: per me si tratta in realtà di un solo ed unico movimento. Da questo punto di vista Karl Marx aveva ragione: egli è stato l’unico ad aver effettivamente avuto il coraggio di pensare a questo nuovo processo produttivo che si è propagato nell’Europa del XVII, poi del XVIII e infine del XIX secolo. Fino a lì, la cosa è assolutamente vera. Solo che si trattava di un inferno: l’esito finale non è stato il paradiso. Ciò che Marx non ha compreso è che cosa sia davvero il potere. Egli non ha compreso questa cosa, specificamente politica. D’altro canto, egli ha però visto un’altra cosa, ossia che il capitalismo, abbandonato a se stesso, ha la tendenza a spazzare via qualsiasi legge si frapponga alla sua crudele avanzata. La crudeltà del capitalismo nel corso del XVII, del XVIII, e del XIX secolo è stata, secondo ogni evidenza, schiacciante. Non lo si deve perdere di vista allorché si legge il formidabile elogio che Marx fa del capitalismo: nel momento stesso in cui si dilungava sulle conseguenze più abominevoli di questo sistema, ciò non di meno egli ha creduto che si trattasse di qualcosa di molto importante. Beninteso: Marx era anche hegeliano e credeva nella forza della negatività. Ebbene, da parte mia io non credo affatto nella forza della negatività e della negazione, se questa provoca profonda infelicità agli altri».

Traduzione di Anna Bissanti


 Le tappe

La famiglia 1906 – Hannah nasce il 14 ottobre a Linden, vicino ad Hannover, dove abitavano i suoi genitori Martha e Paul Arendt. La sua famiglia appartiene alla borghesia ebraica benestante.

L’incontro 1924 – Incontra Heidegger all’università di Marburg. Tra l’allieva e il maestro nasce un’intensa passione. Nel ’29 si laurea ad Heidelberg sotto la guida di Karl Jaspers, con una tesi sull’amore in Sant’Agostino.

L’esilio 1929-1941 – Nel ’29 spossa Günther Stern, anch’egli allievo di Heidegger. Con l’inizio delle persecuzioni naziste agli ebrei, lascia la Germania per Parigi, dove conosce Walter Benjamin e Alexander Koiré.

Gli Stati Uniti 1940-41 – Internata nel campo di Gurs dal governo di Vichy in quanto “straniera sospetta” e poi rilasciata, decide di partire per gli Stati Uniti. Nel 1940 aveva sposato Heinrich Blücher.

Il processo a Eichmann 1961 – È inviata a Gerusalemme dal “News Yorker” per il processo contro il gerarca nazista. Da quell’esperienza nascerà il libro “La banalità del male”, che la esporrà all’accusa di antisemitismo.

Gli ultimi anni 1975 – Negli ultimi anni interviene spesso in dibattiti pubblici, anche sul Vietnam. Il 4 dicembre 1975 muore per un infarto nel suo appartamento a New York. Stava scrivendo “La vita della mente”.

Da la Repubblica, 2 dicembre 2005, per gentile concessione

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