la Repubblica
Ebrei,
romani de Roma
Un
convegno di tre giorni all’Archivio di Stato
di
Marco
Politi
Roma – «Io
so' jodìo romano: e so' romano da tempo de li tempi antichi. Io parlo
com'allora. Ae (ho) visto Giuglio Cesare e Pompeo! Aio passato guai co'
Vespasiano». Crescenzo del Monte, scrivendo questo sonetto nel 1923, riflette
burlescamente un tratto profondo dell'ebraismo romano. Non solo la sua
antichità - che risale a prima della presenza cristiana - ma anche il suo
stretto intrecciarsi, il suo vivere e mescolarsi alle vicende della Città Etèrna
nonostante ghetto, repressione, editti vessatori. Ciò che definisce, insomma,
l'ebraismo romano è il suo non essere e non sentirsi per niente separato dalla
storia dell'Urbe. Dice Marina Caffiero, docente alla Sapienza, tra gli
organizzatori
di un convegno che si apre oggi a Roma, che «intrecci, legami, scambi,
naturalmente conflitti, disegnano una vicenda assai più complessa del modello
tradizionale di esclusione o autoesclusione». Non a caso Crescenzo del
Monte intitola la sua poesia proprio Un Romano de Roma. Ed è
significativo che il nome italico più diffuso nella comunità ebraica sia
quello romanissimo di Cesare. Altrettanto intrigante è il fatto che, al di là
dell'odio per il potere romano e per Tito che distrusse Gerusalemme, si
riscontri nelle fonti ebraiche più antiche una sorta di fascinazione per la
capitale dell'impero dei Cesari. Alle porte di Roma, secondo il Talmud
babilonese, sta il Messia e nel Talmud palestinese si legge: «Se una persona ti
chiede: dov'è il tuo Dio? Rispondigli: nella grande città di Roma». Gli studi
di filologia hanno rivelato che il giudaico-romanesco riflette specificità
antichissime, completamente diverse dalle altre pronunce dialettali ebraiche
in Italia. L' ebraismo romano ha, d'altronde, questo di particolare. Si tratta
di una presenza ininterrotta da ventuno secoli, che mai si è voluta liquidare
con pogrom, che si è sviluppata in simbiosi con la città e su cui semmai la
persecuzione razziale nazifascista cadrà ferocemente come qualcosa di
impensabile: nel senso che nessun israelita romano immagina mai -
all'inizio che si voglia cancellare tout court l'ebraismo dall'Urbe e
dall'Italia. A questa vicenda (con particolare attenzione agli ultimi
cinque secoli) è dedicato il convegno che si terrà per tre giorni all'Archivio
di Stato. Più che un convegno è un affresco che spazia dalla storia dei
cimiteri alle professioni esercitate dagli israeliti nel Cinquecento, dalle
testimonianze raccolte dalla Shoah Foundation, all'analisi dei comportamenti
contraddittori nei confronti del regime fascista, dai rapporti con la corte
papale alla partecipazione alla Grande Guerra, alla vita religiosa, alla
stampa risorgimentale, agli ebrei nella poesia romanesca. Il ghetto –
pochi lo sanno – è un’invenzione dei Papi, poi copiata in Europa.
Sorto per la prima volta a Venezia con tratti principalmente amministrativi,
diventa a Roma nel Cinquecento per opera di Paolo IV Carafa istituzione
segregante e repressiva. Si accumulano i divieti a danno degli ebrei. Vietato
tenere in locazione case e magazzini fuori dal ghetto, avere servitori o
lavoranti
cristiani, acquistare proprietà immobiliari o creare società commerciali e
tenere comproprietà con neofiti o cristiani. Vietato per le donne portare
orecchini diversi dai cerchioni alla zingara. Vietato l'esercizio delle arti
liberali o mestieri che non fossero lo stracciarolo. Vietato leggere e
possedere il Talmud. E poi l'obbligo di portare il segno giallo di
riconoscimento. E le conversioni e i battesimi forzati. Eppure tutto questo
apparato esclusivo non impedisce una vivace interazione della comunità
ebraica con la città. In barba ai divieti gli ebrei hanno continue occasioni e
numerosi spazi di interscambio con “i cristiani”. Entrano nelle case
proprio perché venditori di stracci, frequentano i mercati di piazza Navona e
Campo Vaccino, posseggono edifici fuori dal ghetto grazie a prestanome, sono
datori di lavoro di dipendenti cristiani, sono notai e medici, esperti di
legge ascoltati dai pontefici, hanno contratti di appalto come quello di 2500
letti per i soldati pontifici o per l'acquisto degli abiti usati dagli ospedali
romani. Sul finire del Seicento Tranquillo Vita Corcos fonderà addirittura
un’Accademia Ebraica. Gli ebrei partecipano ritualmente
alla vita della città nei suoi momenti culminanti. In Campidoglio con la
delegazione inviata ai Conservatori. Al Colosseo, presso l'Arco di Tito, per
omaggiare il nuovo pontefice. Cerimonia di grande rilievo simbolico, perché il
Papa respinge il valore della Torah offertagli, ma accetta comunque il
dono "includendo" gli ebrei con il loro credo tra i suoi sudditi.
Nella vita quotidiana, nota la ricercatrice Serena di Nepi, esiste una sorta di
«pragmatismo, che certo non supera le barriere ideologiche, ma le accantona per
i bisogni di ogni giorno». Questa convivenza è così radicata che alla
promulgazione delle leggi razziali fasciste molti ebrei penseranno che Mussolini
si comporterà alla fine come i papi: pubblicando editti, che poi in qualche
modo si possono aggirare. Non sarà così. Tragicamente. Ma prima di arrivare
all'antisemitismo e alle razzie naziste, la comunità ebraica romana vivrà
le stagioni entusiasmanti del Risorgimento e dello Stato unitario. Gli
ebrei si arruolano in massa nelle Guardie Civiche delle due Repubbliche
romane, partecipano con orgoglio alla guerra del ’15 – ‘18, avendo per
la prima volta un loro Rabbinato militare, e persino allo scoppio della Seconda
guerra mondiale dimostrano il loro patriottismo arruolandosi convintamente. La
professoressa Filomena Del Regno esplora uno aspetto generalmente in ombra: la
reazione oscillante degli ebrei romani all'indurirsi del regime fascista sul
finire degli anni Trenta. «La comunità - spiega - è molto diversificata al
suo interno: un gruppo dirigente filofascista, un gruppo filosionista molto
esiguo,
una massa inerte, smarrita e inconsapevole di fronte alla violenza normativa
antisemita. Molti si convertono al cattolicesimo, molti emigrano, molti
attendono
speranzosi, riaffermando fedeltà al regime». In questo panorama, anche
quando inizia la stagione dei convogli verso i lager, riemerge continuamente
quel "sentirsi romani" di una comunità, che non ha mai vissuto la sua
presenza nell'Urbe come stranieri o ospiti. Racconta Micaela Procaccia,
della Direzione generale degli archivi, di un vissuto intensamente legato a
strade, caseggiati e piazze, a ricordi d' infanzia con i «ragazzini che per
strada danno vita a interminabili partite di pallone fra giudii e trasteverini»,
dove ci si sente «più romani che italiani». Settimia Spizzichino, unica
donna superstite della retata del 16 ottobre 1943, lo confermerà; dopo la
sua liberazione dal lager di Bergèn Belsen. A chi le domanda che senso ha
tornare in Italia, risponde: «Roma è Roma ... Non c'entra l’Italia, non
c'entra niente altro». In questo panorama anche i Papi diventano in qualche
modo
un punto di riferimento familiare. Almeno nella bufera della Shoah. Le
istituzioni cattoliche fanno molto per salvare ebrei durante l'occupazione
nazista
di Roma. Però il silenzio di Pio XII dopo la razzia del 16 ottobre ‘43
viene vissuto come un vero tradimento. Per due giorni e mezzo testimonia
Claudio Fano, i votati alla deportazione stanno chiusi nel Collegio Romano, a due
passi dal Vaticano: «Il Papa c’aveva la macchina con la benzina. Bastava
mandare uno straccio di cardinale o di vescovo». Ma nessuno arriva.
Da la Repubblica, 7 novembre 2005, per gentile concessione