la Repubblica

Un errore uccidere Mussolini

Il presidente Ds: "Un processo sarebbe stato più giusto". Il segretario: "Sbagliato riaprire questa pagina" D’Alema: serviva una Norimberga. Ma Fassino dissente

di Silvio Buzzanca

ROMA - Benito Mussolini non doveva essere fucilato, doveva finire davanti ad un tribunale tipo quello di Norimberga. Massimo D’Alema affida alle pagine dell'ultimo libro di Bruno Vespa, anticipate da Panorama, un giudizio negativo sull’esecuzione del Duce avvenuta il 28 aprile del 1945 a Giulino di Mezzegra. «L'uccisione di Mussolini -  dice D’Alema - fa parte di quegli episodi che possono accadere nelle ferocia della guerra civile, ma che non possiamo considerare accettabili». Il leader diessino crede che sarebbe  stato meglio seguire la strada usata per giudicare i gerarchi nazisti dopo la guerra. «Un processo - dice­ sarebbe stato più giusto. Al di là dell'accertamento delle responsabilità individuali, un processo al Duce come quello di Norimberga avrebbe consentito anche di ricostruire un pezzo della storia italiana». Ma il presidente dei Ds questa volta non raccoglie molti consensi a sinistra. Perfino Piero Fassino, il segretario dei Ds, prende le distanze. «Non ha senso riaprire questa pagina che si presta soltanto a un revisionismo storico strumentale. La guerra - aggiunge il segretario dei Ds, ha le sue logiche spietate. Non si può dimenticare quanti partigiani sono stati torturati, fucilati, morti nei campi di sterminio. A quelli nessuno ha fatto il processo». Armando Cossutta aggiunge: «Ritengo che Massimo D’Alema sbagli profondamente. Mussolini è stato condannato alla fucilazione "in nome del popolo italiano" dagli unici organismi allora competenti, dotati di pieni poteri legali: il Comitato di liberazione nazionale e il Corpo volontari della libertà». Cossutta ricorda anche che mentre in Italia ci fu «una lunga e grandiosa guerra di liberazione» in Germania questo non avvenne. E furono dunque gli alleati a catturare i gerarchi e a processarli. «In Italia provvidero gli Italiani non per odio, ma per dignità». Così alla fine a plaudire alla "sortita" storica di D'Alema, restano Alessandra Mussolini e Silvio Berlusconi. Il Cavaliere, infatti, prende la palla al balzo: «Meno male che hanno cambiato idea. Ma intanto, continuano a commettere sia errori, sia infamie», dice. Il premier, inoltre allarga lo spettro temporale. "Per tutti gli anni '90 - sostiene - hanno linciato Bettino Craxi. Oggi, pensando di ottenere vantaggi elettorali, Fassino inserisce Craxi tra i padri del socialismo italiano. Non mi stupirei se tra 10 o 20 anni riabilitassero anche Berlusconi».Un'uscita che non piace al verde Paolo Cento che si chiede: «Ma perché questa ansia di revisionismo su una vicenda così drammatica della nostra storia che riconsegnò al paese la libertà e la democrazia?». Ad apprezzare resta dunque Alessandra Mussolini. La nipote del Duce rispolverala tesi della Resistenza come guerra civile. «Da parte nostra - dice infatti - mai abbiamo dubitato che si sia trattato di un atto vigliacco e inaccettabile. Sentire queste cose da un leader della sinistra, anche se tardivamente, ci dà l'ennesima conferma delle nostre ragioni su una guerra civile che ha appunto. mostrato solo efferatezza, inciviltà e vergogna per l'Italia intera».

Da la Repubblica, 4 novembre 2005, per gentile concessione


Caro D’Alema era l’unica via

Mussolini: Claudio Pavone replica al presidente ds

di Simonetta Fiori

«L’esecuzione di Mussolini? Sarebbe stato più giusto processarlo». «La guerra civile? Uno scontro feroce che conobbe atti di barbarie da una parte e dall'altra». «L'uccisione di Claretta Petacci? Incomprensibile per due persone che oggi ne parlano in poltrona». Sono dichiarazioni di Massimo D'Alema, intervistato da Bruno Vespa nel suo nuovo libro Vincitori e vinti. Nell’anticipare il volume, Panorama presenta in copertina il presidente dei Ds, valorizzato per il suo "coraggio"; sullo sfondo i corpi del duce e di Claretta appesi a piazzale Loreto; a fianco, il commento di Ber­lusconi: «I comunisti hanno cambiato idea, ma continuano a commettere infamie». Claudio Pavone, prima partecipe poi storico della Resistenza, non vuole essere trascinato in una polemica di basso livello che confermerebbe i caratteri peggiori dei tempi in cui viviamo. Preferisce replicare con una citazione attribuita a Franco Fortini. È un articolo dell'Avanti!, uscito all'indomani dell'esecuzione di Mussolini: «Ieri s'è svolto uno spettacolo orribile. Necessario come tanti orribili supplizi. Quale "legalità" avrebbe riparato il torto commesso, l'arbitrio fatto legge, la violenza eretta a norma di vita? Il popolo è stato costretto a giustiziare il proprio tiranno per liberarsi dall'incubo di una offesa irreparabile. Per gli italiani non v'era altra via d'uscita. Era l'unica catarsi possibile».

Professore, D'Alema sostiene che sarebbe stato più giusto processare Mussolini.

«Innanzitutto va ricordato che la condanna a morte del Duce fu decretata dal Cnl dell'Alta Italia, che aveva avuto dal governo di Roma la delega per la gestione politica e militare della liberazione del Nord. Quindi non si trattò di un atto dovuto all'iniziativa di singole persone o movimenti. Altra cosa è ovviamente la fucilazione della Petacci, che tutti condannarono. Altra cosa ancora l'esposizione certamente orribile in Piazza Loreto dei cadaveri, che furono poi rimossi su decisione dell'autorità resistenziale: non dimentichiamo peraltro che era stata scelta quella piazza perché lì erano stati uccisi per rappresaglia dei partigiani e i loro corpi abbandonati sul selciato secondo un costume inaugurato dalla Repubblica sociale».

La resa dei conti tra fascismo e antifascismo era giunta all'atto finale.

«Sì, questa è una cosa che certo sono in grado di capire “anche due persone, che oggi ne parlano in poltrona”. L'uccisione Mussolini fu necessaria per chiudere definiti mente con il fascismo».

Esclude dunque l' ipotesi d'una Norimberga italiana?

«Sui motivi per cui non ci fu, rinvio al libro di Michele Battini Peccati di memoria. Gli apparati dello Stato italiano, per larga parte immutati, non avevano interesse a celebrare un processo. In particolare, la casta militare avrebbe dovuto processare una parte di se stessa. A cominciare da Badoglio.

Un processo imbarazzante anche per gli inglesi.

«In una prima fase gli alleati erano favorevoli a processare anche i criminali di guerra italiani. L'evolversi della situazione internazionale e i prodromi della guerra fredda gli fecero cambiare idea».

Una volta lei mi disse che, se Mussolini fosse stato processato, l'avremmo ritrovato sui banchi della Camera nelle file del Movimento Sociale Italiano.

«Credo che lo si possa dire ancora. Ed aggiungo: il suo fascicolo sarebbe finito nell'"armadio della vergogna", tra gli atti dei processi contro i criminali di guerra insabbiati dai ministri Gaetano Martino e Paolo Emilio Taviani».

Insomma, l'avrebbe fatta franca.

«Questa possibilità è sempre stata presente nei protagonisti della Resistenza. Non si doveva rifare come dopo il 25 luglio, quando a Mussolini e ai fascisti erano stati usati tanti riguardi, e poi loro vollero vendicarsi con la Repubblica Sociale».

Altra cosa fu l'uccisione della Petacci.

«Sì, inaccettabile: così essa apparve anche allora. Ma inaccettabile in senso morale era stato innanzitutto il fascismo. Colpisce che - dalla condanna dell'esecuzione della Petacci - il giudizio dell'onorevole D’Alema sembra estendersi a tutta la guerra civile».

Parla di atti di barbarie da una parte e dell'altra.

«Le guerre civili sono sempre cariche di efferatezza. Equiparare le due parti dal punto di vista dell’esercizio della violenza non è corretto. I fascisti della Rsi agivano con una ferocia protetta dalle autorità che allora impersonavano lo Stato, oltre che dagli occupanti tedeschi. I partigiani erano invece ribelli contro quello Stato. Rimproverare ai ribelli di essere tali, cioè rimproverargli il titolo d'onore, rischia di condurre a una equiparazione tra le due parti. Voglio poi aggiungere che la violenza era parte integrante della mentalità e della cultura fascista. Per gli antifascisti fu una necessità. E purtroppo, come sempre accade, anche la violenza esercitata per fini giusti può corrompere alcuni di quelli che la praticano».

In un'altra pagina del libro di Vespa, D'Alema distingue in modo netto tra chi militava dalla parte giusta e chi in quella sbagliata.

«È una distinzione giusta, che l'onorevole D'Alema non può ovviamente non fare. Ma la buona fede non è criterio sufficiente di giudizio nei confronti di nessuno. E, poi, è da dubitare che tutti coloro che aderirono a Salò fossero davvero "in buonafede"».

Mettendo in discussione l'esecuzione del duce, D'Alema ha demolito un caposaldo dell'opinione antifascista. Una concessione al "revisionismo"?

«Non voglio pensarlo. Il cosiddetto revisionismo è un fatto poco storiografico e molto politico, cioè con obiettivi politici»,

A quale fine?

«Non tocca a me dirlo. Mi è difficile pensare che un uomo avveduto come D'Alema non abbia riflettuto in anticipo sulle conseguenze che potevano avere le sue parole».

A lei che effetto fa?

«Prima stupore, poi dispiacere»


Il dissenso dell'Anpi

«L'esecuzione di Benito Mussolini fu un atto di giustizia, deliberato ed eseguito nel corso della guerra di Liberazione nazionale dagli organi che erano anche istituzionalmente i legittimi rappresentanti del governo italiano nell'Italia occupata: il Comitato di Liberazione nazionale Alta Italia e il Comando generale del Corpo volontari della Libertà». Con queste parole l'Anpi esprime il suo «fermo dissenso» da quanto affermato dal presidente dei Ds Massimo D'Alema nell'intervista del libro di Bruno Vespa.

Da la Repubblica, 5 novembre 2005, per gentile concessione


La politica della memoria - Intervista a Giovanni De Luna

Gli smemorati di sinistra

L’ultima di tante revisioni riguarda la fine di Mussolini. La storia come supermarket dove si può pescare a caso 

di Simonetta Fiori

Roma - Prima Luciano Violante con i "ragazzi di Salò". Poi il mea culpa di Piero Fassino sulle foibe e sul "silenzio" della sinistra. Oggi Massimo D'Alema con l'inattesa revisione su Mussolini - meglio non ucciderlo, ma, processarlo - accolta sui giornali come "il rovesciamento d'un tabù dell'antifascismo". E poi l'inquieto rapporto con la propria autobiografia di comunisti italiani: al principio congelata, più tardi frettolosamente liquidata, in tempi recenti rivisitata con esiti alterni. Difficile tracciare in modo nitido la politica della memoria perseguita nell'ultimo quindicennio  dalla sinistra italiana. Ma sia, improvvisazione o enfasi autoflagellatoria compongono un quadro spesso dominato dalla casualità. Pur nella varietà delle posizioni, non infrequenti appaiono i cedimenti al nuovo senso comune che con grande sapienza mediatica il neorevisionismo è andato sostituendo alla cosiddetta "vulgata antifascista". Ma qual è il rapporto con il passato nazionale d'una sinistra che si candida a governare? E quali sono i nodi finora irrisolti sul piano della sua identità che invece occorrerebbe sciogliere? «Bisogna prima chiarire cosa intendiamo con politica della memoria», premette Giovanni De Luna, storico del fascismo, della Resistenza e dell'azionismo, autore di numerosi saggi sulle fonti dello storico contemporaneo, non nuovo a incursioni sul rapporto tra memoria e politica e sull'uso pubblico della storia. «La memoria pubblica è il risultato di un patto contratto con i cittadini, su quel che è importante trasmettere alle generazioni future. Naturalmente non si tratta di un patto garantito e immodificabile: i suoi confini sono fluidi, cambiano a seconda della stagione politica. Nella Prima Repubblica era saldamente fondato sulla Costituzione e i suoi contraenti erano i partiti dell’arco  costituzionale. Nella Seconda Repubblica non è  ancora emerso niente del genere. È come se a Fiuggi e alla Bolognina siano state azzerate le più ingombranti eredità ideologiche del Novecento, fermandosi lì. I nuovi contraenti ci sono, ma i lineamenti di quel nuovo patto restano nebulosi e paradossalmente contraddittori».

Qual è stata la memoria “ufficiale” negli ultimi cinque anni?

«Dobbiamo distinguere tra: la politica istituzionale incarnata da Ciampi, giocata sull'asse Risorgimento -  Resistenza - Repubblica: i tre momenti alti della storia italiana - e la politica della memoria di area governativa, che ha attinto al nuovo senso comune alimentato dal neorevisionismo mediatico».

Che cosa intende per "nuovo senso comune"?

«Mi riferisco a una sorta di sapere storico diffuso costruito soprattutto dai  media. Un discorso sulla stona in cui confluiscono la curiosità verso la macelleria della guerra civile, ma anche il modello Porta a Porta, trasmissioni come  quella su Mussolini attraversate da una straripante dimensione familistica e privatistica del dittatore. Ecco, il dissolversi delle vulgate dei vecchi partiti ha come lasciato campo libero a una storia "usa e getta", semplificata, priva di spessore, totalmente appiattita sul presente».

Il nuovo senso comune appare segnato da qualche è stato definito l'anti-antifascismo.

«Sì, è l'humus a cui il centrodestra attinge direttamente la sua politica istituzionale, proponendo leggi come quella sui belligeranti di Salò, assimilati ai partigiani. O anche la Giornata del Ricordo per le foibe, segnata da un forte carattere revanchistico verso l'antifascismo italiano».            .

Tutto questo non ha niente a che fare con la memoria coltivata dal presidente Ciampi, che peraltro vanta un passato antifascista.

«La politica della memoria del centrodestra s'è svolta in alternativa a quella del Presidente della Repubblica, fermo sulla valorizzazione della Resistenza. Ora però la questione è: cosa succederà in Italia se vincerà il centrosinistra?»            .

La recente sortita di D'Alema, pur contestata da Fassino, desta qualche interrogativo. Anche se lo stesso presidente dei Ds è poi  tornato sull'argomento per precisare che non intendeva mettere in discussione il valore della Resistenza.

«Il fatto è che D'Alema - ma in altre occasioni Violante o lo stesso Fassino - sembrano essere subalterni allo stesso senso comune a cui ha attinto la destra. Con declinazioni diverse, naturalmente. Con convinzioni di fondo radicalmente distanti. Ma eguale è la disinvoltura con cui i leader della sinistra pescano dal supermarket della storia, per farne un uso politico immediato». 

Qual è il rischio?

«L'oscillazione ad oltranza, senza limiti. Un caso significativo a destra è offerto da Fini: nell’arco d'un decennio è passato dall'epinicio per Mussolini - "il più grande statista del secolo" - alla liquidazione radicale -  "il fascismo male assoluto". Ecco: la sinistra non dovrebbe ricalcarne l’eccesso di disinvoltura, e anche l'indifferenza verso la ricerca storica».

Quali sono i casi in cui la ricerca è stata ignorata?

«Mi limito a due degli stereotipi più diffusi nell'uso pubblico della storia: i "ragazzi di Salò" e "italiani brava gente". Tutte le ricerche degli ultimi anni hanno in realtà allargato il discorso sulle responsabilità dirette della Rsi: non solo nella deportazione degli ebrei, ma anche nelle stragi di civili. Un libro recente di Amedeo Osti Guerrazzi, Caino a Roma, mostra poi un'impressionante serie di spiate, tradimenti di italiani contro italiani, una rete collaborazionista capillarmente diffusa».

Anche nel caso delle foibe, gli storici che se ne occupano da vent'anni raccolti intorno all'Istituto Gramsci di Trieste sono rimasti spiazzati da una prima uscita di Fassino sulle reticenze della sinistra: loro non avevano taciuto affatto.

«Sì, anche quello fu un dibattito controverso. Credo che oggi si possa chiedere alla sinistra di non cedere al nuovo senso comune. Si discute di politica economica e stato sociale, perché non della memoria pubblica che intende difendere in questo paese? Sarebbe interessante avere delle risposte chiare».

Ci sono già dei segnali incoraggianti verso la linea del presidente Ciampi.

«Sì, ma la si eredita così come l'ha definita il Quirinale o ci si lavora sopra? Una memoria istituzionale che alimenti una religione civile è necessaria. Ciampi si è sforzato di ancorarla ad alcuni valori di fondo (libertà, democrazia, indipendenza nazionale, ecc.) sulla base dei quali selezionate alcune date (il 2 giugno, il 25 aprile) da proporre come luoghi di memoria a tutti i cittadini. Qui ci avviciniamo al patto che prima ho richiamato. Ma il punto è un altro. I partiti che contraggono quel patto sono a loro volta portatori di memorie identitarie, offrono ai propri militanti una visione del proprio passato a cui ancorare le proprie scelte nel presente. Nella sini­tra oggi il rapporto tra memoria e identità sembra un colossale pasticcio».

Ma come si delimitano gli ambiti di una "memoria identitaria"?

«Faccio un esempio sul 25 aprile: nel senso comune oggi tende a prevalere l’immagine della carneficina fatta dai partigiani; nella dimensione istituzionale voluta da Ciampi quella è la data in cui tutti gli italiani riconquistarono la libertà. Tra questi due estremi c'è uno spazio pubblico in cui si muovono memorie separate o opposte: quella degli ex fascisti (un eccidio), quella di chi rimpiange un'occasione mancata (i vecchi azionisti), ecc... Ecco: questo è lo spazio delle memorie identitarie, quello in cui ogni tradizione culturale e politica deve costruire il proprio Pantheon, rendere riconoscibile il proprio album di famiglia. Sembra invece che la sinistra non abbia più bisogno di eroi né di date simboliche».

Agli eroi provvede l'Anpi, l'Associazione dei partigiani.

«Non è certo in una dimensione reducistica e monumentale che si riesce a comunicare con i giovani».

Quali sono i nodi ancora irrisolti nella memoria storica della sinistra?

«Sono tanti, ma due più importanti di altri. Innanzitutto, l'antifascismo: è ancora un punto di riferimento, e in quali termini? L'antifascismo, nel lungo dopoguerra italiano, ha conosciuto varie declinazioni: prima patto tra partiti per avviare la Costituente, nel 1960 interprete del cambiamento sociale del paese. E oggi? È una risorsa imprescindibile della democrazia, in un paese che riscrive la sua Costituzione? Anche qui il pronunciamento della sinistra dovrebbe essere chiaro».

Finora non lo è stato?

«In modo ondivago, come altalenante appare la lettura del ruolo del Pci nella storia italiana. La ricerca propone diverse opzioni storiografiche, oscillanti tra "l'appendice di Mosca" e "le radici italiane". È sacrosanto che la ricerca vada avanti, ma anche qui occorre un'assunzione di responsabilità da parte della classe politica. Il Pci ha ostacolato nei suoi militanti il raggiungimento d'una piena cittadinanza democratica in Italia o è stato propedeutico all'acquisizione di questo senso di cittadinanza? Ha creato nemici interni o ha favorito la formazione di cittadini italiani? Domande tuttora inevase a sinistra».

Non c'è il rischio di ricadere in una vulgata organica, ricalcata su quella del vecchio Pci?

«No, quello schema è improponibile oggi. Sarebbe assurdo rimpiangerlo. Quel che in molti chiedono alla sinistra è di saper orientare alcune scelte di identità. L'improvvisare a briglia sciolta può produrre risultati politici nell'immediato, ma alla lunga rischia di disorientare.

Da la Repubblica, 24 novembre 2005, per gentile concessione

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