DIARIO di Repubblica
NORIMBERGA
Norimberga
un tribunale per la storia -
Giudicare i
criminali di guerra
Sessant’anni
fa il processo agli alti gerarchi nazisti
di
Giorgio
Bocca
Possiamo datare latine del
nazismo con la cattura grottesca di Himmler, il capo delle SS, il principale
artefice dell'Olocausto. 1123 maggio del '45 il governo Doenitz costituitosi
dopo la morte di Hitler viene sciolto dagli alleati. Manca Himmler che si è
tagliato i baffi, si è coperto l'occhio sinistro con una benda nera e ha
indossato un'uniforme dell'esercito. Lo arrestano ad Amburgo assieme a undici
ufficiali delle SS con cui cerca di fuggire, lo perquisiscono ma non trovano
la capsula di cianuro nascosta in bocca. Lui la morde e muore sottraendosi al
processo che si terrà a Norimberga in novembre, ai 21 alti gerarchi nazisti
che gli alleati considerano criminali di guerra. Lo spettacolo di questi
uomini che per un decennio hanno terrorizzato il mondo, sterminato milioni di
persone è quello esemplare della punizione del male: il maresciallo Goering si è
come
afflosciato. Ha perso cinque chili, ma è ancora il capo di quei superstiti,
rifiuta il giudizio dei vincitori, considera traditori l' architetto Speer e
gli altri che lo accettano. Ribbentrop, l’altero
ministro degli Esteri, è uno straccio, pallido, curvo, Julius
Streicher che passeggiava per Norimberga, la sua città, roteando una frusta,
appare come un vecchio decrepito, suda, trema. Il feldmaresciallo Keitel sta
ancora impettito sulla sua sedia, ma lui come gli altri sembrano non aver capito
perché si trovano lì. Cercherà di spiegarglielo, all’apertura del processo,
il giudice americano Jackson: «Le ingiustizie che noi cerchiamo di condannare e
di punire sono state così premeditate, così malefiche e devastanti che la
civiltà non può permettersi di ignorarle perché essa non potrebbe
sopravvivere se quelle ingiustizie si ripetessero... Gli imputati sono
sottoposti a una dura pressione ma non vengono maltrattati. Se è vero che
questi uomini sono i primi di una nazione sconfitta in guerra a essere
processati essi sono anche i primi a cui è data una possibilità di difendersi
in nome della legge. Vogliamo anche chiarire che non abbiamo intenzione di
incriminare l’intero popolo tedesco. Se la popolazione tedesca avesse
accettato volentieri i piani del nazismo non ci sarebbe stato bisogno delle SS,
né dei campi di concentramento né della Gestapo. La civiltà non si aspetta da
voi, onorevoli giurati, che riusciate a rendere impossibile la guerra. Ma si
aspetta che la vostra azione giudiziaria ponga le norme e soprattutto le
sanzioni del diritto internazionale contro di essa». Il discorso di Jackson
venne universalmente lodato, ma già si era capito che quel processo era il
classico processo dei vincitori, l’unico possibile, ma non il giudizio
perfetto. Si pose subito il problema della difesa affidata ad avvocati tedeschi,
che non vennero mai pienamente accettati come colleghi dai pubblici accusatori e
spesso trattati come coimputati. Il secondo problema era che i vincitori non
avevano alcuna intenzione di lasciare che venissero alla luce anche i
loro
misfatti. Ogni volta che un avvocato difensore chiedeva di rendere noti i
documenti di questi misfatti, la corte rispondeva dicendo che erano introvabili
o irrilevanti. Eppure fra i giudici sedevano i sovietici che avevano invaso la
Polonia in accordo con i nazisti e deportato i cittadini dei paesi baltici con
altrettanta brutalità dei nazisti. Sedevano anche i rappresentanti della Gran Bretagna
che avevano ordinato i bombardamenti incendiari delle città tedesche. Le
contraddizioni del processo dei vincitori erano evidenti: non era logico
imputare all’ammiraglio nazista Raeder l’invasione della Norvegia quando
essa aveva preceduto solo di pochi giorni quella che era stata preparata dagli
inglesi. I sovietici con il loro cinismo stalinista erano arrivati al punto di inserire nell’atto di accusa il
massacro di Katin di migliaia di cittadini polacchi come un crimine di guerra
tedesco, quando già allora era noto e provato che i responsabili erano stati
loro, i sovietici. Nel processo si decise di ascoltare sul caso tre testimoni
della difesa e tre diparte sovietica ma il tribunale di Norimberga evitò di
prendere una decisione. Il processo era il processo dei vincitori e dei loro
interessi politici, in molte occasioni la corte intervenne per mettere a tacere
i testimoni dei comportamenti criminali delle grandi potenze. La pubblica
opinione comunque si schierò, comprensibilmente, dalla parte dei vincitori. Il
terrore nazista aveva lasciato segni profondi e alla stragrande maggioranza dei
sopravvissuti parve un giusto e inevitabile processo. Non ricordo di aver letto
o sentito in quel lontano 1945 qualcuno che si lamentasse del doppio trattamento
imposto ai vinti – la forca per i tedeschi, gli onori della permanenza sul
trono ai giapponesi, responsabili in egual misura di atrocità e di stragi. Ero
nel ’64 all’apertura delle Olimpiadi di Tokyo e in una corrispondenza
scrissi che mi faceva un certo effetto vedere l’imperatore giapponese,
criminale di guerra, assistere dall’alto alla sfilata delle rappresentative
dei paesi che lo avevano sconfitto. Protestarono fieramente le associazioni
d’arma giapponesi, ma anche dal Comitato olimpico italiano mi venne una dura
censura. Chi vince sempre è la ragion di Stato Alle ore 1.11 della notte del 16
ottobre 1946 Ribbentrop salì sul patibolo nella prigione di Norimberga. Seguirono Keitel,
Kaltenbrunner, Rosenberg, Frank, Frick, Streicher, Seyss-Inquart, Sauckel e Jodl.
Non Goering che inghiottì una fiala di veleno. Né
Bormann, che era stato processato in contumacia. Sette, fra cui Speer, furono
condannati alla reclusione, tre assolti.
Sillabario
di
Theodor W. Adorno
La considerazione più radicale circa i processi di
Norimberga è che la colpa indicibile si dissolve per così dire in ciò che è
irrilevante, si riproduce sin dentro la più ordinaria quotidianità. Drastica
espressione di ciò: tranne qualche farabutto pateticamente marionettistico di
vecchio stampo, io non ho ancora visto un nazista, e non lo dico affatto nel
senso ironico per cui nessuno vuole esserlo stato, bensì in quello ancora più
sinistro in cui costoro credono di non esserlo neppure mai stati e rimuovono
totalmente quanto è accaduto. Anzi, se si volesse approfondire ulteriormente,
essi credono di non “esserlo stati”, adducendo il fatto che, a fronte del
suo operare perverso ed estraniante, la dittatura non fu considerata un sistema
civile, rimase bensì estranea e insieme tollerata, come una sventura e una
speranza disattesa, senza che ciò comportasse alcuna forma di identificazione -
il che ora rende diabolicamente facile nutrire una buona coscienza là dove ce
n’era una cattiva.
Da
Goering a Saddam - La colpa e l’infamia
Che
cosa significa processare una dittatura
di
Joachim
Fest
Ricordo ancora quei giorni nel
campo di prigionia alleato, quando appresi dai giornali stampati dagli americani
per i soldati tedeschi detenuti e dal tam-tam delle voci tra noi giovani
prigionieri di guerra tedeschi che le potenze alleate vincitrici avevano aperto
a Norimberga un grande processo ai crimini nazisti. Io, poco più che ragazzo,
ero stato arruolato a forza dal Reich in agonia come tanti miei coetanei, e per
fortuna ero sopravvissuto alla guerra scatenata da Hitler. Là nel campo di
prigionia eravamo in diecimila e più, ad attendere da giovani impazienti il
rilascio, il ritorno a casa, insomma la fine della guerra anche per noi. Ma tra
noi prigionieri, i pochi nazisti erano ancora abbastanza potenti e ben
organizzati da dettare legge nel campo e seminare il terrore. Forse è anche per
questo che ancor oggi ho un sussulto, quando sento descrivere con disprezzo il
processo di Norimberga come “giustizia dei vincitori”. No, quella non fu
giustizia dei vincitori. Fu un processo giusto e necessario. «Noi prendiamo sul
serio le obiezioni contro questo processo, e non vogliamo celebrarlo da
vincitori», disse il pubblico ministero di Norimberga, l’americano Jackson.
Seppe chiarire la problematica del processo, lo aprì con un discorso esemplare.
Ricordo ancora i sentimenti misti con cui noi giovani prigionieri di guerra, noi
nostro malgrado ultimi soldati della Germania sconfitta, leggevamo e ascoltavamo
quei resoconti sul grande processo che si era appena aperto nella città che era
stata culla e palcoscenico del nazismo. Non pochi di noi, anzi molti, ebbero
reazioni di sdegno. Erano scandalizzati, disgustati, parlavano di giustizia dei
vincitori. «Eccoli, gli alleati», dicevano. «Eccoli che cominciano a imporre
la loro verità. Vogliono processare i capi del regime nazista, li accusano di
crimini di guerra? E loro, gli alleati stessi, che cos’hanno fatto di diverso?
Non si sono forse macchiati di crimini con i bombardamenti contro le nostre città,
con le terribili sofferenze inflitte alla nostra popolazione civile?». La
reazione iniziale, almeno tra i giovani prigionieri, fu quella. Anche perché le
ultime reclute del Reich sapevano ben poco della persecuzione e del genocidio
degli ebrei. E del resto, non dimentichiamo un fatto molto importante.
All’inizio, nel processo di Norimberga, si parlò ben poco dell’Olocausto.
Per quanto ciò, rivisto oggi, possa apparire sorprendente, l’attenzione della
Corte e dell’accusa fu piuttosto concentrata sui crimini di guerra, sulla
condotta della guerra, e sulla repressione interna. Della Shoah, nel dopoguerra,
si sarebbe parlato soltanto in un secondo tempo in modo più esauriente. In quel
microcosmo che era il nostro campo di prigionia, dominavano disinformazione e
pregiudizi. Tra noi giovani soldati della Germania sconfitta, saremmo stati sì e no un venti, trenta
per cento a capire e a dirci che i capi del regime travolto dalla sconfitta
militare erano stati dei criminali, anche contro il loro popolo, e che un
processo contro di loro, anche se condotto dai vincitori, era giusto e
necessario per il futuro del nostro paese. Molti altri di noi si
disinteressarono completamente della vicenda. E altri ancora, forse una
maggioranza silenziosa (ma nessuno ci contò) era o sembrava convinta che il
processo fosse la giustizia dei vincitori. Seguendo le notizie da Norimberga, in
quelle settimane nel campo di prigionia, pensai sempre a quanto avevo visto e
vissuto in un altro centro di detenzione per soldati tedeschi, quello di
Attichy presso Parigi. Là i prigionieri erano mezzo milione. E là ad Attichy,
chiunque avesse osato alzare un solo mormorio di critica contro Hitler, contro
il suo regime o contro i nazisti che nel campo facevano il bello e il cattivo
tempo, faceva una brutta fine. Spariva dalla baracca o dalla tenda del campo di
prigionia senza lasciare traccia, e tutti i compagni di prigionia dicevano
semplicemente che era sparito e basta, ed erano paralizzati dalla paura. Il
clima era ancora quello del terrore, gli stessi alleati ci misero del tempo a
spezzarlo. Era come un microcosmo della Germania hitleriana, sopravvissuto alla
sconfitta: una piccola minoranza regnava paralizzando gli altri col terrore. Era
la stessa politica del terrore che i nazisti riuscirono a imporre fino
all’ultimo. Come ad Aquisgrana: l’antica città di Carlomagno fu liberata
dagli Alleati, ed elesse un suo sindaco democratico. I nazisti la
riconquistarono per pochi giorni in una delle loro ultime controffensive-lampo,
e per prima cosa assassinarono il sindaco e i suoi. A casa, nel frattempo, la
libera stampa stava rinascendo. Nella Germania dell’anno zero, le informazioni sul processo si diffondevano. I giornali,
specie nella “tri-zona” occidentale, la parte del paese occupata da
americani, britannici e francesi, riscoprivano il gusto del reportage
libero,
senza censure. Raccontavano il processo in ogni dettaglio, con uno stile
giornalistico molto efficace, e un’etica professionale assolutamente corretta
e aperta. E questo ebbe poi anche un ruolo nella formazione della coscienza
collettiva. Anche se un ruolo meno importante di quello che ebbero il processo a
Eichmann in Israele, il libro di Hannah Arendt, e infine i processi aperti dalla
giustizia tedesca a Francoforte, negli anni Sessanta, contro i responsabili
dell’Olocausto. O ancora il processo contro i Krupp, dove il figlio pagò per
l’amicizia del padre con Hitler. Molti dei reporter tedeschi che allora
dovettero narrare ai loro lettori i crimini del loro paese, divennero poi famosi
e illustri, voci della nuova Germania, grazie a quel duro lavoro: basti pensare
a Sueskind, o a Sebastian Haffner. Seppero raccontare con efficacia e
correttezza anche di quando Hermann Goering cercò di rovesciare le parti, come
fa Saddam Hussein ora nel processo contro di lui. Uno spettacolare colpo di
scena, che però agli occhi dei nostri media risorti non nascondeva la realtà.
Eppure, nel dopoguerra, si disse a lungo e un po’ ovunque che i tedeschi erano
ossessionati dalla voglia di rimuovere e negare le loro colpe. Non fu sempre
vero, non fu esattamente così. Certo, ci fu chi disse che era troppo giovane o
non sapeva. Ma ci fu anche, nel dopoguerra, chi chiese di non dimenticare. Io
ricordo il caso di mio padre: lui, onesto e rigoroso funzionario prussiano
vecchio stile, appartenne alla Resistenza. Non fu incarcerato, ma venne punito
in modo pesantissimo per un padre di cinque figli: venne mandato in pensione a
42 anni, e dovette arrangiarsi a mantenere la famiglia con 180 marchi al mese,
vivendo nel terrore costante della Gestapo che spesso veniva a
perquisire
la nostra casa. Eppure, nel dopoguerra, non volle mai parlare del nazismo. Non
già per ossessiva voglia di rimuovere e negare, bensì perché era atterrito
dall’orrore, dall’abisso del Kulturbruch, della rottura con la
millenaria Civiltà, in cui Hitler era riuscito a gettare un intero popolo, uno
dei popoli più civili e colti del mondo. Fu solo nel 1953, quando io ruppi il
silenzio e gli chiesi cosa pensava del nazismo, che egli si decise a rispondere.
Si vergognava del semplice fatto che il nazismo fosse stato possibile. Se ne
vergognava a tal punto che, quando gli confessai la mia passione per la Storia
contemporanea e la mia voglia di scrivere sul nazismo, lui cercò di
scoraggiarmi. «Figlio mio», mi disse, «scrivi piuttosto
sulla Storia d’Italia, sul Rinascimento». A Norimberga, tra i giudicanti, non
tutti furono ragionevoli come l’americano Jackson. Non lo furono certo i
sovietici, né i francesi che al processo ripresero a coltivare l’illusione di
essere una potenza. Ma furono ragionevoli gli americani, e più di tutti gli
inglesi. Il processo fu comunque importante come atto di condanna contro una
massa di responsabili di crimini contro l’umanità. Secondo me avrebbero
dovuto impiccare anche von Papen. E Speer si salvò, ai miei occhi, solo perché
poi nei suoi libri seppe confessare l’abisso morale in cui i gerarchi come lui
avevano trascinato la Germania. Oggi, sul presente, come sulla Storia, io sono
pessimista. Ma sono pessimista perché non credo che la probabile Grosse
Koalition potrà risolvere i problemi del paese. È un pessimismo normale in
un paese democratico, un paese tornato normale, un paese dove i nazisti non
hanno oggi spazio né futuro. È la Germania tornata normale, anche dopo
Norimberga.
(testo raccolto da Andrea
Tarquini)
Un
processo innovativo
Da
Norimberga alla corte penale dell’Aja
di Antonio Cassese
Quando si evoca Norimberga, la
prima reazione dell’interlocutore è: fu un processo dei vincitori contro i
vinti. Certo, fu un grave limite. Malgrado ciò, Norimberga segnò una svolta
nella storia, perché ebbe molti meriti. Il primo è che si decise che i
maggiori responsabili del nemico sconfitto non dovessero essere passati per le
armi, né sottoposti a processo sommario né amnistiati; i principi dello stato
di diritto imponevano che fossero processati per accertarne le colpe. Ciò pose
un problema enorme, che si presenta ogni volta che termina un conflitto
sanguinoso ma che in quel caso assunse proporzioni inconsuete: come accertare le
colpe di centinaia di migliaia di tedeschi che avevano in qualche modo
partecipato ai misfatti nazisti? La soluzione l’escogitò un acuto colonnello
statunitense, Bernays, che già nel 1944 propose al Segretario alla Guerra
Stimson di distinguere due categorie: da una parte leader e organizzazioni
criminose (SS, Gestapo, eccetera), da processare davanti a un tribunale
internazionale; dall’altra, le migliaia di esecutori, da far passare davanti a
tribunali nazionali dei vari paesi in cui avevano commesso i crimini. Questa
soluzione, accettata da Roosevelt, Stalin e Churchill, in larga misura funzionò
bene. Venne così istituito un tribunale “internazionale”, costituito dai
giudici e procuratori nominati da ciascuna delle quattro grandi potenze, e con
una procedura internazionale, inventata per la prima volta. Un altro merito è
che, mentre prima, al termine di un
conflitto venivano processati solo militari, normalmente di basso grado, nel
1945 per la prima volta vennero sottoposti a giudizio penale i vertici militari
(come Doenitz, Goering, Raeder, Keitel, Jodl), ministri (come Ribbentrop, Frick,
Speer, Rosenberg), leader politici (come Hess), grandi banchieri ed economisti (Funk
e Schacht), diplomatici di rango (von Neurath e von Papen), artefici della
propaganda (Fritzsche e Streicher). Un’altra decisiva novità fu che vennero
introdotte due nuove categorie di crimini. Oltre ai tradizionali crimini di
guerra si decise di punire l’“aggressione” e i “crimini contro
l’umanità”. Gli avvocati degli imputati protestarono contro questa
violazione del principio dell’irretroattività della legge penale: gli
imputati venivano puniti per fatti che non erano criminalizzati prima del 1945.
La Corte rispose che il principio nullum crimen sine lege è una
“massima di giustizia”, che però deve cedere ogni qualvolta sarebbe più
ingiusto lasciare impuniti crimini atroci per mancanza di una norma
incriminatrice. Decidere di punire crimini contro l’umanità significò che
per la prima volta si poteva condannare i leader di uno Stato per aver commesso
atrocità contro i propri cittadini. Ciò consentì inoltre di punire Streicher,
responsabile di aver diretto un settimanale profondamente antisemitico, che
aveva diffuso per decenni odio contro gli ebrei. L’introduzione di quelle due
nuove categorie di crimini si è poi consolidata nella comunità internazionale
e nessuno più le mette in dubbio (anche se per l’aggressione le grandi
potenze di oggi nutrono alcune perplessità, per tema di poter essere accusate
un giorno di quel crimine). A Norimberga venne proclamato un altro principio
fondamentale: il fatto di aver commesso un crimine internazionale in esecuzione
di un ordine superiore non esime dalla responsabilità penale; ne rispondono sia
il superiore sia colui che ha eseguito l’ordine. Questo principio sembrerà
ovvio. Non lo era negli anni della Seconda Guerra Mondiale, tanto è vero che
gli inglesi e gli americani, che seguivano la regola respondeat superior,
dovettero in fretta e furia cambiare le loro norme, per poter poi imporre il
nuovo principio ai tedeschi (altrimenti tutti i nazisti avrebbero addossato a
Hitler la responsabilità per le atrocità commesse, e si sarebbero salvati).
Ancora oggi il principio non è universalmente accettato: gli americani lo hanno
fatto attenuare nello Statuto della Corte penale internazionale, escludendone
l’automatica applicazione per i crimini di guerra, anche se poi hanno
reintrodotto il più rigoroso principio di Norimberga nello statuto del
Tribunale speciale per Saddam Hussein. Non dimentichiamo poi che, malgrado il
vizio di origine di Norimberga di cui parlavo sopra (furono giudicati solo i
crimini dei vinti), i giudici dimostrarono di essere equanimi. Esaminarono le
prove con rigore e tennero conto di tutte quelle a favore degli imputati: tre di
essi furono assolti, e sette condannati a pene detentive (ma 12 vennero
condannati a morte e impiccati). I giudici furono anche cauti in materia di
condanna delle organizzazioni criminose: stabilirono che il fatto di essere
membro di una di esse non significasse automaticamente essere colpevole.
Insomma, Norimberga fu una pietra miliare. Si creò anche una documentazione
monumentale, utile per i posteri, circa i misfatti del nazismo. Si volle inoltre
mostrare pubblicamente e drammaticamente (i processi hanno molto di
spettacolare) cosa era avvenuto, sia per aprire la mente dei tedeschi sia nella
ingenua speranza di evitare il ripetersi di simili tragedie. Soprattutto, si
posero le premesse per i futuri tribunali veramente internazionali. Da
Norimberga alla Corte penale dell’Aja la strada è stata lunga, ma oggi
abbiamo finalmente un tribunale permanente che esclude la pena di morte e potrà
amministrare la giustizia nei confronti di tutti, vincitori e vinti.
Da la Repubblica,
4 novembre 2005