la Repubblica
Adolf
Hitler il barbaro
Domani
con Repubblica la biografia scritta da Joachim Fest - Intervista allo storico
tedesco che spiega le cause dell’ascesa al potere del Führer
di
Andrea Tarquini
«Davanti
alla vicenda e al fenomeno Hitler, io sono ancora oggi fassungslos, senza
parole. Ancora oggi mi chiedo come un paese europeo colto,
progredito, civile, abbia potuto cadere nella trappola della sua barbarie. Di
dittature e tragedie è piena la Storia dell'umanità, eppure mi domando come,
dopo millenni di civiltà occidentale, un paese nel cuore dell'Europa abbia
potuto decidersi a un simile Kulturbruch, uno strappo letale e assoluto
con la nostra cultura. Non c'erano risposte semplici quando io mi decisi a
scrivere la sua biografia, e non ce ne sono neanche oggi». Così Joachim Fest
commenta la sua biografia del tiranno (la massima e più autorevole opera sul
Führer) e ripensa a come la sinistra figura di Hitler si proietta sul mondo
ancora oggi. Con un grande interrogativo: «Io ancora oggi non capisco come
Mussolini, che certo era un dittatore, ma una persona pragmatica e civile
rispetto al barbaro Hitler, cadde nel tranello del tiranno nazista e lo seguì
nell'avventura della guerra».
Signor Fest come fu possibile
l'arrivo al potere di Hitler?
«Non possiamo dare risposte
semplici a una domanda tanto complessa. La sua vittoria nel 1933 però ha
anche qualcosa a che fare con il rifiuto interiore della sconfitta nella prima
guerra mondiale da parte dei tedeschi. E anche con l'umiliazione imposta alla
Germania dal Trattato di Versailles, che definì la Germania stessa quale unico
paese responsabile del conflitto. Non bastarono le pesanti riparazioni di
guerra. La definizione della Germania quale unico responsabile, credo, irritò e
ferì i tedeschi più profondamente delle altre punizioni. La demagogia, di
Hitler sfruttò sempre questa cosiddetta "vergogna". Certo, non
dobbiamo dimenticare altre cause che ebbero un ruolo importante».
Quali?
«Penso all'inflazione, all'impoverimento dei ceti medi. E alla crisi economica internazionale, che soffocò
la ripresa tedesca negli anni Venti. La Repubblica di Weimar fu percepita dal
grande pubblico in Germania come una sequenza di catastrofi. Per questo la gente
non la accettò mai».
Colpa delle potenze vincitrici?
«Non solo, ma anche colpa loro.
Promesse e richieste degli Usa di Woodrow Wilson, di trattare la Germania con
magnanimità dopo la disfatta del 1918, furono dimenticate. I francesi sfogarono
le loro voglie di vendetta e gestirono la pace nel modo meno saggio possibile.
In Europa, prima del Trattato di Versailles, non ci fu mai un altro trattato di
pace tanto ingiusto e irragionevole».
Ha ragione allora lo scrittore conservatore Martin Walser,
affermando che senza Versailles non ci sarebbe stato Hitler?
«Walser, nel 2002, sottolineò
questa sua opinione in modo troppo drastico, ma Versailles ebbe un ruolo
essenziale.
Eppure, ci furono altre concause. Una di tali concause - anzi, la conditio
sine
qua
non -
fu Hitler stesso, la sua personalità, il suo ruolo di leader. Ecco il punto che ancora oggi mi
lascia senza parole, atterrito, e che allora mi spinse a scrivere la sua
biografia: in nessun altro paese europeo emerse e andò al potere una persona
tanto incivile, barbara, e al tempo stesso tanto capace di essere il regista
della sua stessa ascesa al potere con una tattica demagogica e senza scrupoli,
ignorando le regole di millenni di civiltà. Il vostro stesso Mussolini, al
confronto con Hitler, era una persona civile».
Perché insiste tanto sul confronto
tra Mussolini e Hitler?
«Semplicemente perché, ancora
oggi, non capisco perché l'astuto e duttile Mussolini si sia lasciato
convincere dal barbaro Hitler a seguirlo sulla via dei crimini e della guerra.
Tanto più che Mussolini - il dittatore pragmatico, ammirato dal mondo per i treni
in orario - non era solo: era attorniato da persone capaci, da
grandi machiavellici come Graziani o Ciano, i quali capivano benissimo
la realtà del loro tempo. Come mai l'Italia di allora seguì la Germania del Kulturbruch
di Hitler resta per me uno degli enigmi più grandi». .
Hitler al fondo era austriaco. Non le pare che l'Austria
del dopoguerra abbia rimosso le sue corresponsabilità nel nazismo, più
della Germania?
«Non faccio graduatorie. Ma certo
il più grande successo diplomatico dell'Austria moderna è stato presentare
Hitler come tedesco e Beethoven o Mozart quali austriaci. Dopo l'Anschluss,
l'annessione dell'Austria al Reich, mio padre sperò solo per pochi giorni che
la Germania sarebbe diventata più cattolica, più tollerante, più civile. Ben
presto si rese conto che invece era diventata più barbara. La percentuale di
volontari austriaci nelle Ss era al massimo. Quando realizzai un programma
sul nazismo per la radio di Berlino Ovest, feci mandare in onda l'applauso per
Hitler sulla Piazza degli Eroi di Vienna. Gli austriaci lo applaudirono per 7
minuti, io tagliai l’ovazione a soli 20 secondi: eppure il rappresentante
diplomatico austriaco a Berlino Ovest protestò per quella che definì
“descrizione tendenziosa”, mi accusò di aver dipinto l'immagine
d'un'Austria troppo filonazista».
La disfatta del ‘45 come ha
segnato i tedeschi?
«Li ha spinti a smettere subito di
pensare a Hitler. E insieme li fece sentire destati da un incubo. Si disse che
rimossero per anni. Dovevano pensare alla ricostruzione, fuggirono
nell'inconsapevolezza. I sessantottini poi lanciarono la grande menzogna:
dissero di avere, solo loro, denazificato la Germania. Ma il trauma pesa ancora
oggi, i padri lo tramandano ai figli».
Quale fu la ferita più grave per il
mondo: Hitler o Stalin?
«Se pensiamo al solo numero delle
vittime, senz'altro Stalin. Ricordi il Libro nero del comunismo. Hitler
però resterà il Cattivo per eccellenza, il Male. Anche grazie alla tetra
scenografia del suo regime: le parate, le feste col fuoco, le uniformi nere
delle Ss».
Scusi, dimentica l'Olocausto?
«No, per amor del Cielo. Io, come tedesco, non posso solo far gareggiare
Hitler e Stalin per numero di vittime. Mi sento molto più coinvolto da quel
passato chiamato Olocausto che non dai crimini staliniani. Anche se per le
vittime non fa differenza essere sterminate in nome di un'ideologia che
pretende di salvare il mondo o in nome di teorie razziste. Tutte le vittime
hanno il diritto alla Memoria».
Come riuscì Hitler a sedurre un
civile paese europeo?
«Nel 1933 i tedeschi non votarono per l’Olocausto, ma per un uomo che
garantisse l'ordine, più lavoro, la fine del clima di guerra civile».
Ma quanti poi seppero e
approvarono
tacendo?
«Molti pensarono che la Giustizia
era a volte iniqua, ma si convinsero che il Diritto sarebbe stato poi
garantito e intanto regnava l'Ordine. La verità si prese una dura rivincita».
E amici e vicini di casa che
sparivano?
«Ricordo mio padre. Era pubblico
funzionario, rifiutò di iscriversi al partito nazista. Fu licenziato e
mandato in pensione a soli 42 anni, e con appena 180 marchi al mese dovette
mantenere moglie e 5 figli. Aveva amici ebrei, li vide perseguitati e soli. Ci
mandava spesso a far la spesa dal nostro negoziante ébreo sotto casa, per
aiutarlo. Papà s'informava con Radio Londra, e nel Natale del '42 ascoltò la
prima trasmissione sull'Olocausto. Fu scosso, non ebbe più pace, si mise a
indagare di persona su quanto accadeva agli ebrei. Ma non poteva fare nulla.
Solo dopo la guerra, mi confessò il suo atroce senso di impotenza».
Perché solo pochi tedeschi ebbero
il coraggio di opporsi a Hitler?
«Perché solo pochi trovarono la
necessaria forza d'animo. Quando un regime del genere è al potere, e impone
il suo potere terrorizzando, è impossibile sconfigge: lo dall'interno. I
nazisti attivi furono una minoranza, il 15 – 20 per cento della popolazione,
ma tanto bastava ad avere il paese in pugno».
Come giudica i silenzi del Vaticano
su Hitler?
«Tutti fallirono contro Hitler:
sindacati, socialisti, cattolici. anche la Chiesa. Non seppe essere migliore
degli altri. Un monsignore napoletano mi narrò che Pio XII tentò più volte
di esorcizzare a distanza Hitler, ma invano: l'esorcizzando deve essere
consenziente
al fondo. Pio XII avrebbe potuto levare la sua voce di denuncia, e non lo
fece. Riteneva Stalin una minaccia peggiore, il che non è un alibi».
Da la Repubblica, 2 novembre 2005, per gentile concessione