la Repubblica
Voci da un ghetto che non c'è più.
Mezzo secolo fa dal quartiere ebraico di Varsavia la
rivolta contro i nazisti. Durò 21 giorni e si concluse con l’esplosione della
sinagoga. Marek Edelman, che guidò la ribellione, ricorda quell’esperienza,
terribile e dolorosissima
di Franco Marcoaldi
Varsavia - «Non è stata ancora inventata, una parola atta a
descrivere quel dramma». Così Marek Edelman, l'unico sopravvissuto tra i
dirigenti dell'0rganizzazione ebraica di combattimento che guidò la ribellione
dal ghetto di Varsavia nell'aprile del '43. Come dargli torto? Ogni volta che si
torna a parlare del capitolo forse più orrendo dell’intera storia umana, lo
sterminio della comunità ebraica (in questo caso quella di Varsavia: la più
consistente al mondo dopo New York, cinquecentomila persone) è come se le
parole, invariabilmente, si sfarinassero sulla carta. Cedessero, inerti, sotto
il peso enorme di quei fatti. Se ora torniamo a patire quell'impasse, è perché
ricorre in questi giorni il cinquantenario della rivolta del ghetto, una rivolta
che corre il rischio di essere cancellata dalla memoria collettiva sotto il
luogo comune della «passività» ebraica, dimenticando come proprio allora e
per la
Trafficanti immorali
Tutto, a Varsavia, comincia il 2 ottobre 1940 con
l'istituzione ufficiale del ghetto. E dunque con l'isolamento dal resto dei
mondo della popolazione ebraica, divisa tra una minoranza che - come dice ancora
Edelman - riesce almeno inizialmente a condurre una vita -«ricca e festosa,
quella dei gestapisti degenerati e dei trafficanti immorali», e la stragrande
maggioranza, congestionata in spazi via via più ridotti. Stipata (tredici
persone per vano), progressivamente denutrita. Costretta ben presto ad
accontentarsi di una patata marcia rimediata in una pattumiera. E quando non si
trova neppure quella, a scivolare tra i reticolati in cerca di cibo: ora che
fame, tifo e freddo, fanno strage di uomini, donne e bambini. Ma il peggio deve
ancora venire. Nel luglio del 1942 i tedeschi iniziano la deportazione al campo
di sterminio di Treblinka. Ed Edelman, inserviente all'ospedale del ghetto, vedrà
passare davanti ai suoi occhi quattrocentomila persone, tutte partite da. quell'Umschhlagplaz
dove è stato eretto ora un semplice monumento in marmo bianco attraversato da
una striscia orizzontale nera che ricorda il talled, lo scialle rituale ebraico. Ci vado in visita, e sono preso dallo
sconforto. Quel monumento è situato sul ciglio della strada; lo spazio
strappato a fatica, nel 1988, a una pompa di benzina: difficile pensarlo come
luogo di raccoglimento. Allora perché volerne alle ragazze di una gita
scolastica che si fanno fotografare, ridenti e abbracciate, per un souvenir tra
gli altri? Resta che da qui partivano i treni per la morte, anche se per lunghi
mesi furono pochi e inascoltati a non crederci quanti all’interno del ghetto
denunciarono la vera, definitiva destinazione
di quel viaggio senza ritorno. I più si ostinavano a non crederci. «Nemmeno i
tedeschi, si diceva, possono massacrare centinaia di migliaia di persone in un
momento come questo, in cui hanno così tanto bisogno di forza-lavoro»,
racconta ancora Edelman. Perché mai ì nazisti avrebbero dovuto sprecare tre
chili di pane e uno di marmellata, la razione proposta a ogni«volontario» che
si iscriveva all'ultimo viaggio? L'allucinante risultato di questa proposta sono
le gigantesche file di persone che si accalcano sull’Umschlagplatz attirati da
quella promessa di cibo. E i convogli sono talmente stracarichi che molti sono
costretti ad attendere. Ma anche il tempo delle pagnotte e della marmellata
finisce ben presto: i crampi dolorosi della fame torturano lo stomaco, le labbra
diventano secche e si spaccano per mancanza d'acqua. I corpi rinsecchiti
diventano grigi: ora «tutti gli occhi hanno la stessa selvaggia
espressione. La paura folle, la disperazione insondabile e impotente, la
rivelazione improvvisa che tra pochi istanti inevitabilmente, arriverà il
peggio, l'incredibile, quello che tutti avevano rifiutato di credere fino
all’ultimo». Cadono a quel punto anche le residue perplessità
sull'opportunità della resistenza armata, cui a lungo i leader religiosi del
ghetto si sono opposti. Così, proprio quando le SS decidono di procedere allo
sterminio finale, e a una rapida liquidazione del quartiere ebraico, si trovano
di fronte a una imprevista reazione. Per ventisette lunghissimi giorni, «gli
uomini delle macerie», abbandonati dal mondo intero. stremati e con armi
rudimentali, tengono testa al più terribile e preparato degli eserciti. Solo il
16 maggio, il generale nazista Jurgen Stroop potrà inviare a Himmler il suo
definitivo bollettino di guerra «Il quartiere ebraico della città di Varsavia non esiste più.
La grande azione ha avuto termine alle ore 20.15 con l'esplosione della sinagoga».
Tra i pochissimi a sfuggire alla morte, con una fuga attraverso i tombini delle
fognature sarà appunto Edelman che poi, da convinto antisionista, rimarrà
sempre in Polonia affrontando le successive ondate antisemite del '68, e la galera nell' 81,
dopo l'adesione a Solidarnosc. Questo straordinario vecchio cardiochirurgo a Lodz,
dopo aver attraversato per intero l'Orrore, non ha mai taciuto su nulla. Neppure
sulle ferite più brucianti di una popolazione destinata alla «soluzione finale»:
quali il comportamento della polizia ebraica («una delle pagine più lugubri
della nostra storia») e il collaborazionismo dei Consigli ebraici, «tra le cui
pareti spirava aria di Gestapo», come ha scritto il testimone forse più
attendibile di quelle vicende, Emanuele Ringelblum. Sono questioni delicatissime, che in passato - ogni qualvolta
sono state sollevate - hanno scatenato furiose polemiche all'interno della
comunità ebraica internazionale, tanto da spingere Hannah Arendt ad affermare:
«Noi ebrei tendiamo a capovolgere la prospettiva storica: più gli avvenimenti
sono lontani nel tempo, più ci appaiono nitidi, chiari e precisi. Questa
inversione di prospettiva sta a indicare che la nostra coscienza collettiva non
vuole assumere la responsabilità dei passato più recente, e che noi, insieme
ai nostri storici, vogliamo trovare rifugio in qualche periodo del passato che
ci metta al riparo da ogni conseguenza politica. Le reazioni a queste
considerazioni della Arendt sono state perlopiù negative, anche se improntate a
valutazioni diverse. C'è chi ha sostenuto l'impossibilità di giudicare con
occhi «normali» una situazione eccezionale come quella dello sterminio; chi,
come Scholem, le ha rimproverato di «insistere troppo sulla oggettiva debolezza
della posizione degli ebrei nel mondo, ciò che compromette l'oggettività del
racconto e assume quasi dei toni di malevolenza» chi, infine, come lo scrittore
Amos Oz, ritiene oggi che il
problema si presenti in termini rovesciati rispetto a come la Arendt lo poneva
una trentina di anni fa: quel passato, non solo non è oggetto di rimozione, ma
ha innescato semmai una sorta di ipnosi generale. Corre il rischio di
schiacciare sotto il suo peso qualunque ragionamento sul presente, e soprattutto
sul futuro dei popolo ebraico. Un colloquio con un giovane ebreo di qui dalla
faccia seria e gentile, lo studente in biologia molecolare Martin Grynberg, mi
offre un'ulteriore lettura. Forse la più toccante di tutte, nella sua
disarmante semplicità. A me pare che quella tragica vicenda ci abbia imposto di
essere un popolo diverso dagli altri. Mentre siamo come tutti gli altri: con
uomini coraggiosi e vigliacchi, straordinari e squallidi. Siamo? Eravamo. Perché
tutto questo è finito per sempre. A me non resta, per conservare quell’eredità,
che fare un'intervista a mio nonno ottantanovenne, il quale in venti nastri mi
ha raccontato tutta la sua vita. E provare una nostalgia infinita per la comunità
ebraica d'anteguerra, quando la vedo descritta nei film o la leggo nei libri.
Però c'è una nostalgia ancora più dolorosa. Perché io non sento tutto ciò.
In realtà, io penso di sentirlo.
Milioni di morti
Quelle tre parole («penso di sentirlo») mi rimangono
impresse, mentre passeggio nel cimitero ebraico di Varsavia: un bosco immenso
dove sono sepolti milioni di morti. Il luogo, assieme, del totale annientamento
e dell'unica memoria possibile, dopo che la definitiva distruzione del ghetto ha
lasciato solo all’interpretazione degli arcani ornamenti di quelle tombe la
decifrazione di un passato altrimenti perduto per sempre. Se Martin «pensa di
sentire», mi chiedo, allora cosa accade a me in questo bosco di memoriali di
morte? Descrivendo con atroce sincerità la sua visita ad Auschwitz nel romanzo Cani
neri, lan McEwan ha spiegato bene in
cosa consista questa sensazione di insopportabile disagio: «Procedendo ancora,
le emozioni si spensero dentro di me. Non potevo fare più niente per rimediare.
Non c'era nessuno a cui dare da mangiare. Passeggiavamo, come turisti.
L'alternativa era una sola: e ci si lasciava sopraffare dalla disperazione,
oppure si affondavano le mani nelle tasche,ci si aggrappava agli spiccioli
tiepidi che contenevano, e si accettava di aver fatto un passo in più verso gli
autori dell’incubo. Era la nostra quota di orrore. Anche noi eravamo liberi
come al tempo si erano mossi i comandanti militari e le autorità politiche,
liberi di osservare qua e là e di poter uscire, assolutamente certi dei nostro
pasto successivo».
Da la Repubblica, 1993, per gentile concessione