la Repubblica

Voci da un ghetto che non c'è più. 

Mezzo secolo fa dal quartiere ebraico di Varsavia la rivolta contro i nazisti. Durò 21 giorni e si concluse con l’esplosione della sinagoga. Marek Edelman, che guidò la ribellione, ricorda quell’esperienza, terribile e dolorosissima  

di Franco Marcoaldi

Varsavia - «Non è stata ancora inventata, una parola atta a descrivere quel dramma». Così Marek Edelman, l'unico sopravvissuto tra i dirigenti dell'0rganizzazione ebraica di combattimento che guidò la ribellione dal ghetto di Varsavia nell'aprile del '43. Come dargli torto? Ogni volta che si torna a parlare del capitolo forse più orrendo dell’intera storia umana, lo sterminio della comunità ebraica (in questo caso quella di Varsavia: la più consistente al mondo dopo New York, cinquecentomila persone) è come se le parole, invariabilmente, si sfarinassero sulla carta. Cedessero, inerti, sotto il peso enorme di quei fatti. Se ora torniamo a patire quell'impasse, è perché ricorre in questi giorni il cinquantenario della rivolta del ghetto, una rivolta che corre il rischio di essere cancellata dalla memoria collettiva sotto il luogo comune della «passività» ebraica, dimenticando come proprio allora e per la prima volta, qualcuno si ribellò all'occupazione nazista. Del resto, è tutto questo eccezionale capitolo della storia novecentesca, che corre il rischio di confondersi e diluirsi nelle nostre menti e nella nostra labile memoria. Come ha scritto Alberto Nirenstajn in un libro appena pubblicato da "La Nuova ltalia (È successo solo cinquant'anni fa, lire 13.000), espressamente dedicato ai ragazzi, la «questione che poniamo è: un giorno, più o meno vicino, questo raptus ster-minatore che attanagliò una intera generazione mezzo secolo fa, non potrebbe infiltrarsi nell'animo dello stesso popolo, o di un popolo diverso, per sfogarsi questa volta non contro gli ebrei che non ex sono più, ma contro un altro simulacro sacrificale che richiami l'eccitante impresa della seconda guerra mondiale»? Detta altrimenti. Non dovrebbe essere almeno la preoccupazione per il futuro, e per lo stesso presente (Bosnia docet), a consigliarci di prestare maggiore attenzione a questo terribile passato?

Trafficanti immorali

Tutto, a Varsavia, comincia il 2 ottobre 1940 con l'istituzione ufficiale del ghetto. E dunque con l'isolamento dal resto dei mondo della popolazione ebraica, divisa tra una minoranza che - come dice ancora Edelman - riesce almeno inizialmente a condurre una vita -«ricca e festosa, quella dei gestapisti degenerati e dei trafficanti immorali», e la stragrande maggioranza, congestionata in spazi via via più ridotti. Stipata (tredici persone per vano), progressivamente denutrita. Costretta ben presto ad accontentarsi di una patata marcia rimediata in una pattumiera. E quando non si trova neppure quella, a scivolare tra i reticolati in cerca di cibo: ora che fame, tifo e freddo, fanno strage di uomini, donne e bambini. Ma il peggio deve ancora venire. Nel luglio del 1942 i tedeschi iniziano la deportazione al campo di sterminio di Treblinka. Ed Edelman, inserviente all'ospedale del ghetto, vedrà passare davanti ai suoi occhi quattrocentomila persone, tutte partite da. quell'Umschhlagplaz dove è stato eretto ora un semplice monumento in marmo bianco attraversato da una striscia orizzontale nera che ricorda il talled, lo scialle rituale ebraico. Ci vado in visita, e sono preso dallo sconforto. Quel monumento è situato sul ciglio della strada; lo spazio strappato a fatica, nel 1988, a una pompa di benzina: difficile pensarlo come luogo di raccoglimento. Allora perché volerne alle ragazze di una gita scolastica che si fanno fotografare, ridenti e abbracciate, per un souvenir tra gli altri? Resta che da qui partivano i treni per la morte, anche se per lunghi mesi furono pochi e inascoltati a non crederci quanti all’interno del ghetto denunciarono la vera, definitiva  destinazione di quel viaggio senza ritorno. I più si ostinavano a non crederci. «Nemmeno i tedeschi, si diceva, possono massacrare centinaia di migliaia di persone in un momento come questo, in cui hanno così tanto bisogno di forza-lavoro», racconta ancora Edelman. Perché mai ì nazisti avrebbero dovuto sprecare tre chili di pane e uno di marmellata, la razione proposta a ogni«volontario» che si iscriveva all'ultimo viaggio? L'allucinante risultato di questa proposta sono le gigantesche file di persone che si accalcano sull’Umschlagplatz attirati da quella promessa di cibo. E i convogli sono talmente stracarichi che molti sono costretti ad attendere. Ma anche il tempo delle pagnotte e della marmellata finisce ben presto: i crampi dolorosi della fame torturano lo stomaco, le labbra diventano secche e si spaccano per mancanza d'acqua. I corpi rinsecchiti diventano grigi: ora «tutti gli occhi hanno la stessa selvaggia espressione. La paura folle, la disperazione insondabile e impotente, la rivelazione improvvisa che tra pochi istanti inevitabilmente, arriverà il peggio, l'incredibile, quello che tutti avevano rifiutato di credere fino all’ultimo». Cadono a quel punto anche le residue perplessità sull'opportunità della resistenza armata, cui a lungo i leader religiosi del ghetto si sono opposti. Così, proprio quando le SS decidono di procedere allo sterminio finale, e a una rapida liquidazione del quartiere ebraico, si trovano di fronte a una imprevista reazione. Per ventisette lunghissimi giorni, «gli uomini delle macerie», abbandonati dal mondo intero. stremati e con armi rudimentali, tengono testa al più terribile e preparato degli eserciti. Solo il 16 maggio, il generale nazista Jurgen Stroop potrà inviare a Himmler il suo definitivo bollettino di guerra «Il quartiere ebraico della città di Varsavia non esiste più. La grande azione ha avuto termine alle ore 20.15 con l'esplosione della sinagoga». Tra i pochissimi a sfuggire alla morte, con una fuga attraverso i tombini delle fognature sarà appunto Edelman che poi, da convinto antisionista, rimarrà sempre in Polonia affrontando le successive ondate antisemite del '68, e la galera nell' 81, dopo l'adesione a Solidarnosc. Questo straordinario vecchio cardiochirurgo a Lodz, dopo aver attraversato per intero l'Orrore, non ha mai taciuto su nulla. Neppure sulle ferite più brucianti di una popolazione destinata alla «soluzione finale»: quali il comportamento della polizia ebraica («una delle pagine più lugubri della nostra storia») e il collaborazionismo dei Consigli ebraici, «tra le cui pareti spirava aria di Gestapo», come ha scritto il testimone forse più attendibile di quelle vicende, Emanuele Ringelblum. Sono questioni delicatissime, che in passato - ogni qualvolta sono state sollevate - hanno scatenato furiose polemiche all'interno della comunità ebraica internazionale, tanto da spingere Hannah Arendt ad affermare: «Noi ebrei tendiamo a capovolgere la prospettiva storica: più gli avvenimenti sono lontani nel tempo, più ci appaiono nitidi, chiari e precisi. Questa inversione di prospettiva sta a indicare che la nostra coscienza collettiva non vuole assumere la responsabilità dei passato più recente, e che noi, insieme ai nostri storici, vogliamo trovare rifugio in qualche periodo del passato che ci metta al riparo da ogni conseguenza politica. Le reazioni a queste considerazioni della Arendt sono state perlopiù negative, anche se improntate a valutazioni diverse. C'è chi ha sostenuto l'impossibilità di giudicare con occhi «normali» una situazione eccezionale come quella dello sterminio; chi, come Scholem, le ha rimproverato di «insistere troppo sulla oggettiva debolezza della posizione degli ebrei nel mondo, ciò che compromette l'oggettività del racconto e assume quasi dei toni di malevolenza» chi, infine, come lo scrittore Amos Oz, ritiene oggi che il problema si presenti in termini rovesciati rispetto a come la Arendt lo poneva una trentina di anni fa: quel passato, non solo non è oggetto di rimozione, ma ha innescato semmai una sorta di ipnosi generale. Corre il rischio di schiacciare sotto il suo peso qualunque ragionamento sul presente, e soprattutto sul futuro dei popolo ebraico. Un colloquio con un giovane ebreo di qui dalla faccia seria e gentile, lo studente in biologia molecolare Martin Grynberg, mi offre un'ulteriore lettura. Forse la più toccante di tutte, nella sua disarmante semplicità. A me pare che quella tragica vicenda ci abbia imposto di essere un popolo diverso dagli altri. Mentre siamo come tutti gli altri: con uomini coraggiosi e vigliacchi, straordinari e squallidi. Siamo? Eravamo. Perché tutto questo è finito per sempre. A me non resta, per conservare quell’eredità, che fare un'intervista a mio nonno ottantanovenne, il quale in venti nastri mi ha raccontato tutta la sua vita. E provare una nostalgia infinita per la comunità ebraica d'anteguerra, quando la vedo descritta nei film o la leggo nei libri. Però c'è una nostalgia ancora più dolorosa. Perché io non sento tutto ciò. In realtà, io penso di sentirlo.

Milioni di morti

Quelle tre parole («penso di sentirlo») mi rimangono impresse, mentre passeggio nel cimitero ebraico di Varsavia: un bosco immenso dove sono sepolti milioni di morti. Il luogo, assieme, del totale annientamento e dell'unica memoria possibile, dopo che la definitiva distruzione del ghetto ha lasciato solo all’interpretazione degli arcani ornamenti di quelle tombe la decifrazione di un passato altrimenti perduto per sempre. Se Martin «pensa di sentire», mi chiedo, allora cosa accade a me in questo bosco di memoriali di morte? Descrivendo con atroce sincerità la sua visita ad Auschwitz nel romanzo Cani neri, lan McEwan ha spiegato bene in cosa consista questa sensazione di insopportabile disagio: «Procedendo ancora, le emozioni si spensero dentro di me. Non potevo fare più niente per rimediare. Non c'era nessuno a cui dare da mangiare. Passeggiavamo, come turisti. L'alternativa era una sola: e ci si lasciava sopraffare dalla disperazione, oppure si affondavano le mani nelle tasche,ci si aggrappava agli spiccioli tiepidi che contenevano, e si accettava di aver fatto un passo in più verso gli autori dell’incubo. Era la nostra quota di orrore. Anche noi eravamo liberi come al tempo si erano mossi i comandanti militari e le autorità politiche, liberi di osservare qua e là e di poter uscire, assolutamente certi dei nostro pasto successivo».  

Da la Repubblica, 1993, per gentile concessione

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