la Repubblica
Nazisti
di
Simonetta
Fiori
Né
folli né psicotici, più banalmente criminali. Dopo sessant'anni viene resa
pubblica in Italia la “cartella psichiatrica” dei gerarchi nazisti
processati a Norimberga e l’iniziale diagnosi esclude qualsiasi patologia.
Come se la tesi espressa da Hannah Arehdt sulla “banalità del male”
avesse trovato il suo riscontro psichiatrico. Ma gli autori che
all’argomento oggi dedicano un articolato saggio, Niels Peter Nielsen e
Salvatore Zizolfi, non s'arrendono dinanzi all’ipotesi della
“normalità”. E sulle peculiarità dell'universo mentale nazista, “fondato
sul diniego perverso della realtà”, suggeriscono una loro suggestiva
interpretazione. E una vicenda romanzesca, quella narrata nel libro Rorschach
a Norimberga. I gerarchi nazisti a processo tra memoria storica e
riflessione psicoanalitica, pubblicato dalla Franco Angeli nel sessantesimo
anniversario del celebre processo (pagg. 463, euro 28,50). Una storia che si
dipana
tra orrori pubblici e piccole rivalità individuali: il nazismo da un lato,
con i suoi protagonisti sottoposti a giudizio; dall’altro, le gelosie e gli
antagonismi di chi fu incaricato di esaminare i gerarchi tedeschi chiusi in
carcere
in attesa del processo. Conseguenza di queste diatribe fu l’occultamento - per vari decenni
- dei test psicoanalitici ai quali furono sottoposte personalità quali Rudolf
Hess ed Hermann Göring; Franz
von Papen e Joachim Ribbentrop, Albert Speer e Robert Ley. Esiti di qualche
rilevanza, che solo dopo mezzo secolo sono stati pubblicati e liberamente
interpretati. Prima del processo,
che s’inaugura il 20 novembre del 1945, uno psichiatra anglosassone viene
incaricato dalla Corte di seguire i criminali nazisti reclusi in prigione.
Douglas Kelley - questo il nome dello studioso - è un esperto nel campo
della metodica Rorschach, ossia quella tecnica psicodiagnostica basata
sull'interpretazione di figure poco strutturate, macchie d’inchiostro dal
contorno incerto. Kelley può svolgere i suoi test soltanto per cinque
mesi, fino al febbraio del
1946:
sulla base di questi sondaggi, ricava che “il più grande gruppo di criminali,
che la razza umana abbia mai conosciuto” è costituito da individui
“con abilità superiori alla media”, sostanzialmente “normali dal punto
di vista psichiatrico”, talvolta “eccentrici”, “fanatici”, ma
“non clinicamente folli”. Esito, a ben guardare, sconvolgente. «Sulla
base del nostro test», dichiara Kelley, «dobbiamo concludere non solo che
tali personalità non sono affatto uniche e irripetibili o psichicamente
ammalate, ma che addirittura potrebbero ripresentarsi in qualsiasi paese del
mondo, oggi stesso». Il dottor Kelley muore dodici anni più tardi. Inquietanti
le modalità: nel 1958 si suicida con il cianuro, esattamente allo stesso modo
di Göring, alimentando le voci già circolate nel mondo psichiatrico
americano secondo cui sarebbe stato proprio lui a fornire al feldmaresciallo
la mortale fialetta (ipotesi smentita da successive testimonianze). Un gesto
dettato – secondo
i più maligni – da una sorta di invaghimento per il temibile
gerarca. Nell’ottobre del 1945 arriva a Norimberga un altro psicologo. Gustav
Gilbert, che continua il lavoro cominciato da Kelley, ma senza avere alcuna
esperienza nel campo della metodica Rorschach. Le sue diagnosi appaiono
affidate, più che a un rigoroso esame dei test, a un’analisi fondata sulle
impressioni. Nel 1961, chiamato in qualità di testimone per il processo ad
Eichmann, avrà modo di suggerire un’interpretazione dei test sostanzialmente
differente da quella di Kelley: le sue pagine presentano personalità
“insensibili” e “automatizzate” la cui struttura psichica appare
“assemblata con materiale elettrico e ferreo al posto del cuore e della
mente”. Ne scaturisce l'immagine di “una società malata”, pervasa da
un soffio demoniaco estraneo alla civiltà occidentale. La distanza tra i
due “esaminatori di Norimberga” – “normali” i nazisti visti da
Kelley, “demoniaci” secondo Gilber – rallenta la pubblicazione dei test.
Ma a ostacolarne la divulgazione, nel lungo dopoguerra, interviene anche
un’altra circostanza: pur sollecitati da un’autorevole commissione, i più
eminenti studiosi ispirati dalla metodica Rorchach si rifiutano a più riprese
di mettere le mani su quei protocolli. I tempi evidentemente non sono maturi:
impensabile un approccio scientifico e neutrale all’evento che simboleggia il
male del secolo. Dopo diverse vicissitudini, negli anni Novanta i test vengono
finalmente assemblati e commentati. Ma non finiscono le discussioni intorno alla
loro interpretazione. Se una lettura più rigida sul piano metodologico insiste
sulla “normalità” psichica dei gerarchi, altre interpretazioni più
attente al contesto storico enfatizzano la particolarità psichiatrica degli
esaminati, collocata tra la struttura borderline della personalità e
la sensibilità schizoide. Anche Zizolfi e Nielsen (già autore di un importante
saggio sull'argomento) tendono a rintracciare dietro l'apparente normalità un
universo mentale distorto. Il ricorrere di immagini affini - nella
interpretazione delle macchie proposta dai gerarchi nazisti - li autorizza a
disegnare la costellazione di un mondo alla rovescia, permeato dal “diniego
perverso della realtà”. In particolare, analizzando alcune tavole di
Rorscharch
(la quinta e la settima), nella lettura delle macchie come “una pelle” o
“un pesce” registrano una sorta di indebolimento delle “imago
parentali”, ossia delle figure genitoriali. Vuoto sostituito da una figura
"totipotente", oggetto di obbedienza cieca e assoluta, capace di
coagulare violenza, servilismo e opportunismo (la terza tavola diffusamente
letta dai gerarchi come il profilo di due "camerieri"). Ma dietro
la spinta alla obbedienza, aggiungono gli autori, si nasconde l’inclinazione
contraria e ben più potente al comando, testimoniata dalle macchie
frequentemente interpretate come bandiere, stemmi, trofei, elmetti e
cappelli. Anche l’identità sessuale ne affiora confusa e frammentata: ad
attestarlo sarebbero le frequenti risposte a contenuto botanico (fiori strani
ed esotici) e l'assenza pressoché totale di riferimenti espliciti alla
sessualità. Ma l'aspetto più costante rilevato trai protocolli investe la
difficoltà nel riconoscere le situazioni nelle loro apparenze più banali:
perfino il bestiario immaginato dai nazisti privilegia animali esotici o
chimerici. Esemplare il caso di Ribbentrop: messo dinanzi alla “macchia
del pipistrello”, in un primo momento suggerisce la risposta più scontata,
per poi deriderla come “grottesca”. La conclusione che gli autori ne
traggono suona come una conferma: il nazismo crebbe e si sviluppò
nell’impostura è
nell’autoinganno.
Oltre le consapevoli ipocrisie, Nielsen e Zizolti rintracciano una zona di
“difese inconsce”, regolata dal “criterio della
deresponsabilizzazione”. Il principio dell’obbedienza, dietro cui gli
artefici del regime si nascondono, diventa una modalità per rifuggire dalle
responsabilità personali e dunque per autoassolversi. E quando l’inganno
si sposa con l’ideologia, il risultato può essere disastroso. Quale in
effetti fu: nella normalità come nella patologia.
Hess - Consigliere del Führer e generale delle SS (il “fedele
Venerdì di Hitler”). Le sue risposte ai test privilegiano “immagini viste
al microscopio”, che gli autori riferiscono al suo controllo minuzioso di
tutta l’attività del partito: «una fuga nell'infinitamente piccolo e
nell'estremamente distante nello spazio».
Göring
- Generale delle SS e successore designato di Hitler (il “Nerone nazista”).
Dinanzi ai suoi esaminatori mantiene un atteggiamento spavaldo, di chi è
sempre stato vincitore. Liquida il test come “tavole da pazzi”, esibendo
un tono divertito. Le sue risposte sono all'apparenza tra le più banali, ma
Nielsen e Zizolfi vi rintracciano “un mondo alla rovescia, notturno e
bizzarro, che stravolge l’ordine delle cose”.
Ribbentrop
- Consigliere
del Führer e ministro degli Esteri, ribattezzato “La voce del padrone”.
Anche in questo caso il test appare povero di indicazioni, ma secondo gli
interpreti è l’ennesima “dissimulazione” di un “dissimulatore ai
razza”. L'invenzione di vari animali, tra cui un “granchio artigliato” e
un “polipo acchiappa tutto", confermerebbe un “concentrato di
aggressività e avidità rapace”.
Papen - Negoziatore del Concordato con il Vaticano e ambasciatore a Vienna (“Il cameriere segreto”). Un fantasma di morte percorre tutto il protocollo: dalla “farfalla morta e fissata” nella prima tavola all’animale che striscia ma ormai è morto" in quarta tavola, all’insetto morto” in sesta tavola.
Speer
-
Il protocollo di Speer (“L'architetto che non sapeva vedere”) confermerebbe
quell’elogio dell'impersonalità che segnò la sua biografia. «Io non c'entro»,
potrebbe esserne il motto, che fa da pendant alla frase pronunciata a
Norimberga: «Io non so quando sono stato veramente io nel fare quel che ho
fatto». Un esempio: interpreta la prima macchia come un insetto provvisto di
corazza, poi smentisce: «Io non conosco nessun insetto che assomigli a questo».
Nella terza tavola si rifugia in una dimensione professionale: «Potrebbe essere
un disegno di Kubin, con qualche difficoltà posso dire quale».
Da la Repubblica, 28
ottobre 200