la Repubblica

Eredità Wiesenthal – L’ultima battaglia del cacciatore di nazisti

Prima di morire, l'uomo che ha dedicato la vita alla cattura dei responsabili dell'Olocausto comprese di avere un 'altra missione: combattere contro Il nuovo antisemitismo. Decise così di scrivere una lettera ai grandi della Terra, chiedendo di prendere posizione di fronte al fenomeno. Quel testo, finora inedito, è diventato il testamento spirituale del suo autore. E "Repubblica" ne ha girato le domande a intellettuali, scrittori e religiosi. Ecco le loro risposte

di Francesca Caferri

Per tutta la vita ha scavato nel passato, Simon Wiesenthal: nei documenti, nelle carte, nei ricordi di chi come lui aveva attraversato l'inferno e dalle fiamme era uscito vivo, chissà per quale motivo. Il suo motivo Wiesenthal l'aveva trovato quasi subito: perpetuare il ricordo, fare giustizia, evitare l'oblio. Ma negli ultimi anni dopo che per ragioni anagrafiche, sue e dei suoi obiettivi, aveva smesso di inseguire i nemici di una vita, il cacciatore di nazisti era stato colto da un'altra ossessione, quella del futuro: «Nel mio 95simo anno di vita, dopo aver constatato che il genocidio e le atrocità nel mondo non sono finite con la caduta del regime nazista, non posso restare in silenzio di fronte all'attuale ondata di antisemitismo». Inizia così la lettera che è diventata il testamento spirituale di Simon Wiesenthal. Nella missiva, inviata l’inverno scorso, l'uomo diventato il simbolo della domanda di giustizia dei sopravvissuti alla Shoah invita capi diStato e di governo, parlamentari europei, premi Nobel, intellettuali e esponenti di tutte le religioni a un dialogo intorno agli interrogativi che lo hanno assillato nell'ultima parte della sua vita. «Cos'è l'antisemitismo?». E ancora: «Cosa pensate andrebbe fatto a proposito?». Lo scopo, come spiega lo stesso Wiesenthal, era avviare una discussione pubblica sulla scorta di quella da lui stesso voluta sul tema della vendetta e del perdono e raccolta nel libro Il girasole. Dalle risposte sarebbe dovuto nascere un altro libro, dedicato all'antisemitismo e alla convivenza pacifica fra le diverse religioni e le diverse società: Wiesenthal lo aveva pensato come ideale ponte fra passato e futuro, come il  suo lascito alle prossime generazioni. Quel testo, che i collaboratori avrebbero voluto presentare a Wiesenthal per il suo 97simo compleanno, nel dicembre prossimo, vedrà ora la luce postumo. «E il nostro modo per rendere omaggio alla sua memoria», spiega Shimon Samuels, direttore del braccio europeo del centro Simon Wiesenthal e curatore dell'opera. Nelle prossime settimane Samuels e i suoi collaboratori raccoglieranno le risposte già arrivate e solleciteranno quelle che ancora mancano: lo scopo è arrivare alle stampe per la fine dell'anno. «Non ha mai voluto che in sua memoria fosse eretto un monumento statico ­prosegue Samuels - ha acconsentito a dare il suo nome al centro perché voleva che il suo lavoro andasse avanti». «Ho ricevuto molti premi - diceva Wiesenthal negli ultimi anni -, quelli moriranno con me. Ma il centro continuerà ad operare e questa sarà la mia eredità». Un'eredità che oggi vive nel lavoro che la fondazione sta facendo in posti come i Balcani e il Ruanda, dove le domande che Wiesenthal si è fatto per cinquant’anni sul rapporto fra criminali e vittime, il perdono, la giustizia e la vendetta sono ancora attuali. E che trarrà nuova linfa dalla pubblicazione del libro, che ha il titolo provvisorio di Strategie per la tolleranza: combattere l'antisemitismo e che sarà edito in collaborazione con l'Unesco e con il contributo del braccio italiano del Centro Wiesenthal, l’organizzazione Olokaustos. Il testo si comporrà di due sezioni: nella prima saranno raccolte le testimonianze di chi si batte in prima linea contro l'antisemitismo in Europa e nel mondo, nella seconda le risposte alla lettera. In attesa della pubblicazione del testo Repubblica ha girato le domande di Wiesenthal a scrittori, intellettuali, religiosi e politici. Quelle che pubblichiamo in queste pagine sono le loro risposte.


L'APPELLO

"Sono convinto che l'antisemitismo, anche se colpisce gli ebrei, danneggi l'intera società. Inoltre, i metodi per contenere l'antisemitismo sono sicuramente applicabili a forme di pregiudizio e discriminazione contro altre vittime". 

Così Simon Wiesenthal ha scritto pochi mesi prima di morire nella lettera-appello inviata a personalità di tutto il mondo, invitate a rispondere a queste due domande: che cosa si intende oggi per antisemitismo? E che si dovrebbe fare per contrastarlo


Il filosofo Avishai Margalit "Per troppe persone restiamo un'ossessione"  

di Riccardo Staglianò

Avishai Margalit è uno degli intellettuali più au­torevoli di Israele. Filosofo della politica all'Università ebraica di Gerusalemme è l'autore, con lan Buruma, di Occidentalismo, in cui confuta l’idea di "scontro di Civiltà".

Citando l'invito contenuto nella "lettera aperta" di Simon Wiesenthal, lei "cosa intende con antisemitismo"?

«Una volta sentì Isaiah Berlin dire che era "hating Jews beyond necessity", "odiare gli ebrei al di là di ogni comprensione". Non so se sia sua ma la trovo utile. I pregiudizi contro altri gruppi sono comuni, le ossessioni no. E troppe persone sono ancora ossessionate dagli ebrei, pur ammettendo che le politiche di Israele nei confronti dei palestinesi non aiutano».

Alcuni commentatori dicono che oggi i musul­mani si trovano nella condizione di doversi scusare di appartenere alla loro religione per non essere ac­cusati d'altro, un pregiudizio simile a quello soffer­to per secoli dagli ebrei. È d'accordo?

«Non c'è dubbio che ci siano virulenti pregiudizi antiislamici nel mondo. Tuttavia il confronto non regge per la semplice ragione che il mondo islamico consiste di circa un sesto della popolazione mondiale mentre gli ebrei sono sempre stati un piccola minoranza, perciò molto più vulnerabile».

Qual è il lascito più importante di Wiesenthal?

«Il suo è stato un enorme contributo nel forgiare gli ebrei come una comunità di memoria dopo l'Olocausto e nel far sì che il mondo desse conto in maniera concreta dell'enormità di quell'evento. E sono entrambi risultati epocali. Che peccato che neppure un ministro di Israele ha trovato il tempo di partecipare al suo funerale».


Lo storico Joachim Fest "Ma oggi in Germania è tornata l'armonia"

Il termine antisemitismo indica una grande «tragedia che pesa sul mondo dalla morte di Cristo. Da allora si è sviluppato un pregiudizio terribile che nel corso dei secoli ha portato a continue persecuzioni. Questo pregiudizio non è ancora morto». Così Joachim Fest, massimo studioso mondiale del Terzo Reich e biografo di Hitler, risponde alle domande poste da Simon Wiesenthal.

Perché quel pregiudizio non è mai morto?

«Una volta a Roma un diplomatico italiano mi fece notare quanti carabinieri fossero posti a protezione della missione commerciale israeliana. Mi disse, "gli ebrei tendono a farsi notare ovunque"».

In Germania il tema è particolarmente sentito.

«Eppure in Germania ci fu, prima di Hitler, una simbiosi tra ebrei e tedeschi. Ebrei e tedeschi si somigliano nei gusti e nelle passioni: il pensiero speculativo, la musica, la filosofia, le scienze, la letteratura. Forse anche per questo, quando Hitler arrivò al potere, molti di loro commisero l'errore fatale di sottovalutare la minaccia».

Come viene vissuto oggi in Germania il tema dell'antisemitismo?

«Oggi, secondo me, gli ebrei in Germania commettono a volte un errore ben diverso. Quello di confondere a volte posizioni critiche verso il governo israeliano con posizioni antisemite».

E invece come stanno le cose?

«Per quanto possa apparire paradossale dopo Hitler, siamo tornati alla tendenza alla simbiosi. Gli ebrei sono tornati a sentirsi molto a loro agio in Germania. Berlino è tornata un centro della vita e della cultura ebraica. È una sconfitta dell'antisemitismo di cui ci si potrebbe dire felici, anziché tacerne in nome dell' eterno pessimismo tedesco».


Lo scrittore Tahar Ben Jelloun "Il razzismo va colpito a partire dalle scuole"

Tahar Ben Jelloun, marocchino ma da tempo residente in Francia, è da anni uno degli intellettuali più impegnati sul fronte del dialogo fra l'Occidente e il mondo musulmano.

Musulmani contro ebrei. Wiesenthal temeva questa contrapposizione. Aveva ragione?

«Il mondo arabo-musulmano non ha problemi particolari con il mondo ebraico. C' è un conflitto non religioso bensì politico che oppone due popoli su una sola terra  ma non bisogna confondere l'esasperazione che può provocare la politica dello Stato di Israele con un rifiuto dell'entità ebraica. Sono due fatti separati».

Quindi il dialogo fra musulmani ed ebrei è possibile?       

«Non è solo possibile ma anche inevitabile, perché si tratta di due popoli caratterizzati da un immaginario, da tradizioni e da modi di vita molto simili. Non è un caso che ebrei e musulmani abbiano convissuto per molti secoli in Andalusia e vi abbiano costruito una cultura comune».

Wiesenthal vedeva nascere un nuovo antisemiti­smo. In particolare lo avevano spaventato episodi avvenuti in Francia, paese dove lei vive. Crede che avesse ragione?

«È vero che in Europa si è visto apparire quel razzismo particolare che attribuisce agli ebrei tutte le sventure dell'umanità. Talvolta ciò è espressione di una sorta di solidarietà tribale con le popolazioni che soffrono per il conflitto israelo-palestinese. Ma la trasposizione di un conflitto mediorientale nei sobborghi parigini è un errore di valutazione. Per evitare queste derive occorre un lavoro pedagogico quotidiano nelle scuole: senza educazione, senza una spiegazione cal­ma e giusta, precisa e obbiettiva, il razzismo e l'antisemitismo continueranno a imbrogliare tutti e a scavare un fossato trai popoli».


Elio Toaff: vigiliamo per evitare che quella tragedia si ripeta

“Giustizia senza vendetta ecco la nostra missione”

di Orazio La Rocca

«L'opera di Simon Wiesenthal deve continuare. Anche dopo la sua scomparsa, è importante che ci sia qualcuno disposto a raccogliere il testimone per completare la ricerca dei criminali nazisti ancora in libertà. Non per vendetta ma per un elementare senso di giustizia e per onorare, così, la memoria dei sei milioni di vittime innocenti dell'Olocausto». Questo il tributo del maestro Elio Toaff, rabbino capo emerito di Roma, a Simon Wiesenthal, l'architetto ebreo che ha dedicato tutta la vita a scovare i gerarchi nazisti responsabili della Shoa. Wiesenthal - continua Toaff, 90 anni - oltre ad assicurare alla giustizia centinaia e centinaia di nazisti in seguito all'apertura di 1.100 procedimenti penali, «ha contribuito a tenere viva la memoria dell'Olocausto, un'opera insostituibile per la quale l'umanità intera gli sarà sempre riconoscente».

Maestro Toaff, lei era quasi coetaneo di Wiesenthal. Vi siete mai incontrati?

«Sì, una volta sola, qualche anno fa. Fu un incontro casuale, durante una cerimonia. Era già molto noto per la sua attività di "cacciatore" di nazisti. Grazie al suo lavoro molti gerarchi erano stati processati e condannati, come Adolf Eichmann e Karl Silberbauer, responsabile dell'arresto di Anna Frank. Ma non parlammo di questo. Ci stringemmo la mano, toccammo argomenti di circostanza, niente di più».

Chi era Simon Wiesenthal?

«Era Un uomo animato da un altissimo senso di giustizia e per questo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si dette subito alla ricerca dei veri responsabili dell'Olocausto: per consegnarli alla giustizia ma anche per evitare il ripetersi di tragedie simili. Non era mai soddisfatto dei successi raggiunti. Era spinto da una forza interna, dal desiderio di andare sempre avanti nella ricerca e nella denuncia. Purtroppo in quest'opera fu quasi subito abbandonato dagli Stati Uniti per motivi politici legati alla guerra fredda. Ma lui non si arrese mai».

Una vita dedicata a cacciare nazisti, dopo essere stato internato in tredici lager, tra cui Buchenwald e Mauthausen. Alla fine i frutti raccolti lo hanno ripagato di tanto lavoro?

«Credo di sì. Ha fatto tanto: ha trovato persone, indicato nomi, descritto circostanze e individuato luoghi dove i nazisti si nascondevano. Ha fatto una grande opera di pulizia con puntualità e prove inappellabili: un lavoro di denuncia e prevenzione che, senza di lui, non penso si sarebbe potuto fare».

Quindi è grazie anche a uomini come Wiesenthal che il pericolo della follia nazista è stato debellato?

«Wiesenthal ha fatto tanto per evitare un altro Olocausto. Anche se non si può escludere che quella tragedia possa ripetersi. Basta guardarsi intorno e vedere che, in tanta parte del mondo, c'è sempre la follia della guerra, tante popolazioni vengono massacrate, sottomesse, umiliate. Ma non mi lascerei intimidire. Il bene alla fine trionferà».

Perché così ottimista?

«Perché vedo che, malgrado i tanti esempi negativi, la coscienza morale per la pace e la convivenza tra le popolazioni sta maturando. Specialmente tra i giovani. È da qui che cresce la speranza per il futuro».

Il settimanale della Namibia Plus, in lingua tedesca, in una inserzione a pagamento definisce Wiesenthal «mostro» e saluta la sua morte con «gioia e soddisfazione».

«Mi fa orrore. È la prova che occorre sempre vigilare perché l'odio nazista e razzista ancora non si è placato del tutto. Ecco perché è importante che l'opera di Wiesenthal non venga dispersa e che la ricerca di criminali nazisti non sia archiviata».

Eppure è stato lo stesso Wiesenthal ad affermare, poco tempo prima di morire, che considerava chiuso il suo lavoro perché gli ultimi nazisti ancora in circolazione non sono più arrestabili, essendo anziani di 80-90 anni.

«Non sono per niente convinto che l'opera di Wiesenthal sia finita. Il criminale, anche a 90anni, resta un criminale. È importante che sia scovato e consegnato alla giustizia. Anche per rispetto delle vittime e per dare un esempio all'opinione pubblica. È bene che si sappia che a nessuno è consentito uccidere innocenti, opprimere, violentare, sopraffare... e poi farla franca. Anche a decenni di distanza».

Si è a lungo discusso dell'atteggiamento da tenere nei confronti dei nazisti anziani che si pentono. Lei che ne pensa?

«Su questi pentimenti postumi sono molto perplesso. Sono tentato a pensare che il nazista che dice di essere pentito non sia sincero e che, più che pensare alle vittime, sia animato da una forte voglia di scamparla. Forse mi sbaglio, ma la penso cosi».

E tra il perdono e la giustizia, lei cosa sceglierebbe?

«La giustizia, sempre. Il perdono no. Non siamo noi che dobbiamo perdonare. C'è solo un Ente Supremo, Dio, che lo potrà fare. Tra gli uomini, il perdono lo possono dare solo quelli che sono stati offesi. E nel caso delle vittime dell'Olocausto non credo proprio che possano farlo. Ai sopravvissuti spetta solo il compito di assicurare i responsabili alla giustizia e di vigilare affinché gli errori del passato non si ripetano più».

Tra i sopravvissuti, a volte, esplode il desiderio di vendetta.

«È necessario assicurare alla giustizia i nazisti in libertà non per desiderio di vendetta. La vendetta è un sentimento negativo che acceca, che non fa ragionare e che aggiunge drammi a drammi. Con la vendetta non si risolve nulla perché, spesso, dà luogo ad una catena di altre vendette».

Erich Priebke, condannato per l'eccidio delle Fosse Ardeatine, è agli arresti domiciliari. Ha 82 anni.

«È giusto che continui a rimanere agli arresti domiciliari e, ripeto, non per vendetta ma per spirito di giustizia. Non mi pare che abbia manifestato sentimenti di pentimento: durante i processi è rimasto sempre impassibile, non ha mai avuto una parola per le vittime innocenti».

Da la Repubblica, 16 ottobre 2005, per gentile concessione

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