la Repubblica

La memoria di un popolo

Intervista / Un libro di David Meghnagi sul grande trauma della Shoah

di Luciana Sica

Roma – Che succede quando un trauma non colpisce un singolo individuo, ma un intero popolo? Come va intesa, cosa diventa l’«elaborazione del lutto», quando si esce dalle ferite individuali e si entra in una dimensione più tragicamente collettiva? Sono domande sottese alle pagine del nuovo libro di David Meghnagi, che affronta – in una chiave originale, per molti versi – il trauma dei traumi dell’intera storia dell’uomo: l’Olocausto: «L’esperienza dei sopravvissuti alla Shoah» è l’eloquente sottotitolo di Ricomporre l’infranto (Marsilio, pagg. 170, euro 15,50). Docente di Psicologia clinica a Roma Tre, psicoanalista molto conosciuto e non solo in Italia (è “ordinario” dell’International Psychoanalytical Association), Meghnagi è da anni lo studioso dei rapporti controversi, ma comunque molto intensi, che legano il sapere di Freud – un ateo – alla cultura ebraica. In questo suo nuovo lavoro, riflette sul problema della trasmissione della memoria della Shoah, un tema delicatissima che l’autore fronteggia senza cedimenti autoreferenziali, evitando di cadere in quell’errore che segnalava già anni fa Zygmunt Bauaman, «quello di presentare l’Olocausto come qualcosa che è accaduto agli Ebrei: come un evento della storia giudaica» (Globalizzazione e glocalizzazione, Armando editore). «È un tema senz’altro ampio», dice Meghnagi, in questa intervista. «Dal mio punto di vista, l’analisi di natura psicologica è ancora centrale, ma non va limitata all’esperienza clinica e soprattutto da sola non può bastare perché è evidente l’intreccio con problemi di altro ordine: filosofico, storico,  religioso e anche politico». Da Marek Edelman, medico e leader del Bund, vicecomandante del ghetto di Varsavia, al biografo di Troskij Isaac Deutscher, al massimo storico della Qabbalah, Gerschom Scholem, è un libro affollato di tanti personaggi diversi, ma forse è la presenza degli scrittori ad affascinare di più: non solo per il capitolo dedicato a Primo Levi, ma per i continui rimandi ad autori come Benjamin, Kafka, Celan, Magris, Roth, e soprattutto Singer e Yehoshua, naturalmente …

È un elemento necessario, la letteratura, parlando di Shoah?

«Direi inevitabile, perché noi abbiamo un buco nero della cultura, e la letteratura è un territorio fondamentale di esplorazione, collocandosi in una zona intermedia tra il vissuto soprattutto inconscio e l’analisi più ragionata dei fatti, dove a contare è anche come si affrontano certi temi, come – per così dire – si mettono in scena …».

Lei parla di un «buco nero della cultura», e di un’erosione della memoria di Auschwitz. Ma non le sembra un po’ esagerato? In questi anni sono usciti libri di grande interesse, film di qualità, oltre a una quantità cospicua di articoli di giornale … Si direbbe un silenzio piuttosto assordante.

«Intanto parlo di un’erosione della memoria legata all’esperienza, perché il presenta si allontana e poco alla volta scompaiono i grandi testimoni che in prima persona hanno vissuto la tragedia. C’è una certa inflazione del problema, ma è apparente, nel senso che è soprattutto un terreno politico e culturale di scontro, dove le manipolazioni sono vistose. Basti pensare, non so, al filone revisionista o anche all’uso che ne ha fatto la cultura comunista rimuovendo la politica di collusione che ha legato l’Unione Sovietica a Hitler negli anni Trenta … È vero che la memoria della Shoah in Italia conosce un grande sviluppo in questi ultimi anni, ma è curioso come questo avvenga parallelamente al declino della memoria della Resistenza».

Non pensa che la Shoah stia diventando una sorta di patrimonio esclusivamente ebraico?

«È un fenomeno molto pericoloso che gli ebrei si trovino nella situazione di dovere testimoniare per gli altri. È lì che avviene il corto circuito, quando la memoria non è condivisa, ed è proprio di questo che si alimenta il nuovo antisemitismo. Non sono però gli ebrei a volerne fare una proprietà personale: il punto è che la memoria della Shoah è diventata lo specchio attraverso cui l’identità europea riflette oggi su se stessa».

In che senso?

«Nel senso che l’Europa è maturata sullo sfondo della tragedia della Seconda guerra mondiale, come rifiuto dei conflitti violenti e del totalitarismo, e dunque Auschwitz è un elemento costitutivo della sua identità. Siamo abituati a pensare che Israele sia un pezzo d’Europa trapiantato nel vicino Oriente, anche se la metà della sua popolazione proviene dal mondo arabo. Ma in realtà, nella memoria europea, la nascita di Israele è legata alla tragedia della Shoah, e quindi l’elaborazione di quella vertigine abominevole e senza precedenti di crimini e criminali rischia di diventare un problema irrisolto di tutta l’Europa».

Siamo al cuore della sua riflessione, a quel “passato che non passa”, alla trasmissione psichica del trauma come memoria involontaria, al segno luttuoso che la Shoah ha lasciato alle generazioni successive …

«Quali risorse ha trovato in sé l’ebraismo per non andare in pezzi? Me lo sono chiesto molte volte. Altre culture che hanno subito lacerazioni dolorosissime sono finite in frantumi, dalle popolazioni pellerossa degli Stati Uniti agli indios dell’America Latina … Di fronte a un trauma collettivo legato al crollo di un intero mondo, che si salva continua a morire dopo, nel senso psichico della perdita di ogni gioia di vivere».

Allora, cosa ha permesso all’ebraismo di risorgere? Da dove viene l’energia di questo popolo?

«Proprio dal culto della memoria, penso. Nella tradizione ebraica, ricordare è un valore fondamentale, ed è questo elemento che ha avuto e continua ad avere un ruolo di primo piano. Ovviamente non c’è stato solo questo: senza lo Stato d’Israele, il collasso sarebbe stato molto più ampio … Le generazioni attuali sono ancora prigioniere di quel mondo atroce, ma le generazioni future potranno, dovranno elaborare il trauma, apprendere dall’esperienza e quindi anche dal “nuovo”, sprigionare una scintilla di libertà da quel passato, anche se non potranno restituire fisicamente la vita a milioni di esseri umani andati perduti».

“I morti non sono degli assenti, sono degli invisibili”: Anne Schützenberger ricorre a una citazione di Sant’Agostino ne La sindrome degli antenati, un libro molto interessante uscito da Di Renzo … 

«È una sensazione che ho vissuto profondamente nelle strade di Gerusalemme, passeggiando con Yehoshua … Ci chiedevamo quanto in quella città i morti fossero vicini ai vivi, in altre parole quanto i morti popolassero il teatro della mente dei vivi».

La psicoanalista francese - ma soprattutto psicodrammatista da “figlia adottiva” di Moreno -  propone una chiave di lettura “transgenerazionale” delle vicende del Kosovo. E già all’inizio degli anni Novanta René Kaës, la Faimberg e un altro paio di analisti firmavano un bel libro ristampato da Borla quest’anno, Trasmissione della vita psichica tra generazioni … Il suo saggio rientra in questo filone?

«Assolutamente sì. E trovo che questo genere di riflessioni affondino profondamente le radici in Freud, a meno che non lo si voglia caricaturizzare solo come il teorico delle pulsioni. Nella sua opera, Freud ragiona in termini di millenni, il dialogo tra le generazioni è uno dei temi carini della sua ricerca: basti pensare a Totem e tabù o anche a Mosè e il monoteismo, il suo testamento politico e morale …».

Pezzi di frammenti psichici legati ad esperienze delle generazioni passate confluiscono nella vita presente: in che modo fanno irruzione nella stanza d’analisi?

«In modo spesso dirompente. Molti pazienti sino irretiti in una trama di legami affettivi basati sulla violenza e sulla menzogna, il disagio che li avvolge rimanda a segreti rimossi che prendono la rivincita in detti e non detti, in silenzi e allusioni, in lapsus e anche in sintomi misteriosissimi … Mi vengono in mente i casi degli ex bambini argentini, nati da desaparecidos e poi “adottati” dagli stessi carnefici di quei genitori appena conosciuti e scomparsi nel mare».

Può fare qualche esempio?

«Sono stato consulente scientifico per un filmato televisivo, anni fa, a Buenos Aires, “L’identità e la memoria” s’intitolava … Ricordo due episodi: un bambino, ancora piccolissimo al momento dell’arresto del padre, da quel momento rivivrà inconsciamente quella scena terribile, nei sogni come nelle fantasticherie. Ancora oggi – ed ormai più di un ragazzo – quando ne parla, balbetta vistosamente. Una bambina “adottata” in tenerissima età da un commissario di polizia e ritrovata anni dopo da una nonna a dir poco accanita, quando viene riportata nella sua prima casa si orienta perfettamente nello spazio, in qualche modo riconosce le stanze e anche gli oggetti».

Ma che succede quando si esce dai romanzi familiari e si entra nelle grandi tragedie collettive, quando è appunto l’intero mondo di appartenenza a crollare e tutto viene ridotto letteralmente in polvere?

«Lì si misura per intero il limite della ricerca psicologica che privilegia la dimensione del contenuto della memoria quando invece rimane il problema di una forma, di un modello dell’esperienza che condiziona l’organizzazione successiva delle emozioni … Ed è comunque singolare una certa difficoltà, nella stessa cultura psicoanalitica, a immaginare che il rimosso di cui parla Freud non riguarda soggetti astratti, ma uomini e donne nella storia».

Da la Repubblica, 13 ottobre 2005, per gentile concessione

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