la Repubblica

L’angelo vendicatore - Addio a Simon Wiesenthal una vita a caccia di nazisti

Disse: “Io non dimentico”. E fece arrestare 1100 aguzzini - Dal lager alle indagini sui criminali di Hitler: il più grande successo fu Eichmann, ma non riuscì a trovare Mengele

dal nostro inviato Vittorio Zucconi

WashingtonOra che l’ultimo dei Giusti è morto, ora che l’”angelo vendicatore” ha attraversato a 97 anni l’ultima delle tante frontiere della sua vita di ebreo, Simon Wiesenthal avrà potuto dare al suo Dio la risposta che preparò il giorno del ’45 nel quale uscì da Mauthausen. «Quando noi superstiti saremo nell’aldilà – raccontava – i milioni di ebrei morti nei campi ci chiederanno, tu che hai fatto? Io ho costruito case, risponderà uno, io ho venduto gioielli, io ho scritto, io ho fatto l’impiegato in banca. Bene, e tu Simon, che hai fatto? Io non vi ho dimenticati». Certamente è più difficile dimenticare la Shoah quando 89 persone della tua famiglia, coloro che ti avevano allevato nel villaggio galiziano di Bukzacz, sono volati attraverso quei camini che ancora oggi segnano, come tronchi di una foresta sbigottita, il paesaggio polacco a Birkenau. Ma Wiesenthal l’architetto, laureato nell’unica università che avesse accettato di iscrivere uno Jude come lui, quella di Praga, non era l’unico a poter contare dozzine di parenti, inghiottiti dalla Nacht und Nebel, dalla notte e dalla nebbia della soluzione finale. Perché allora proprio lui, fra i tanti, abbia dedicato la propria vita di sopravvissuto adulto – aveva già 37 anni quando fu sollevato di peso (39 chili) dalla paglia di Mauthause – alla caccia di criminali nazisti impuniti, perché sia divenuto il più ammirato e temuto fra i vendicatori della Shoah, è una domanda alla quale neppure Simon Wiesenthal sapeva rispondere. «Dio sceglie il destino che tu credi di scegliere per te», sorrideva. Il Dio che aveva scelto Simon per braccare i 1100 criminali nazisti che lui fece arrestare, rotelle piccole e grandi della macchina organizzata da Reynard Heydrich nel 1942 alla conferenza segreta del lago di Wann, è il Dio che punì spietatamente il Faraone, che chiede, nel Deuteronomio «Giustizia, giustizia». Nella missione dell’architetto che avrebbe potuto arricchirsi e scelse invece di vivere in un appartamentino di Vienna dove è morto sommerso da carte dilagate dopo la scomparsa della moglie Cyla nel 2003 – la donna che aveva sposato nel 1936 e si era salvata perché biondissima e quindi scambiata per ariana – c’era, come ha scritto il Rabbino americano Kalman Pakouz, «l’urgenza di giustificare davanti a Dio e a se stesso la propria inspiegabile sopravvivenza». La opprimente «ingiustizia» dell’essere vivo. La sindrome del superstite, il senso di colpa che afferra chi resta in piedi tra i caduti, fu la molla che lo spinse ad un’impresa che neppure i governi vincitori volevano perseguire davvero. Chiusa in fretta la fase della «denazificazione», impiccati o morti suicidi i peggiori papaveri della Germania nazista a Norimberga, il business urgente della Guerra Fredda si stese come una cortina di amnesia sul passato. Molti vecchi “nazi” servivano, e furono arruolati, nello scontro est-ovest. E fu dalla certezza che la dimenticanza e l’opportunismo avrebbero coperto la fuga dei topi, che Wiesenthal cominciò, nel 1947, il proprio lavoro di instancabile Penelope, che di notte disfaceva il tappeto di oblio steso di giorno dal cinismo politico. La sua ossessione, e il fallimento che si è portato davanti al Dio di Abramo come un peccato non espiato, fu Josef Mengele, il “dottor morte”, fuggito da Auschwitz e mai trovato. Il suo trionfo fu Adolf Eichmann, il tecnocrate della “soluzione finale”, il capostazione che faceva muovere in orario l’apparato della Shoa. Non fu Wiesenthal a catturarlo in Argentina, perché lui non era uno 007 con il silenziatore, ma fu il Mossad, i servizi israeliani, ai quali passava le briciole di informazioni e di voci che al suo centro di Documentazione Ebraica di Vienna arrivavano. Ben più modesto di Eichmann, che andò al patibolo dopo il processo in Israele, ma forse ancora più commovente fu la cattura di Karl Silberbauer, il poliziotto della Gestapo che aveva arrestato Anna Frank. Silberbauer aveva cambiato uniforme ed era diventato un autorevole ispettore della polizia austriaca. Nessun fuggiasco nazista dormì mai una notte tranquilla, mentre lui era vivo. Eppure l’”angelo vendicatore” tutto era meno che un uomo minaccioso. Quando gli si parlava, come capitò anche a me durante l’inaugurazione del centro Wiesenthal di Los Angeles, la voce gli si spezzava invariabilmente nel racconto. Il volto innocuo da libraio antiquario, si scioglieva nei tormenti di non poter fare abbastanza, di non poter vivere abbastanza a lungo, di lasciar dietro la dimenticanza. Sapeva usare i media, ricattava i governi europei e quelli delle Americhe dove ancora dormono i falconi e casi irrisolti di ricercati nazisti, come quel John Demjanuk, aguzzino ucraino di Treblinka, pescato quasi mezzo secolo in Ohio. I media lo ricompensavano, con film tratti dalle sue memorie (Ben Kingsley lo incarnò in un film) o ispirati alla sua fatica di mite cacciatore di criminali, come in «Brazil”». Ma l’incubo erano quei plotoni di esecuzione che per tre volte lo avevano mirato e inspiegabilmente risparmiato. Nella  sua Ucraina, come si chiama oggi la terra di origine, le SS indigene furono distratte dall’improvviso scampanare di una chiesa al Vespro e gli permisero di fuggire. Una seconda volta, quando 10 ebrei erano stati scelti per essere sacrificati in onore del compleanno del Führer e uno “Schindler”, un cittadino non ebreo, ottenne la salvezza per lui, dicendo che l’architetto gli sarebbe servito per dipingere una svastica gigantesca. E una terza, quando il suo gruppo di 34 prigionieri destinati all’esecuzione fu risparmiato da una compagnia di SS che li tenne in vita come pretesto per non essere mandata al fronte russo. Tre miracoli che fecero nascere la leggenda, tra i neo-nazisti europei e i lividi «storici del revisionismo» come l’inglese Irvin che negano la storicità dell’Olocausto, che Wiesenthal fosse un collaborazionista. Perché io no? perché loro sì? Wiesenthal, coperto di onorificenze, cavalierati britannici, medaglie del Congresso americano si tormentò fino alla morte, dicono i suoi amici, si arrovellava tra il perdono e la giustizia, ma mai la vendetta. Chiedeva ai rabbini e interpreti delle sottigliezze del Talmud se avesse fatto bene o male nel negare il perdono a un SS che in punto di morte domandò a lui l’assoluzione per quello che aveva fatto ai prigionieri. Se il Signore ti ha fatto vivere così a lungo, gli rispose un rabbino, ti ha dato la risposta e forse Simon Wiesenthal è morto davvero tranquillo, a 97 anni, nel sonno, dicono i medici, che è l’ultima benedizione possibile.


Quel dilemma sul perdono

di Giorgio Bocca

Il 12 aprile del 2003 Simon Wiesenthal, l’uomo che aveva dedicato la vita alla caccia dei criminali nazisti, diceva: «Il mio lavoro è fatto. Se ci sono ancora criminali nazisti che non ho trovato sono troppo vecchi e fragili per sostenere un processo». Il suo motto era «giustizia mai vendetta», il motto di un architetto ebreo che nel 1945 venne assunto dal War Crime Section americano per raccogliere prove, documenti, nomi di nazisti colpevoli di delitti contro l’umanità, per fornire una testimonianza al processo di Norimberga. Era necessaria la testimonianza raccolta da un ebreo tenace e instancabile come Wiesenthal per affermare davanti alla storia che quel crimine spaventoso, incredibile contro l’umanità era davvero avvenuto? La rilevanza del personaggio Wiesenthal più che alla sua opera si affida alla domanda che essa pone a tutti noi: il perdono ha un senso? Il bisogno di giustizia spiega una caccia all’uomo senza esitazioni e senza eccezioni? Una risposta netta e convincente non esiste, più delle ragioni contano le formazioni culturali, religiose, di chi è chiamato a rispondere. Ho incontrato Wiesenthal cinque o sei volte, l’ho per così dire seguito passo passo nella caccia a Eichmannn, il capostazione della morte, nella periferia di Buenos Aires, ma pur non essendo un cattolico credente e praticante c’è troppo cattolicesimo in me per aderire alla sua giustizia implacabile e univoca. Del resto il primo a porsi il problema del perdono, se sia possibile o no, se sincero o ipocrita, se utile o meno nella generale malvagità del mondo, è stato proprio Wiesenthal che nel 1970 scrisse nella prefazione del suo libri  «Il girasole»: «Nel giugno del 1942 a Leopoli, in circostanze insolite una giovane SS che stava per morire mi confessò i suoi delitti. Voleva morire in pace dopo aver ottenuto il perdono da un ebreo. Ritenni di doverglielo rifiutare. Ne discussi poi a lungo con i miei compagni di deportazione e finita la guerra andai a trovare la madre del giovane nazista ma non trovai il coraggio di rivelarle la verità su suo figlio. Questa vicenda continuava a tormentarmi. Così decisi di rivolgere la domanda sul perdono ad alcune persone importanti di diverse nazionalità». Le risposte di queste persone importanti sono contrastanti e in buona sostanza dicono che una risposta netta e definitiva è impossibile. Primo Levi è incerto: «Lei non avrebbe potuto perdonarlo se non mentendo e infliggendo a lei stesso una terribile violenza morale. È chiaro tuttavia che un suo rifiuto non risolve tutto, e si capisce abbastanza bene che lei abbia conservato dei dubbi. In casi come questi il sì e il no non si possono separare con un taglio netto, qualcosa resta sempre dall’altra parte». Stefano Levi della Torre aggiunge: «Il pentimento è anche un affare. Al pentimento in extremis manca per lo più qualcosa, manca la possibilità e quindi la responsabilità di redimersi con gli atti. Qui invece ha chiamato un ebreo di nascosto che ha tradotto il proprio crimine storico in una crisi privata». Le persone che rispondono a Wiesenthal sono degli intellettuali che hanno fatto della sincerità una ragion d’essere, eppure non si può vedere che ciascuno tira l’acqua al suo mulini, intellettuale o di vita. L’architetto Albert Speer, l’esempio più noto dell’ambiguità verso il nazismo, il più stretto collaboratore di Hitler scampato al processo di Norimberga, ci racconta di un Wiesenthal diversissimo da quello che seguiva come un segugio Eichmann su un tram, nella periferia di Buenos Aires, che organizzava il suo sequestro e il trafugamento su un aereo, piratesco e illegale pur che il colpevole dell’Olocausto pendesse impiccato nella veste rossa dei condannati a morte in un carcere segreto di Israele. Il Wiesenthal incontrato da Speer nel centro di documentazione ebraica è molto diverso. «Non mi ha accusato e non mi ha buttato in faccia la sua collera, ha dimostrato clemenza e umanità. L’ho guardato negli occhi, gli occhi che avevano visto la sofferenza, il degrado, il fatalismo e l’agonia dei suoi compagni, e tuttavia quegli occhi non esprimevano odio, erano caldi e tolleranti e pieni di comprensione per le sventure altrui. Sono venuto da lei traumatizzato, gli dissi. E lui mi ha molto aiutato, come ha aiutato quella giovane SS morente, quando non ha ritirato la sua mano e non l’ha rimproverato. Ogni essere umano deve portare il suo fardello. Nessuno può assumersi quello di un altro, ma il mio,, dopo il nostro incontro, è diventato più leggero». E qui bisogna riconoscere a Speer l’arte dell’inganno per cui è sfuggito alle forche di Norimberga. E Paolo De Benedetti: «Se il secolo XX dovesse trasmettere al XXI un solo messaggio vorrei che fosse l’angosciosa domanda del Girasole». Forse il disagio che ho provato di fronte a Wiesenthal le volte che l’ho incontrato deriva da un diverso atteggiamento verso la giustizia. Non cattolico ma imbevuto di cattolicesimo, ho sentito nei giorni della resa dei conti della guerra partigiana, aprile ’45, che quella giustizia non avrebbe lavato i peccati del mondo e che la voglia di fascismo sarebbe, nonostante tutto, ritornata. Mi sono sbagliato?


Le tappe

La gioventù 

La prigionia

L’impegno

Nato nel 1908 a Buczacz, nell’allora Austria-Ungheria, si laureò in ingegneria al Politecnico di Praga. Allo scoppio della guerra viveva a Lvov, in Polonia. Nel 1941 fu catturato dai nazisti. La moglie Cyla, scambiata per ariana, scampò miracolosamente.

Transitato per numerosi campi di concentramento tedeschi, scampò alla morte in almeno tre occasioni. Il 5 maggio 1945 fu liberato dai militari americani, al loro ingresso nel campo di Mauthausen, in Austria: alto 1 metro e 80, pesava 39 chili.

Nel 1947 fonda assieme a 30 volontari il centro di documentazione ebraica di Linz, in Austria, e comincia la sua tenace caccia ai gerarchi nazisti. Nel 1977 il Centro Simon Wiesenthal – con sedi a Gerusalemme e Los Angeles – viene battezzato in suo onore.

Nessuna vendetta: «Io cerco giustizia, non vendetta. La cosa più importante che ho fatto è stato lottare contro l’oblio».

Nessuna Impunità: «Voglio che la gente sappia che ai nazisti non è stato consentito uccidere milioni di persone e farla franca».

Il perdono: «Si possono perdonare crimini commessi contro se stessi, ma non si è autorizzati a perdonare per gli altri».

L’eredità: «Ho avuto molti premi. Quando morirò, moriranno con me. Ma il centro Wiesenthal rimarrà come eredità».


L’intervista – “Forte e giusto fu lui a portarci ad Eichmann”

Il ricordo di Tullia Zevi, inviata al processo

di Pietro Del Re

Roma - «Ho incontrato Simon Wiesenthal durante il processo Eichmann. In tribunale si vedeva poco, ma la sua presenza si sentiva ovunque». All’epoca, l’ex presidente della Comunità ebraica italiana Tullia Zevi copriva il processo al boia nazista per la Jewish telegraphic agency e per il quotidiano di Tel Aviv Maariv. Dice la signora Zevi: «Ricordo l’angoscia di quell’aula. Gerusalemme era piena di giornalisti giunti da tutto il mondo. Alcune testimonianze erano talmente terrificanti ed incisive che gli inviati si incrociavano la notte nei corridoi degli alberghi perché nessuno riusciva a dormire. I testimoni erano allora ancora persone nel vigore degli anni: quello che raccontavano diventava parte di noi». La cattura di Adolf Eichmann, uno dei principali esecutori materiali della “soluzione finale”, fu soprattutto possibile grazie all’acume investigativo e alla tenacia di Wiesenthal. Eichmann fu processato a Gerusalemme nel 1960. due anni dopo fu impiccato.

Signora Tullia Zevi, che ruolo ebbe Wiesenthal in quel processo?

«Un ruolo fondamentale. Fu l’uomo chiave dell’intera vicenda. La forza serena della sua testimonianza si rivelò di un’estrema efficacia. In quell’aula di tribunale si nuotava nelle lacrime degli orrori rivissuti, il processo Eichmann era diventato come una sacra rappresentazione. Wiesenthal incarnava, invece, il controllo della ragione. Ma anche nella disperazione, poiché anche lui passò attraverso i campi di sterminio dove perse tutta la famiglia».

E sulla cattura di Eichmann?

«Già nel 1953, Wiesenthal aveva inoltrato al Mossad informazioni relative ad Eichmann e alla sua famiglia. Aveva, già allora, scoperto che l’ex ufficiale nazista si trovava a Buenos Aires dove viveva sotto il falso nome di Ricardo Klement. Fu lui che indusse il governo israeliano a ordinarne la cattura».

Come lo ricorda in tribunale?

«A differenza di molti altri, Wiesenthal riusciva a tenere sotto controllo le sue emozioni, il risentimento, l’odio, tutto quello che un superstite può avere dentro di sé. Riusciva a domare tutti i demoni che i sopravvissuti ospitano nei loro cuori. Era in grado di gestire la sua disperazione, perché sapeva che c’era il dovere della memoria. Su questo dovere, Simon Wiesenthal ha costruito la propria vita».

Wiesenthal veniva celebrato come eroe, ma criticato e a volte screditato. Il “cacciatore di nazisti” era anche una figura controversa?

«Può darsi. Per me era un uomo che aveva sempre mostrato l’atteggiamento giusto nei confronti di ciò che era accaduto a sei milioni di ebrei: non il desiderio di vendetta ma la volontà di lasciare un segno perenne nell’inconscio collettivo, per lo meno dell’Europa. La sua forza gli veniva probabilmente dall’aver vissuto con assoluta profondità la tragedia del genocidio degli ebrei. Una forza sempre accompagnata da un pessimismo di fondo, radicale e radicato. È impossibile uscire indenne da un processo sulla shoah. Sono esperienze che segnano la vita».

Ciò non gli ha impedito di portare più di mille criminali nazisti davanti alla giustizia.

«Dopo la shoah la vigilanza è diventata un’esigenza etica e una necessità storica. Detto questo, in Wiesenthal non c’era niente di implacabile. C’erano soprattutto l’autocontrollo e la mancanza di retorica. È stato un testimone la cui storia d’Europa deve gratitudine».

Venne soprannominato la “coscienza dell’olocausto”. Condivide questo appellativo?

«No, perché olocausto è un termine inesatto, dal momento che ad Auschwitz o in campi di sterminio nessuno si offriva in sacrificio rituale. Direi piuttosto che Wiesenthal era un uomo che incarnava lo spirito della shoah. Ha sempre cercato di mantenere viva la memoria di quello che è stato per evitare succeda di nuovo. Perché sapeva che purtroppo non ci sono limiti alla capacità di dimenticare».


Il centro

Un  network globale contro il razzismo

Il centro fondato da Wiesenthal nel 1977 a Los Angeles e che porta il suo nome, è un’organizzazione internazionaledei diritti umani degli ebrei, dedicata a preservare la memoria dell’Olocausto. Il Centro si occupa anche di importanti problemi contemporanei come il razzismo, l’antisemitismo, il terrorismo e il genocidio. Oltre alla base centrale di Los Angeles, esistono altrre sedi a Miami, New York, Toronto, Gerusalemme, Parigi e Buenos Aires. Il decano del Centro oggi è il rabbino Marvin Hier, che ha definito Wiesenthal«il rappresentante permanente delle vittime dell’Olocausto, determinato a portare alla giustizia gli autori del più grande crimine della storia».


La caccia ad Adolf Eichmann

La fuga  

Obersturmbann-fuhrer delle Ss, Adolf Eichmann fu uno dei principali esecutori dello sterminio degli ebrei, in qualità di responsabile della logistica (ossia delle deportazioni nei lager) del Reich. Dopo la guerra riuscì a fuggire grazie alla rete Odessa, l’organizzazione che vantava forti appoggi in Vaticano. Riparato in Argentina, assunse il nome di Ricardo Klement.  

La cattura

Wiesenthal si mette sulle sue tracce. Intercettando alcune cartoline inviate dalla moglie di Eichmann, scopre che si trova in America Latina, e più tardi lo localizza a Buenos Aires. Informa i servizi segreti israeliani, che l’11 maggio del 1060 lo rapiscono e lo trasferiscono in gran segreto in Israele. Processato per genocidio a Gerusalemme, Eichmann viene giustiziato il 1 giugno 1962.  

1100 i criminali  

Grazie al lavoro di Simon Wiesenthal sono stati catturati circa 1100 criminali nazisti che avevano partecipato allo sterminio degli ebrei. Wiesenthal lavorava ricercando informazioni tra i superstiti e negli archivi e spesso passava poi le notizie al Mossad, il servizio segreto israeliano.


La caccia ai nazisti

Franz Stangl (Brasile 1967)

Comandante di Treblinka e Sobibor. È morto in carcere nel 1971.  

Adolf Eichmann (Argentina 1961)

Dieci anni di ricerche hanno portato alla sua cattura nel 1961.  

Hermine Braunsteiner (New York 1968)

Trovata nel ’68 l’aguzzina di Majdanek è stata in carcere dall’80 al ’96.

Karl Silberbauer (Vienna 1963)

La sua testimonianza ha confermato la veridicità del Diario di Anna Frank.  

Il fallimento

Josef Mengele (Morto in Brasile)

Fuggito in Brasile, il medico di Auschwitz è morto nel 1979.  

La ricerca inutile

Martin Bormann (Morto a Berlino)

Segnalato ovunque in realtà è morto nel ’45. il corpo è stato trovato nel ’73.  

Da la Repubblica, 21 settembre 2005, per gentile concessione

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