la Repubblica
Mussolini
giovane razzista
Una nuova ricerca di Giorgio Fabre L’antisemitismo del duce è stato spesso interpretato come una scelta subalterna a Hitler: fa parte invece della sua formazione. Il futuro capo del fascismo assorbe i primi umori antiebraici in chiave socialista e anticapitalista. Gli anni dell”Avanti” e del “Popolo d’Italia”. L’articolo del 1919
di
Simonetta
Fiori
Mussolini
razzista è il titolo d’una nuova e argomentata ricerca di Giorgio Fabre
che contribuisce a demolire la vulgata assolutoria intorno all’antisemitismo
del duce, troppo spesso interpretato come scelta indotta dalla subalternità a
Hitler (Garzanti, pagg. 508, euro 25,00). Già i fondamentali studi di Michele
Sarfatti, Roberto Finzi e Annalisa Capristo dimostrano come le discriminazioni
contro gli ebrei nell’Italia littori abbiano preceduto – e non di poco –
la campagna razziale del Führer. Un antisemitismo meno urlato rispetto alla
propaganda nazista, ma tenacemente praticato nelle accademie come ai vertici
dell’amministrazione dello Stato, nelle università e nelle banche, talvolta
attutito da prudenze e opportunismi, ma con una cadenza progressiva che ora –
grazie agli episodi inediti rivelati dal Mussolini razzista – può
essere anticipata sul finire degli anni Venti. Ma il merito principale
dell’indagine prodotta da Fabre è aver spostato
la lente sulla formazione antisemita del duce, rintracciandone robuste
radici negli anni della sua educazione famigliare e politica, in un’Italia
attraversata anche in zone insospettabili da pulsioni ostili agli ebrei. Ed è
anche con questo che la cultura deve ancora fare definitivamente i conti.
Dall’ accenno ai pallidi giudei – espresso nel 1908 sulla rivista Il
pensiero romagnolo – alla legislazione antisemita del 1938, limpidamente
delineato appare il percorso mussoliniano, anche nei suoi imprevedibili scarti.
Non si trattò, fin da principio, di un antisemitismo esplicito. Piuttosto di
accenni ostili, improvvisi “guizzi” rivelatori d’una insofferenza
sedimentata. Oltre al saggio su Nietzsche, scritto in polemica con l’ebreo
Claudi Treves (in cui il futuro duce sosteneva la pericolosità degli ebrei in
politica), Fabre cita una novella e un romanzo d’appendice apparsi sul
giornale trentino Il Popolo tra il 1909 e il ’10; nella prima vi
compare un rigattiere ebreo provvisto d’un “naso grifagno da semita
autentico”, nel secondo riferimenti irritati alla “legge ebraica”. Tra le
letture preferite dal giovane propagandista socialista figura in quegli anni Cristo
e Quirino di Paolo Orano, personaggio che acquisterà non
secondario rilievo nella campagna razziale successiva: in quel libro l’autore
suggeriva una separazione netta tra mondo della vita (cristiano) e mondo della
morte (ebraico), una sorta di fonte antisemita anche per molti autori di
ispirazione democratica. Episodi minori, questi citati da Fabre, ma
significativi d’una radicata antipatia verso il popolo della diaspora. Un
antiebraismo diffuso all’epoca in diversi filoni politico-culturali, non
ultimo quello socialista, lo stesso in cui militava Mussolini. Tra i più aspri
interpreti, nell’ambito del sindacalismo rivoluzionario, figura Georges Sorel,
e può oggi stupire che anche un ebreo come Angelo O. Olivetti se ne lasciasse
influenzare, pubblicando sulla rivista Pagine libere articoli antisemiti
in chiave anticapitalista. Il futuro capo del fascismo assorbe questi umori
coniugandoli con un’educazione famigliare non del tutto immune da furori
antiebraici. Del padre Alessandro Mussolini, socialista romagnolo, Fabre ricorda
una battuta pubblica contro i deicidi e “le turbe di manigoldi inumani” che
avevano perseguitato Cristo sul Calvario: battuta probabilmente ispirata
dall’antisemita Bakunin, maestro d’anarchia che odiava Marx e gli ebrei.
Anche alla guida dell’Avanti!, assunta nel dicembre del 1912, Mussolini
non rinunciava a stilettate antiebraiche, nell’elogiare testi come Sesso e
carattere di Otto Weininger, nel punzecchiare uomini politici di quella
radice o nell’accusare gli ebrei delle peggiori responsabilità
nell’edificazione del capitalismo. Un’ostilità professata in modo ancor più
esplicito dalla direzione del Popolo d’Italia, il giornale da lui
fondata nel novembre del 1914: contro gli ebrei di Treves, Modiglioni o Sonnino
non lesina battute sarcastiche, ispirate dai soliti pregiudizi sull’avidità
di denaro. Un percorso, questo di Mussolini, non del tutto lineare: rissale a
quegli anni l’amicizia con l’ebrea Margherita Sarfatti e tra i primi
finanziatori de Il Popolo figura il banchiere ebreo Giuseppe Toepliz,
anche se Fabre circoscrive il sostegno economico agli anni successivi alla
grande guerra. Può essere interessante scoprire – in pagine poco conosciute
– il taglio razzistico e discriminatorio con cui la Sarfatti dalle colonne
dell’Avanti! Tratta la questione dei neri e degli asiatici: da una
parte i bianchi (ebrei inclusi), dall’altra i negri condannati ad “assoluta
inferiorità”. Un “razzismo antinero” che può aver affascinato il suo
futuro amante. Risale al 1919 il primo articolo compiutamente antisemita firmato
sul Popolo: il direttore esce allo scoperto, sposando la tesi della
natura ebraica sia del bolscevismo che dell’alta finanza. “Ignorante e
antisemita” lo qualifica Leone Carpi sul giornale democratico L’Italia
del Popolo. Ed è proprio
a quel primo esplicito intervento che Mussolini si richiamerà, sulla
prima pagina del Popolo, il 6 agosto del 1938, alla vigilia delle leggi
razziali (Il razzismo italiano data dall’anno 1919). Una
coerenza quasi ventennale fieramente rivendicata. A quell’intervento
giornalistico faranno seguito altre professioni di antisemitismo, fino alla metà
del 1923. al principio del 1929, l’ideologia razzista si traduce per la prima
volta in atto concreto: molto probabilmente in ossequi al Vaticano, con cui si
sta tessendo il Concordato (vedi box qui accanto). Tra il 1932 e il 1933 le
prime decisioni pubbliche. La macchina persecutoria è avviata. Di grande
interesse anche il capitolo dedicato al modo in cui nel 1938 il Mussolini delle
leggi razziali riscrive la propria storia di razzista. Non senza omissioni e
reticenze: il principale ostacolo è rappresentato dai tagli e dalle censure che
egli stesso aveva apportato precedentemente ai suoi scritti, per distinguersi
nettamente dal nazismo e da Hitler (una prima edizione ufficiale dei suoi
interventi, data 1933, escludeva gli articoli precedenti il 1914). Secondo la
ricostruzione di Fabre, è possibile – proprio assecondando queste censure –
anche i biografi di Mussolini, soprattutto Renzo De Felice, siano stati indotti
a minimizzarne la radice antisemita. L’autore di Mussolini razzista
preferisce valorizzare una seduta del Gran Consiglio, del 6 ottobre 1938, nella
quale il dice si lascia andare: «È dal 1908 che vo’ meditando il problema.
Si potrà occorrendo documentarlo», alludendo al saggetto antisemita su
Nietzsche scritto in polemica con Treves. Dinanzi a una dichiarazione cos’
recisa, commenta Fabre, «risulta davvero incredibile» la tesi di De Felice
secondo cui furono solo alcuni «apologeti della campagna razziale» a
proiettare indietro nel tempo l’ideologia discriminatoria di Mussolini. In
realtà fu egli stesso ad attribuirsene il primato. E se in pubblico il duce si
atteneva alla tesi ufficiale secondo cui il razzismo era un sistema preparato da
tutto il fascismo, non da lui soltanto (dunque da collocare intorno alla nascita
del movimento), nelle occasioni più riservate come le sedute del Gran Consiglio
poteva rivendicarne l’antica paternità. Ben prima del camerati italiani, e
prima dello stesso Hitler. Un maestro del razzismo europeo, non esita a
definirlo Fabre, destinato a essere oscurato dalle atrocità del nazismo.
“Licenziate
quell’ebreo”
Una
lettera del
’29 contro Ugo Del Vecchio
L’episodio
rivelato per la prima volta da Giorgio Fabre riguarda la persecuzione avviata da
Mussolini contro Ugo Del Vecchio, ebreo, direttore della filiale genovese della
Banca d’Italia. Nel febbraio del 1929 il duce chiede al governatore della
Banca d’Italia, Bonaldo Stringher, “l’immediato esonero” dell’alto
funzionario accennando anche alle radici “israelite”. Una fonte aveva
accusato Del Vecchio di “antifascismo e disfattismo”. Stringher convoca Del
Vecchio, il quale respinge l’accusa e – a dimostrazione della propria
assimilazione – assicura d’aver fatto battezzare recentemente
l’ultimogenito. Informato dal Governatore, Mussolini sollecita il prefetto di
Genova di accertare “se sia vero che ultimo figlio direttore locale Banca
d’Italia commendator Del Vecchio sia stato battezzato et in quale Chiesa
cattolica”. Si aspettò questa conferma e – per voce del segretario di
Mussolini, Alessandro Chiavolini – “lo stato d’animo del capo del Governo
nei confronti di Del Vecchio sembrò notevolmente migliorato”. In sostanza, il
capo del governo chiede al prefetto i dati sul battesimo di un bambino di un
anno e mezzo, dopo averne quasi licenziato il padre. Poi la decisione rientra:
certificata l’assimilazione, il commendator Del Vecchio rimane al suo posto.
Ma intanto sia il Governatore che il prefetto di Genova sono stati messi al
corrente dell’intento discriminatorio di Mussolini: anche questo dettaglio non
irrilevante.
Da la Repubblica,
29 giugno
2005