DIARIO di Repubblica
SALÒ
La
riabilitazione impossibile
La
polemica su una legge “revisionista” - An vuole equiparare i repubblichini
agli altri combattenti - Un tentativo clamoroso di recupero dei “valori”
fascisti
Adesso
il neofascismo italiano ha avuto una nuova pensata: equiparare i militi di Salò
ai partigiani attribuendogli la qualifica generica di “belligeranti” cioè
combattenti. Ma come si faccia a stabilire
quanti erano, dove combatterono, contro chi combatterono risulta impossibile
perché quello non fu mai un esercito nazionale ma una congerie di milizie agli
ordini dell’occupante tedesco che non sapeva cosa farsene e ne diffidava.
Nelle istruzioni impartite da Hitler dopo l’otto settembre del 1943 si
stabiliva «una volta per tutte che le truppe italiane non si possono impiegare,
una formazione di combattimento su cui si possa veramente contare non può
essere costituita né da noi né dal nostro alleato Mussolini». E il
maresciallo Keitel capo di stato maggiore della Wermacht concludeva: «Il solo
esercito italiano che non ci tradirà è un esercito che non esiste».
Restituire con la parola “belligerante” una qualità militare a quanti per
forza più che per amore fecero parte delle formazioni armate della Repubblica
di Mussolini non è una cosa seria, è uno dei modi che il neofascismo ha per
far sapere oggi agli italiani di essere tornato al potere o, come usa dire, di
essere stato sdoganato. L’esercito, o quel che passa per tale, della
Repubblica di Salò non è un esercito apolitico che possa essere recuperato da
uno Stato democratico, è un esercito fascista come dichiara in modo esplicito
Mussolini: «Il giuramento di fedeltà alla Repubblica significa non solo
adesione alla nuova forma politica dello Stato, ma adesione al complesso della
dottrina del fascismo. Non ci sono porte socchiuse alle spalle. Chi giura brucia
i vascelli dietro di sé. Il saluto sarà quello romano, le stellette sostituite
da un gladio romano circondato da un fregio di quercia e di alloro». E il
maresciallo Graziani, ministro della Guerra, aggiunge per chiarire ogni
equivoco: «Camerati, di fronte al bolscevismo e alla plutocrazia si erge
purissima, da tre decenni, l’idea fascista». Tanto per dire che
l’iniziativa dell’equiparazione fa parte della confusione opportunistica che
da Fiuggi a oggi è praticata da Alleanza nazionale e dal suo segretario
Gianfranco Fini il quale ora dichiara che il fascismo fu un errore, ma con
qualcosa di buono, e la Repubblica di Salò un grave errore e la persecuzione
degli ebrei un orrore ma ora vuole riabilitare i “belligeranti” di quella
Repubblica, e della sua ideologia simile a quella nazista. Il primo riarmo è
una colossale operazione di trasformismo che Mussolini deve pagare alla casta
militare. Il 1 ottobre del 1943 il maresciallo Graziani al teatro Adriano
gremito di ufficiali lancia il suo appello per la ricostituzione di un esercito.
Per convincere all’adesione si offrono lauti stipendi: ottomila lire a un
colonnello, cinquemila a un capitano, tremila cinquecento a un tenente, duemila
settecento a un sottufficiale quando i salari operai e impiegatizi superano di
poco le mille lire. Aderiscono in sessantamila ma siccome un esercito non esiste
vengono considerati “a disposizione”. Per tutta la durata della Repubblica i
sessantamila percepiranno lo stipendio standosene negli uffici o a casa.
Commenta Mussolini: «Mi risulta che al comando provinciale di Verona prestano
servizio 77 ufficiali superiori e 232 ufficiali. Mi sembrano veramente troppi.
Ho fatto chiedere a Graziani che ci stanno a fare. Dice che sono in attesa di
essere destinati ai reparti. Quali? I reparti sono diventati fluttuanti, come
tante altre cose nella Repubblica». Sono questi i “belligeranti” da
riabilitare? Il giudizio che dà il colonnello tedesco Jandl di questi aderenti
alla Repubblica è: «Il seguito del maresciallo Graziani è composto da
opportunisti che si sono schierati con noi solo perché al momento della resa si
trovavano da questa parte del fronte». Sono belligeranti quelli che rispondono
alle chiamate alle armi del ricostituito Partito fascista e che costituiscono la
Milizia del regime con la Guardia nazionale che si scioglierà l’anno seguente
o gli altri delle Brigate nere o delle compagnie di ventura come la X Mas, la
Muti, la Koch, la Carità, occupate a torturare e fucilare partigiani? Non è
pensabile che neppure il neofascismo più arrogante abbia l’impudenza di
sostenerlo. Le sole formazioni che possano rivendicare una funzione militare
sono le quattro divisioni addestrate in Germania, la Monterosa, la Littorio,
l’Italia, la San Marco, composte con ciò che restava dei centomila uomini che
hanno risposto alle chiamate alle armi. Pochi? Tanti? Pochi rispetto ai
trecentomila delle leve militari, molti se si pensa al fatto che nel 1944 la
guerra era già chiaramente persa per la Germania nazista. Ma si trattava di
giovani nati e vissuti nel fascismo, nutriti della sua propaganda. Ma la
qualifica di “belligeranti”, cioè di combattenti, appare storicamente
esagerata anche per le quattro divisioni se si pensa che il comando tedesco non
si fidava di loro, furono dimezzate al ritorno in Italia dalle diserzioni e poi
impiegate o nelle retrovie o sulle Alpi al confine con la Francia, dove non si
sparò un colpo perché gli alleati sbarcati in Provenza le ignorarono e
risalirono la valle del Rodano sino a ricongiungersi con le divisioni sbarcate
in Normandia. A dire il vero, questi delle quattro divisioni combattenti lo
furono. Ma come rastrellatori feroci di partigiani. Ma è tutta l’iniziativa
di Alleanza nazionale che non va al di là della propaganda elettorale. Il
problema del reinserimento dei militi di Salò nella società civile venne
risolto nel primo dopoguerra, prima con l’amnistia di Togliatti che rimandò
liberi a casa anche i responsabili di delitti e di atrocità, poi con la
formazione del Msi Movimento sociale che li reintrodusse nella politica. Certo
non era pensabile che sarebbero tornati al governo, ma di tanto dobbiamo essere
grati al cavalier di Arcore.
Sillabario – SALÒ
di
Norberto
Bobbio
Per quello che riguarda il collaborazionismo bisogna distinguere fra il collaboratore volontario e quello coatto: il collaborazionismo di quelli che avevano deciso di stare dalla parte della Repubblica di Salò e il collaborazionismo di quanti, per esempio i pubblici impiegati, dovevano collaborare per forza. Non dico che gli italiani fossero filopartigiani, ma certo non erano, nella stragrande maggioranza, filotedeschi. È anche vero che una parte di coloro che entrarono nelle bande partigiane lo fecero perché ritenevano più pericoloso arruolarsi nella RSI che andare in montagna. Molti erano nell’età di leva. Ma in ogni caso non si può mettere sullo stesso piano, come fanno gli storici revisionisti, chi combatteva per liberare l’Italia dai nazisti e chi accettava di perpetuare il dominio di Hitler nel mondo.
Vogliono
una rivincita non la pacificazione
Intervista/
Claudio Pavone analizza il disegno di legge
LA
SENTENZA - Tutto si basa
su una sentenza del 1954 che riconobbe la condizione di belligeranti ai reduci
di Salò e non ai partigiani: fu uno scandalo
di
Simonetta
Fiori
«Finora s’è discusso dei due articoli del disegno di legge, ma sono niente rispetto alla premessa con cui s’argomenta l’iniziativa. Una lettura penosa, che di frequente inclina a un’esaltazione della Repubblica Sociale. Ed è sorprendente che tanto zelo verso Salò sia gradito all’intera maggioranza di centrodestra». Claudio Pavone non è certo sospettabile di agiografia resistenziale. È lo studioso che per primo ha sottratto alla pubblicistica fascista l’uso provocatorio del termine “guerra civile”. Partigiano lui stesso, nel1991 pubblicò un saggio fondamentale, Una guerra civile, che suscitò anche malumore tra qualche ex resistente, proprio perché dirompente rispetto alla retorica celebrativa. Oggi, nello scorrere il disegno di legge che vuole riconoscere ai reduci di Salò la condizione di “militari belligeranti”, scuote spesso la testa. «Dicono di volere la pacificazione, mentre il sentimento che li anima è quello della rivincita: uno stato d’animo favorito dall’attuale congiuntura politica».
Professor
Pavone, cosa non la persuade?
«Moltissimi
argomenti, ma procediamo con ordine. Dia un’occhiata al titolo del disegno di
legge: fa esplicito riferimento a quanti “prestarono servizio militare dal
1943 al 1945 nell’esercito della Rsi”. Parrebbe dunque che l’iniziativa
debba limitarsi ai soldati chiamati da Rodolfo Graziani nell’esercito
cosiddetto “regolare”: metta però regolare tra virgolette, perché in
realtà era la formazione di un governo illegittimo».
E
invece?
«E
invece nella relazione e nell’articolo 1 della legge si usano espressioni più
ampie, come “reduci di Salò” o “i soldati, i sottufficiali e gli
ufficiali che prestarono servizio nella Rsi”. Questo significa che conquistano
dignità di militari belligeranti anche le Brigate Nere, la X Mas, la Legione
Muti di Milano, la Guardia nazionale repubblicana, le forze armate di polizia e
tutte le altre formazioni al servizio della Rsi. Se andiamo a vedere la
direttiva del duce del 21 giugno 1944 si legge che “a datare dal primo luglio
le strutture politico-militari del Partito devono trasformarsi in un organismo
esclusivamente militare” che viene a costituire “il corpo ausiliario delle
squadre d’azione delle camicie nere”. Altro che esercito “regolare” di
Graziani: agì una vera e propria milizia di partito, capace delle peggiori
efferatezze».
Grazie
alla nuova legge il bandito Mario Carità potrà essere annesso tra i
belligeranti.
«Non
solo. Come lui molti altri aguzzini, responsabili di quel campionario di
atrocità ricordato l’altro ieri sulla Stampa da Giovanni De Luna: una
ferocia talvolta gratuita, esercitata anche contro i civili».
Una
continuità che evidentemente resiste, se la sentenza viene radicalmente
recepita dai parlamentari del centrodestra.
«Su
ricorso del comandante della legione Tagliamento e di altri, condannati per
l’assassinio di centodue partigiani, il Tribunale allora riconobbe la
condizione di belligeranti ai reduci di Salò, negandola invece alle formazioni
partigiane: perché non mostravano segni distintivi riconoscibili a distanza, e
perché non portavano apertamente le armi».
Una
bizzarria.
«Una
vicenda avvilente, che però si faceva scudo di un discutibile articolo della
convenzione dell’Aja: dimostrazione anche questa di come sia arduo tradurre in
norme giuridiche, pur indispensabili, i grandi problemi
storici etico-politici o le grandi tragedie dei popoli. Se si dovesse prendere
come criterio di giudizio storico questa disposizione
In
sostanza: la proposta di legge in discussione al Senato fa propria una sentenza
militare di 50 anni fa per la quale gli uomini della Rsi erano i veri
combattenti, mentre i partigiani non possono essere riconosciuti tali.
«Sì,
un radicale capovolgimento. Per dirla ancora più chiaramente: vengono
riproposte le vecchie tesi della propaganda ufficiale di Salò, spacciate
peraltro come nuova verità storica. È anche in nome di questa distinzione che
i partigiani venivano trattati come banditi, torturati e i loro cadaveri erano
poi esibiti sulla pubblica piazza».
Colpisce
anche il passaggio della sentenza, recepito dai senatori di An firmatari della
proposta, in cui si afferma che i repubblichini si conformavano “per quanto
possibile” alle leggi e agli usi di guerra.
«Significa
dimenticare eccidi, stragi, stupri, impiccagioni con ganci da macellaio,
rappresaglie e violenze perpetrate contro i civili inermi. Ma se si legge bene
il testo della relazione, c’è forse qualcosa di ancora più grave: là dove
si rivendica piena legittimità politica e morale alla Repubblica Sociale,
definita il prodotto “non di una ribellione di pochi ma di imponenti masse”.
È sempre il giudice militare che parla: ma è discutibile che alcuni deputati
della nostra Repubblica lo accolgano come oro colato».
Siamo
oltre le motivazioni solitamente addotte in difesa dei “ragazzi di Salò”:
l’ardore patriottico, la
buona fede, il coraggio.
«Sì,
i firmatari del disegno di legge sembrano accogliere le tesi degli estremisti
del Movimento Sociale. Può sorprendere che vi sia il consenso di tutto il
centrodestra. Stando alle loro motivazioni, la vera Resistenza in Italia in
quegli anni fu fatta dalla Repubblica di Salò, nata da una sana ribellione
contro i traditori dell’8 settembre».
Il fascismo morente divenne terrorista
La
simbologia di un regime con il culto della guerra
di
Paolo
Viola
In principio del fascismo c’era la guerra, senza la quale non sarebbe nato: la prima guerra mondiale, questa grande levatrice di tutti gli orrori del Novecento. La camicia nera, i lugubri gagliardetti, i teschi, i simboli di morte, della “bella morte” in combattimento, ultimo rigurgito di una stagione romantica passata attraverso il viaggio in fondo alla notte del massacro collettivo. Marinetti aveva esaltato la morte per la guerra di Libia: «O sentieri dell’oasi, dove abbonda la morte» e invidiato i centomila italiani che in quei sentieri erano stati spediti, per «l’esaltante intimità dei proiettili», i «proiettili-sorci» che sfilavano stridenti nelle «magnifiche fogne della battaglia». Poi i simboli del regime, sempre roboanti, avevano perso l’aspetto mortuario: aquile romane, fasci littori, cerchi di fuoco in cui saltare, fra il ginnico e l’imperiale. Il moschetto e la baionetta non erano certo andati in pensione, e neppure la camicia nera, ma avevano perso un po’ della loro estetica drammatica, del loro smalto mortuario, integrati in grandi parate e sfoggio di giovanili muscolature, ordinate manifestazioni di massa, adunate oceaniche, il cui senso era la vitalità della conquista più che un messaggio funereo di morte scambiata in combattimento. Alla fine del fascismo la morte ha ripreso il sopravvento. Salò è stata un’orgia collettiva di guerra a guerra persa, di sangue di combattenti e di popolazione civile versato a fiumi per placare le divinità della morte. Che la guerra fosse al finire era chiaro a chiunque, coi tedeschi in ritirata su tutti i fronti, la resistenza all’attacco in mezza Europa, l’Italia già liberata per metà, le truppe nazifasciste sempre più composte di adolescenti esaltati, a volte terrorizzati. Ora si dice “combattenti di una parte e dell’altra”, ma i militi di Salò assomigliano di più ai terroristi: adulti e adolescenti rapiti dal culto della morte, che disprezzano le civiltà amanti della vita, folli militanti del terrore, esaltati artefici di vendetta contro un complotto immaginato ai danni dei loro principi più intangibili. Il fascismo morente, divenuto terrorista, kamikaze di una guerra perduta e carnefice di civili, riprese a esaltare i simboli della sua nascita, i lugubri simboli di bella morte da cui aveva cominciato. Ma al posto del manganello c’era ora il mitra, e invece dell’olio di ricino le popolazioni massacrate a fianco delle SS. Il fascismo è nato ed è morto con la guerra. Della guerra è stato il prodotto più implacabile, come il nazismo tedesco di cui è stato modello e alleato. I suoi simboli di morte sono stati la sua espressione più conseguente e veritiera, come la svastica per i nazisti: la sacra morte, l’arcaica morte da cui non nasce il futuro, ma il ritorno al passato.
Memorie
tristi di un repubblichino
La
testimonianza di uno scrittore
di
Carlo
Mazzantini
Al Cinema Teatro Manzoni, a via Urbana a Roma, il pomeriggio dell’8 settembre 1943 davano “La Cena delle beffe”, con Amedeo Nazzari, Osvaldo Valenti, Clara Calamai. A un certo momento, la proiezione fu interrotta. Uscimmo fuori e nell’osteria lì di fronte, dove si era riunita una piccola folla, la radio stava trasmettendo il proclama del maresciallo Badoglio che annunciava l’armistizio con gli anglo-americani. Da quel gruppo di persone si levò qualche battimano, qualche grido di gioia per la Pace, ma in breve l’allegria si trasformò in penosa incertezza. Io non avevo ancora compiuto diciotto anni, e tornai a casa piangendo. L’epoca in cui ero nato, in cui ero stato educato, in famiglia, nella scuola, nelle piazze, dai giornali, la Radio, le grandi adunate, al culto della Patria, si era chiusa in quel modo: nella sconfitta. Il mattino seguente ero alla finestra in attesa che mia madre tornasse dal bar-latteria con il suo mezzo litro di latte per la colazione. A un certo punto, il gruppetto di donne che aspettavano il loro turno fuori dalla porta entrò in agitazione. Vidi mia madre correre verso casa, agitando le braccia, la sua bottiglia vuota. Si lasciò cadere sulla cassapanca dell’ingresso, il viso sconvolto: «Il re è scappato!». Poi mi raccontò la disperazione delle donne a quella notizia: «Anche il padre ci ha abbandonati. Chi li difenderà ora i nostri figli?». Mia madre, di figli, ne aveva due sotto le armi. Il 10 settembre, i tedeschi, dopo scontri armati con i nostri granatieri e reparti della divisione corazzata Ariete, entrarono in Roma. Ebbi modo di parlare con qualcuno di quei carristi, avviliti e demotivati e udii il parlottare degli ufficiali raccolti attorno al loro maggiore. Che si doveva fare? Chi era in comando?. Chi dava ordini, se c’erano ordini? Arrivò un motociclista da via dell’Impero, parlò con il maggiore. Partì l’ordine di salire sui carri. Prima di chiudere il portellone del suo mezzo il maggiore si strappò dal giaccone di cuoio i suoi gradi d’ottone e li scagliò sul selciato. Rombando i carri si avviarono verso via dei Trionfi deserta. Poco dopo sentimmo il rombo dei cannoni. Il pomeriggio incontrai sotto casa un gruppo di civili armati di fucili ‘91 che gridavano, nel silenzio del quartiere, di correre a Porta San Paolo. Fra di essi un amico di mio fratello maggiore. Mi gridò: «Vado a difendere Roma!». Si chiamava Marcello Munno, abitava in via Machiavelli. Seppi più tardi che nel febbraio del ‘44 fu ferito ad Anzio, marò del battaglione Barbarigo della X Mas. Il re era scappato. Nel giro di qualche giorno, l’esercito italiano, demotivato, senza ordini né ragioni per battersi si era dissolto. Con qualche coetaneo conosciuto in quei giorni ci aggiravamo, con il cuore sotto le scarpe per le strade della città. Nell’animo il sentimento della vergogna, della fuga, la diserzione, il tradimento. Era questo che dovevamo accettare, questo l’avvenire che quegli adulti che ci avevano guidati nelle adunate, ci avevano insegnato canzoni guerriere, ci avevano dato armi per marciare fra battimani e fanfare e ci apparivano ora così miseri e vili, ci avevano riservato. Ci prese un soprassalto di vergogna e di rifiuto. No, noi non accettavamo quella sorte. Noi, quei cinque ragazzi conosciutisi in quei giorni, avremmo continuato a combattere a fianco degli alleati insieme ai quali i nostri fratelli maggiori avevano combattuto per più di tre anni. Nell’anticamera di quel capitano tedesco, Hauptmann Tannert, al Viminale, il 12 settembre, vedemmo giungere a gruppetti altri coetanei, fino a venti. Anch’essi non erano stati chiamati da nessuno, non avevano risposto a nessun appello. Il capitano, in un ottimo italiano, ci disse che l’Italia non c’era più, non c’era più Stato, capo dello Stato, esercito, non c’era più niente. Che volevamo? Ci consigliò di tornarcene a casa ai nostri studi. Guido Fasolo, studente universitario, che avevamo pregato di rappresentarci disse: «A noi non ci importa degli altri. Noi vogliamo essere inviati al fronte». Allora il capitano Tannert si fermò davanti a ciascuno di quei ragazzetti, batté i tacchi e dicendo Bitte ci strinse la mano uno per uno. Fummo aggregati ai resti di un battaglione di Camicie Nere che all’inizio dell’inverno fu inviato a Vercelli per l’addestramento e per ricostituire gli organici della Legione così da poter diventare una unità operativa e andare al fronte. Il 20 dicembre del ‘43, a Borgosesia dove eravamo stati inviati per una sfilata dimostrativa, due giovani camerati, Enzo Landi e Gianni Tartaglio, ambedue diciannovenni e reduci dal fronte russo, furono proditoriamente uccisi da partigiani comunisti della prima banda di Cino Moscatelli. Ecco, questo era qualcosa che assolutamente non avevamo previsto: combattere contro altri italiani il giorno successivo, per rappresaglia, un plotone di volontari fucilò sulla piazza della città dieci ostaggi, fra cui il podestà di Varallo, Giuseppe Osella, ex squadrista, sciarpa littorio, Marcia su Roma, che aveva inviato aiuti di armi e danaro a quella prima formazione comunista. Con quei fatti iniziò guerra civile in Valsesia. Una schifosa catena di uccisioni, rappresaglie, massacri, fucilazioni. Il 25 aprile del ‘45 ero a Milano alla segreteria del Partito fascista repubblicano. Vidi fuggire Mussolini, Alessandro Pavolini e gli altri membri del Governo repubblicano, dietro l’assurda chimera del ridotto della Valtellina. Fu il nostro otto settembre. Il giorno successivo, dopo uno scontro a fuoco, fui catturato con altri tre giovani camerati, da una formazione di Giustizia e Libertà. Fui più volte condotto al muro per essere fucilato sospinti da una folla che ci gridava: «Mercenari! Carne venduta ai tedeschi!». Oggi le mie convinzioni sono ben lontane da quelle degli eredi di Salò. Per quanto riguarda quel momento sono queste: «Si può scegliere la strada sbagliata per nobili motivi e quella giusta per calcolo o opportunismo».
Da la Repubblica,
18 febbraio 2005