la Repubblica
Linea di confine La Shoah messa in lista d'attesa
di Mario Pirani
Ancora
qualche osservazione sull'antigiudaismo cristiano, che secondo alcuni non
avrebbe nulla a che vedere con la Shoah, sulla percezione post-bellica del
Genocidio, che sarebbe rimasto un non-evento fino agli anni Sessanta, sulla
inammissibilità quindi, di giudizi critici circa i comportamenti di Pio XII e
di tante altre personalità, prima di quella tardiva svolta. Svolta definita da
autorevoli opinionisti del Corriere come "concettualizzazione" dello
sterminio. Prima, semplicemente, esso "non esisteva", ribadisce, a
esempio, sulla scia di molti altri interventi, Giovanni Belardelli (12 u. s.)
basandosi anche sul fatto che i manuali scolastici del tempo vi dedicavano
"poche striminzite righe". Di qui la confusione, in cui il
sottoscritto sarebbe caduto (vedi ultima "Linea di confine"), parlando
dell'orrore del mondo civile subito dopo la scoperta di Auschwitz, quando,
invece, "si trattava di reazioni diverse da quelle odierne... e quel
sentimento di orrore non attribuiva al genocidio ebraico la peculiare epocalità
che noi oggi gli riconosciamo". Il dibattito, lo ricordo per chi non ne sia
al corrente, si è aperto con la pubblicazione sul Corriere dell'estratto di un
documento vaticano del 1947, che ribadiva il rifiuto della Chiesa di
riconsegnare ai parenti sopravvissuti o alle organizzazioni israelitiche i
bambini ebrei battezzati mentre erano nascosti nei conventi o presso famiglie
cattoliche per sfuggire alla deportazione. Le opinioni espresse in proposito
hanno di gran lunga travalicato questo punto specifico, con notevole confusione
tra giudizio etico e giudizio storico, tra "concettualizzazione" e
realtà degli eventi. I quali, nell'ottica di una caricatura paradossale
dell'idealismo, sarebbero semplicemente "non accaduti", confinati in
lista di attesa per essere, a tempo e luogo, "concettualizzati". Tesi
non tanto innocua perché, se non si era in grado negli anni Trenta e Quaranta
di identificare le persecuzioni culminate nella Shoah, che costituirono la
cifra identitaria della criminalità hitleriana, non si sarebbe neppure dovuto
a quei tempi condannare il nazismo. E, di conseguenza, azzardare un giudizio
critico sui comportamenti coevi di quei "figli del loro tempo" che
(come Pio XII) assunsero una posizione di ambigua reticenza, poiché altrimenti
si rischierebbe di mettere "dalla stessa parte Eichmann e papa
Pacelli". La discussione mi sembra ormai insensata per cui tenterò di
puntualizzare almeno la mia posizione (scontando l'epiteto di "rozzo",
già attribuitomi la scorsa settimana da l'Avvenire, organo della Conferenza
episcopale).
1)
Sarebbe indegno annoverare Pio XII tra gli artefici della Shoah. Furono per
contro migliaia e migliaia (tra cui chi scrive) gli ebrei che scamparono alle
deportazioni grazie all'aiuto di coraggiosi sacerdoti che certamente non
avrebbero offerto la loro solidarietà se il Pontefice fosse stato di contrario
avviso. Quest'opera segna la premessa anche emotiva per quel nuovo rapporto
ebraico-cristiano reso possibile dai suoi successori quando affrontarono la
revisione teologica della responsabilità del popolo d'Israele nella morte del
Messia e chiesero perdono delle sofferenze infertegli. Ciò nulla toglie al
giudizio storico su quelli che Giovanni Miccoli definì "I dilemmi e i
silenzi di Pio XII" (Rizzoli) che segnarono il suo pontificato fin da
quando (marzo 1939) archiviò in segreto l'Enciclica Humani generis unitas che
il suo predecessore aveva approntata per stigmatizzare la persecuzione
antisemita.
2)
Quanto alla percezione della Shoah è vero che essa subì un processo duplice:
mentre i sopravvissuti, i testimoni della tragedia, le persone assetate di
giustizia mobilitarono tutte le loro energie per diffondere la conoscenza di
quanto era avvenuto, molti governi, per motivi diversi, preferirono un basso
profilo: Washington già pensava al riarmo tedesco, Stalin preparava i processi
dei "deviazionisti cosmopoliti", alias sionisti, Londra non voleva
irritare vieppiù gli arabi. In Israele, infine, dove certo nessuno sospendeva
il giudizio in attesa della "concettualizzazione", ci volle tempo per
elaborare collettivamente un lutto che restava irreparabile: un inespresso senso
di colpa di quanti erano sopravvissuti allo sterminio coesisteva con una specie
di vergogna sionista per la remissione dimostrata dalla diaspora europea. Non è
un caso che nei primi anni a Tel Aviv si celebrasse solo la rivolta del ghetto
di Varsavia. Ma tutti questi sono temi di indagine storica, non di assoluzione
etica e neppure politica sia per gli atti compiuti che per le omissioni. Tutti
erano ormai consapevoli dell'immensità della tragedia.
Da la Repubblica, 17 gennaio 2005, per gentile concessione