la Repubblica
Memoria degli scampati
Gli
spettri del soldato Yakov
di
Giampaolo Visetti
«Una mosca nell'ombra, avvertii una presenza. Strisciava nel fango, davanti a me. Si voltò e apparve il bianco di occhi enormi, dilatati. Tacemmo: da lontano ci investiva l'eco smorzata degli scoppi. Tra i due, solo io sapevo che erano i colpi dell'artiglieria tedesca in fuga. Pensai ad uno spettro, mi assalì il dubbio di essere stato colpito, magari ucciso. Non sognavo, ero di fronte ad un morto vivente. Dietro a lui, oltre la nebbia scura, intuii decine di altri fantasmi. Ossa mobili, tenute assieme da pelle secca ed invecchiata. L'aria era irrespirabile, un misto di carne bruciata ed escrementi. Ci sorprese la paura di un contagio, la tentazione di scappare. Non sapevo dove fossi sbucato. Un commilitone mi disse che eravamo ad Auschwitz. Abbiamo proseguito, senza una parola».
Yakov
Vincenko ha 79 anni ed è
uno degli ultimi liberatori sopravvissuti dell'Armata Rossa sovietica. Raggiunse
il campo di sterminio con la divisione di fanteria numero 322, Fronte ucraino.
Aveva 19 anni. Venti mesi prima era stato ferito nella battaglia di Kursk, quasi
due milioni di soldati russi uccisi dai nazisti. «Ho passato il primo filo
spinato alle 5 di mattina - racconta - era buio, sabato 27 gennaio 1945. Non era
gelido, solo tracce di neve marcia. La sera prima, nella notte, il combattimento
aveva preteso molte vite. Temevo i cecchini lasciati di guardia. Al riparo di un
bidone ho visto il maggiore Shapiro, un ebreo russo del gruppo d'assalto della
centesima divisione, spalancare un grande cancello. Dall'altra parte un gruppo
di vecchi minuti, ma erano bambini, ci ha sorriso». Solo dopo anni ha appreso
di aver assistito allo schiudersi dell'ingresso dell'inferno, sotto la scritta
"Arbeit macht frei". «Mi sono alzato per avanzare. Ho guardato nel
bidone: era colmo di cenere, emergevano frammenti di ossa. Non ho capito che
erano resti di chi era stato là dentro». Poco prima dell'alba, il giovane
militare russo Vincenko entra in un campo di prigionia in Polonia. Nel buio gli
viene incontro un gruppo di "scheletri viventi". Per un attimo teme di
essere morto, di stare già all'inferno. Pensa di scappare. Non lo fa, va avanti
e scopre l'orrore di Auschwitz. Yakov Vincenko, sessant'anni dopo, è seduto ad
un tavolo nella sede del comitato dei veterani di guerra, nel centro di Mosca.
Sopra di lui i ritratti di Marx, Lenin, Stalin e del generale Zhukov. «Un tipo
con cui era meglio non discutere - dice - Stalin gli aveva ordinato di non
risparmiare soldati. Lui ha onorato l'impegno». È ancora un uomo asciutto,
rigido ed eretto sopra stivaletti con un certo tacco: quando cammina è
costretto a procedere spedito. Veste come un povero, gli abiti lisi sembrano non
appartenergli. Tra pochi giorni sarà a Cracovia e tornerà alla polacca
Oswiecim. Alla commemorazione della liberazione del campo di sterminio, assieme
a 48 capi di Stato e ad una folla di anonimi, andrà con gli ultimi due compagni
d'armi: uno vive a San Pietroburgo, l'altro a Minsk, in Bielorussia. Non è la
storia dalla parte dei liberatori: l'orrore piuttosto, osservato con gli occhi
stanchi e spaventati di soldati che non poterono riconoscere la sua dimensione.
«Mi hanno chiesto di ricordare ancora - dice - ma invecchio e il mio passato si
confonde. Scopro sui libri attimi che ho vissuto e mi sorprendo. L'emozione però
non accetta di liberarmi. È la seconda volta che riesco a tornare nel campo,
non è un viaggio che si esaurisce in una visita. Un'ex internata ebrea mi ha
scritto di lasciare un sasso per lei: non ha mai trovato la forza di rivedere la
baracca e il forno crematorio che hanno inghiottito la sua famiglia». Il
vecchio soldato, una pensione di guerra da 60 euro al mese, sul fronte
occidentale russo ci finì per caso e quasi bambino. Sorte e adolescenza rubata,
incoscienza, hanno condotto i suoi passi nel labirinto dell'Olocausto, ancora
ignorato. «Era l'estate del 1941 - racconta - e vivevo a Mosca. Finita la
scuola, fui mandato dai genitori a Vinnitza, in Ucraina, il nostro villaggio
natale. Avrei dovuto aiutare il nonno in campagna. Due settimane dopo, per non
lasciare ai tedeschi nemmeno i ragazzi, mi precettò l'Armata Rossa. Giochi,
sogni, progetti, sono crollati in un giorno: a 15 anni mi sono ritrovato
soldato, una baionetta del 1891 in spalla e le granate che ci stavano nelle
tasche. Ero fortunato: l'esercito sovietico era così sguarnito che solo uno su
quindici aveva il fucile. Per questo mi sono salvato». Quattro anni tragici,
tra disperazione, fame e attesa della fine. L'armata nazista avanzava verso il
cuore dell'Urss. L'assedio a Leningrado, il massacro alle porte di Mosca: e
Hitler che, fino alla disfatta di Stalingrado, sembrava inarrestabile. Yakov
Vincenko sparò il suo primo colpo a Voronezh nel 1942, agli ordini del generale
Vatutin. «Nessuno mi aveva spiegato come comportarmi. Il Fronte ucraino era
un'armata di bambini, spinta avanti per localizzare i nemici e consumare le
munizioni dei tedeschi. Dopo otto mesi di resistenza nel sud della Russia, siamo
avanzati verso l'Ucraina. Dai tre ai venti chilometri al giorno: a Kursk, a Kiev
nel 1943, in Galizia e infine a Sandomir in Polonia. Nell'autunno del 1944 ormai
il morale era cambiato, i nazisti erano in rotta. Quando abbiamo conquistato
Cracovia, ai primi di gennaio del 1945, i generali ci dissero che se riuscivamo
a sopravvivere ancora pochi mesi, saremmo tornati a casa».
Il
ritorno a casa
Non
finì così. L'Unione Sovietica aveva perduto tra i 25 e i 30 milioni di
persone, l'esercito era decimato. Vincenko, ormai un uomo ferito quattro volte,
il 9 maggio apprese di essere un vincitore a Praga: ma a casa è tornato sette
anni dopo, non trovando più qualcuno ad aspettarlo. «Quel giorno ad Auschwitz
- dice - è diventato centrale nella mia vita solo quando anche il mondo ha
elaborato una coscienza della verità e della vergogna. Nemmeno noi, che abbiamo
visto, ci volevamo credere. Ho sperato per anni di riuscire a dimenticare: poi
ho capito che sarebbe stato comportarsi da colpevole, diventare complice. Così,
ricordo. Non sono riuscito a comprendere come sia potuto succedere, ma a chi
nega l'Olocausto dico: credete a me, che quando ero lì ho cercato di
convincermi che non fosse vero». Le truppe di Stalin non sapevano cosa fosse un
campo di sterminio. Solo gli alti comandi, a Cracovia, erano stati informati di
trovarsi sulla strada del Lager di Auschwitz-Birkenau. Il 18 gennaio, alla
vigilia dell'offensiva, gli ufficiali sovietici appresero che dal campo era
stata fatta partire una colonna di 80mila prigionieri, scortata dai nazisti
verso la Germania. Da dicembre, Himmler aveva ordinato di cessare le esecuzioni
e di demolire le camere a gas. «Tra noi e le baracche - racconta Yakov Vincenko
- si frapponeva una tripla linea di difesa tedesca. Dovevamo superare la Vistola
e il fiume Sola, i ponti e i campi erano minati. Il 25 gennaio il generale
Fiodor Kravasin fece avanzare fucilieri e carristi, rinforzati da un gruppo
d'artiglieria. Sono morti a centinaia, costruendo ponti di legno nella corrente.
Una resistenza tanto accanita, da parte dei nazisti in ritirata, ci sembrava
insensata». I vertici delle "SS" avevano dato ordine di distruggere
le prove del genocidio, di sterminare gli ultimi testimoni della "Soluzione
Finale". «Sapemmo poi - prosegue Vincenko - che la notte prima
dell'assalto un ufficiale tedesco, dopo la cattura, aveva confessato ai nostri
che il forno crematorio di Birkenau era pronto per saltare in aria. Il maggiore
Malenko, con due artificieri, due elettricisti e una pattuglia di esploratori,
evitò che esplosioni e fiamme cancellassero forni, camere a gas, baracche e
fosse comuni». Non è stata invece eroica la liberazione di Auschwitz del
soldato semplice Yakov Vincenko. «Dopo la mezzanotte del 27 gennaio fui
svegliato e buttato avanti. Camminavo alla cieca, spinto da sonno e paura: non
mi sono nemmeno accorto di essere entrato nei 40 chilometri quadrati occupati
dai 39 campi di lavoro, detenzione e sterminio del complesso di Auschwitz,
Birkenau e Monowitz».
L'ordine
ufficiale era di non fermarsi, si inseguire i tedeschi per farli arretrare. «Il
comandante della prima compagnia, Maksim Ciaikin - ricorda il vecchio reduce -
fu centrato da una raffica esplosa da una torre di avvistamento. Seguì un
sanguinoso fuoco a corta distanza. Poi il silenzio, quasi fossimo penetrati nel
vuoto. Per mezz'ora, passati i reticolati e fino al cancello, ho camminato da
solo e nel fango. Non era giorno quando ho incontrato il primo morto vivente ed
è stato meglio così». Ora cita a memoria i numeri dell'Olocausto di
Auschwitz, avvertendo della sua incertezza: 1 milione e 300 mila morti, o 3
milioni, o 6 milioni, ancora non sa. Nove su dieci erano ebrei: gli altri
zingari, omosessuali, prostitute. Fino a 5 mila vittime al giorno, con i forni a
pieno regime. I 600 evasi in quattro anni, 400 dei quali ripresi, impiccati
davanti ai compagni dopo essere stati costretti a marciare a ritmo di musica
sotto il cancello principale. Al collo un cartello: «Evviva, sono tornato». «Ma
io - dice Vincenko - ho incontrato solo spettri. Quando siamo entrati, nel campo
restavano 17 mila prigionieri».
I
bambini nelle baracche
«Donne, bambini, malati: erano incapaci di muoversi, per questo erano stati abbandonati nelle baracche. I tedeschi non avevano avuto il tempo di ammazzarli tutti. C'era una puzza asfissiante, l'odore dolciastro e acre della morte che ancora mi pare di sentire. Sono passato davanti a scheletri accovacciati nella melma gelata. Non parlavano, mi seguivano con sguardi di terrore. Gli ultimi giorni, per fare in fretta, i nazisti li fucilavano a migliaia sul bordo delle fosse comuni. Poi bruciavano tutto. Così sono stati inceneriti anche 29 su 34 depositi di beni sequestrati ai deportati. Ho aperto le porte di quattro baracche: in ognuna 24 persone, polacchi, russi, francesi, tutti ebrei. Erano stesi, moribondi: qualcuno pregava, credevano li ammazzassi. Sulla tuta a righe, esibivano la scritta "Ost", o la stella di Davide. Uno mi mostrò un numero tatuato sull'osso di un braccio. Le assi erano coperte di stracci ed escrementi, si soffocava. Non posso dire di aver percepito felicità, mentre dicevo loro che erano liberi. Li vedevo sollevati, gli occhi si riaccendevano: ma non avevano la forza di reggere una gioia». Fu uno dei mattini più disperati del mondo. Solo la vaghezza contingente della realtà salvò i liberatori dall'abisso della Shoah. «Non avevamo tempo per sostare, i sopravvissuti erano allo stremo, la maggioranza non parlava russo. Alcuni francesi mi hanno seguito per scappare, un gruppo di ebrei polacchi si è dileguato tra gli alberi, accennando una corsa. Una bambina mi si attaccò ai pantaloni, credo per cercare cibo. Il tenente maggiore Subotin mi avvertì che potevo contrarre qualche virus, ero spaventato. Sapevo che stavano arrivando gli ufficiali medici e le cucine da campo: la lasciai lì, mi vergogno. Ancora la penso, mi chiedo se sia stata salvata, come altri 2.819 detenuti, se sia vissuta e come, se l'esistenza le abbia riservato un risarcimento: e se ricorda il soldato sovietico, poco più grande di lei, che non ha avuto il coraggio di prenderla in braccio». Yakov Vincenko si ferma e tace, restando a guardare con un sorriso ambiguo. Dopo una pausa, simile alla ricerca abituale di un'espiazione, aggiunge che però non esistono parole per descrivere, che non l'aveva mai fatto prima. E che l'esultanza, la sicurezza degli eroici liberatori sovietici, la riconoscenza dei sopravvissuti liberati, l'ha scoperta soltanto nei film. «La verità è che quel 27 gennaio nessuno di noi soldati si rese conto di aver varcato un confine da cui non si rientra, e che i prigionieri non seppero raccontare. Era chiaro che su Auschwitz incombeva qualcosa di terribile: ci chiedevamo a cosa fossero servite centinaia di baracche, quelle ciminiere, certe stanze con le docce che emanavano un aroma strano. Pensai a qualche migliaio di morti, non allo Zylkon B e alla fine dell'umanità». Era mezzogiorno quando il comandante Lebedev alzò la bandiera rossa sopra il cancello di Birkenau. Yakov Vincenko era già lontano, sette chilometri più avanti, alle porte della cittadina di Oswiecim per braccare i tedeschi e strappare loro i prigionieri. «Solo allora - dice - un gruppo di bambini sciamò da una baracca che sembrava vuota e osò gridare "libertà, libertà" nel campo semideserto. La sera me lo raccontò un compagno, ucciso poi sull'Oder, al mio fianco. Ma io quelle grida non le ho sentite, ad Auschwitz non ho incontrato vita, o la speranza. E nella notte mi sono lavato la divisa. L'unica volta, da quando mi sono svegliato in guerra».
L’amore
al tempo del ghetto
di
Paolo
Rumiz
In
mostra a Londra le foto inedite della comunità ebraica di Lodz, scattate da
Henryk Ross. Sono gli anni della Shoah eppure in quelle immagini si colgono
brandelli di serenità e speranza strappati alla tragedia che incombe. Come
racconta una testimone
straordinaria: Lala Lubelska,
che da Lodz è finita ad Auschwitz e a Mauthausen. Ed è riuscita a
sopravvivere.
Badia
Polesine - «Ho
dato il mio primo bacio ad un ragazzo nel vagone piombato per Auschwitz. Avevo
diciott’anni, era l’agosto del ‘44. Non so che nome avesse, ma era biondo
e aveva un dente storto. Venivamo entrambi dal ghetto di Lodz, lui era
portalettere e mi faceva la corte. Eravamo magri e incoscienti. Il coraggio di
toccarmi gli venne allora, in mezzo a tutta quella gente, in un viaggio senza
ritorno. Non ho più saputo niente di lui». Ha 78 anni Lala Lubelska, ebrea
polacca e testimone-chiave della Shoah per gli archivi Spielberg. Alla sua età
accetta la fatica della memoria a una sola condizione. Insegnare ai giovani che
la vita è bella. Per questo va a parlare nelle scuole,
e per questo, come Benigni, non narra solo Auschwitz, ma anche l’amore al
tempo della morte; nel lager o nella trappola per topi del ghetto. Perché è
stato proprio l’amore, rubato in un campo di lavoro, a cambiarle la vita nel
‘45. Amore di un veneziano, un prigioniero che le ha sorriso e donato un pane.
L’uomo che poi ha sposato, per restare da allora nella nebbia della Padania.
Piccola, serena nella voce, occhi azzurri affamati di vita, oggi Lala è la
nonna delle fiabe. «Ebrea fifty-fifty si autodefinisce, per aver sposato un
cattolico. Le piace ancora ballare, cucinare per gli ospiti una zuppa detta
Czulent o le polpette di pesce alla gelatina, nella tradizione israelita di
Polonia. Scodella una torta all’amaretto, versa del moscato. È una sera di
fantasmi e brina, tabarri e grappini, con la nebbia pesante del Polesine che
bussa sui vetri, ma nonna Lala ha il sole dentro. Sorride e racconta il suo
straordinario «c’era una volta». Erano note per la loro bellezza le tre
sorelle Lubelska. Arrivarono insieme ad Auschwitz e quando le altre due, Kika e
Kuka, che erano pure gemelle, furono convocate davanti al dottor Mengele per i
suoi sadici esperimenti nell’infermeria degli orrori, questo le mandò via
infastidito perché troppo «ariane». Erano alte, bionde e con gli occhi
chiari: non rientravano nei suoi schemi. «Voi non siete ebree», disse l’uomo
che torturava i gemelli e sognava di rendere eterno il Reich clonando l’uomo
ariano. Guardiamo insieme le foto di Henryk Ross. Mostrano vite normali, coppie
che si baciano nei giardini, feste di compleanno. Lala è allibita. «No, no,
tutto questo non c’era. Almeno io non l’ho mai visto. Io non ho conosciuto
altro che miseria. Per andare al lavoro al mattino camminavo cinque chilometri
nella neve scavalcando i morti per la strada. Cucivo selle per i cavalli dei
tedeschi e avevo le mani sanguinanti. Com’era possibile far festa con i
tedeschi che potevano portarti via in qualsiasi momento? Con la gente impiccata
per le strade? Con le camionette munite di camera a gas che ti rapivano per
farti sparire per sempre?». Una foto di bimbi che giocano ai poliziotti, forse
figli degli agenti del servizio d’ordine interno, quelli che facevano il
lavoro sporco per i tedeschi. Un’altra foto di ragazzini ben nutriti davanti a
una tavola imbandita. Lala capisce il tranello, il rischio che quelle immagini
facciano il gioco dei negazionisti. «No, non è possibile. Bambini grassi,
senza la paura negli occhi… Doveva essere agli inizi, nel ‘40, prima che ci
chiudessero lì dentro… Sicuramente era prima del ‘42, quando tutti i
bambini furono deportati perché improduttivi…». «Guardi, non mi indigno
nemmeno. Sono solo infastidita. Queste immagini mi danno ai nervi. Capisco che
siano uscite fuori dopo la morte del fotografo». Lala proletaria si ribella.
Forse Ross stesso era un privilegiato, magari per questo è riuscito a
sopravvivere. «Sapevo che c’erano situazioni particolari. Il capo del
Judenrat, delegato dai tedeschi, Chaim Rumkowski, girava con la sua amante in
carrozza a cavalli e si faceva omaggiare come un dio. Attorno a lui c’era
gente ricca. Ricordo una signora che aveva un cane, cui dava da mangiare meglio
che agli umani. Quando un poveraccio rubò la ciotola per sfamarsi, ebbe il
coraggio di maltrattarlo in pubblico». Non sempre c’era solidarietà nel
ghetto di Lodz. «Di quei tempi chiunque avrebbe dato tutto per una scorza di
patata», ammette Lala. «Io stessa sono riuscita a farmi trasferire in un
ufficio quando una mia parente ha sposato un responsabile dell’amministrazione
dei trasporti». Ma le foto svelano altro: le divisioni di classe della città
industriale che si riproducevano in cattività come nella Londra spietata di
Dickens. Padroni e operai divisi anche
di fronte alla morte. «Magari quei ricchi si illudevano di sopravvivere, e
invece… Anche Rumkowski, il dio, ha avuto il suo capolinea a Birkenau. Dicono
che sia impazzito, e che qualche ebreo si sia vendicato infornandolo vivo nel
fuoco tedesco». Miserie, egoismi. I quali tuttavia non incrinano, ma accentuano
la realtà di uno sterminio che
fu prima di tutto morale. Lala spiega: «La nuova generazione che si batte per
ogni metro di terra in Israele, non può capire. Ci imputano di non esserci
ribellati, ma io rispondo che fummo vittime di una demolizione scientifica della
personalità. Non eravamo persone, ma automi». La ribellione era impensabile a
Lodz. Ma la vita resisteva, motori al minimo. Perché
c’era vita nei ghetti. In quello di Vilna si tennero festival di musica, nel
‘43 vinse tale Katchergisky con un tango da brivido per la moglie appena
morta. Faceva: «Primavera, sulle tue ali blu, prendi con te il mio cuore e
fammi felice ». A Terezìn si misero su orchestre e compagnie teatrali, e il
cast si reintegrava ogni volta che gli attori finivano allo sterminio. A
Varsavia si teneva in piedi la
canzone yiddish. Si tenevano diari, si disegnava. I bambini esorcizzavano
l’orco rappresentandolo. Mille modi per inventare la normalità dal nulla. A
Sarajevo, nei quattro anni d’assedio dopo l’aprile ‘92, poteva mancare il
pane, ma il teatro funzionava e si eleggevano miss. Il rito dell’incontro al
caffè continuava anche se il caffè non c’era. Si rinunciava a mangiare pur
di dare una tirata a una
sigaretta o di avere un sapone buono. Qualcuno mise su persino una scuola di
galateo per i più piccoli. Il superfluo contava più dell’essenziale, faceva
la differenza tra la dignità e la liquidazione di se stessi. Lala: «Di questo
non sapevo, ero una ragazzina. Ma capivo che in giro c’erano adulti che davano
a tutti lezioni di dignità. Mio padre era di questi. Ad Auschwitz, quando
l’ufficiale col frustino lo separò da noi per mandarlo a morire, lui ci salutò
con un sorriso facendo ciao con la mano. Disse: voi ce la farete, lo so. Era un
ottimista, quell’ottimismo è il suo regalo. Io sono felice ogni volta che
respiro. Lo dico ai ragazzi delle scuole. È la voglia di vivere che ti salva.
Certo, serve anche la fortuna. Io ho scampato la morte tre volte, per puro caso.
Ma l’amore della vita è quello che dice: non lasciarti andare. Mai». Ancora
una foto, un gruppo in posa sorride con candele accese. Forse è la festa di
Hannukkah. Gente ben nutrita, anche qui. «Ma alle candele — spiega Lala —
nemmeno mio padre cercava di rinunciare il venerdì. Erano il segno della vita
che continuava. Lui le procurava, mamma le accendeva. Non so come papà ci
sfamasse. Finché ha potuto accedere al mercato nero ha venduto il poco oro
rimasto. Poi ha fatto marmellate di buracki, le rape rosse. Ma negli ultimi
mesi, quando mancava tutto, è un mistero come riuscisse a farcela». Esiste
gente speciale, «luminosa» sottolinea Lala. «Ricordo una cecoslovacca,
lavorava nel mio ufficio. Ci teneva su. Diceva: vedrete, finirà, ho sognato una
colomba, vuol dire che arriva la pace. Con lei riuscivamo a scherzare, a ridere
dei ragazzi che ci piacevano, a prenderci in giro. Di una sola cosa non
parlavamo mai: il cibo. Faceva troppo male. Era una gran donna. È sopravvissuta
e ci ha aiutato a sopravvivere. Con lei ho visto l’arrivo degli americani a
Mauthausen, dove ci avevano portato nell’estate del ‘45. Il trasferimento
era durato due settimane, e per tutto il viaggio lei non aveva mai smesso di
coccolare una bambina indifesa. Anche questa si è salvata». Altri si
lasciavano andare. Li chiamavano «musulmani». Erano gli sfortunati, i più
colpiti dalla sorte, o magari quelli che accettavano il destino senza reagire.
«Ho sentito quella parola la prima volta proprio a Mauthausen, non so chi
l’avesse coniata. Ma indicava i morti viventi, gli scheletri ambulanti coperti
di pelle violacea. Lì ho visto montagne di cadaveri, ma le assicuro che i vivi
facevano molta più impressione». Le donne hanno più capacità di
sopravvivere? «Forse — risponde Lala — ma è anche vero che i nazisti
ammazzavano prima gli uomini. Erano una forza lavoro più temibile, organizzata.
E meno sottomessa». Figurarsi a Lodz, la Manchester della Polonia, dove un
indomito proletariato socialista già da un secolo piantava i suoi scioperi in
muso ai padroni. Ci si sposa nel ghetto; lo stesso Ross prende moglie nel ‘41,
ci sono le foto della cerimonia. «Un’amica — racconta Lala — sposò un
ufficiale della polizia ebrea del ghetto. Erano giovani, una bellissima coppia.
Quando nel ‘44 li portarono ad Auschwitz, si accordarono di cercarsi a guerra
finita in un posto preciso. Così avvenne, ma lei trovò lui già risposato. Non
assorbì mai il colpo. Emigrò in Israele, sposò un ufficiale ebreo, sembrava
non ci pensasse più. Invece dopo anni si uccise. Si fece bella, si ingioiellò
come una regina, salì sul tetto di casa e si buttò di sotto». Lala sorride
teneramente: «È difficile reggere alla memoria di Auschwitz, se non hai un
grande equilibrio. Lì non c’era dio, non c’era niente». Nel ghetto anche
si nasce, e quelle nascite sono un grido di speranza. «Una coppia — ricorda
Lala — ebbe un bimbo di nome Mosé e ne parlava come del nuovo condottiero,
colui che per la seconda volta avrebbe strappato gli ebrei alla schiavitù».
2300 sono i bambini nati nell’inferno di Lodz a partire dal ‘41. Dal ‘42 i
tedeschi portarono via tutti. Anche il piccolo Mosé che doveva cambiare il
mondo. Si salvarono in pochissimi, nascosti dalle madri nei sottoscala o in
buchi sotto il pavimento. «Conobbi mio marito in un campo di lavoro vicino a
Dresda, che rispetto ad Auschwitz era un paradiso. Giancarlo si chiamava. Faceva
il muratore nella fabbrica dei carri armati. Non so cosa vedesse in me, ero
tutta pelle e ossa, calva con la divisa. Ricambiai gli sguardi, e le mie
compagne favorirono i nostri incontri. Pochi minuti per baci negli armadietti
dello spogliatoio, persino nei gabinetti. Fu meraviglioso. Poi ci siamo persi,
lui mi credette morta. E nel ‘45, quando stavo per imbarcarmi per la Palestina
con le mie sorelle, soldati israeliani di origine polacca mi aiutarono a
trovarlo». «Tutte le volte che parlo alle scuole e nella mia mente torna a
girare il film dell’inferno, lo sbarco sulla Judenrampe ad Auschwitz, con gli
ucraini che ci bastonano per farci uscire dai vagoni pieni di escrementi, morti
e moribondi, allora dico ai giovani: gioite, godetevi la bellezza della vita,
imparate dagli uccelli che si posano liberi sui rami. Benedite il pane che
mangiate. Pensate che ogni respiro è un miracolo. Soprattutto non odiate,
l’odio non porta da nessuna parte, guardate cosa succede in Palestina. Nel
‘46 ho ospitato qui la mamma di un tedesco morto. Era venuta a cercare il suo
corpo. Per me era solo una mamma disperata».
Da la Repubblica, 16 gennaio 2005, per gentile concessione