la Repubblica
Fucilati sull'orlo della fossa
A cinquant'anni dall’eccidio delle
Fosse Ardeatine, il
salesiano Francesco Motto ha ricostruito la storia degli ultimi momenti dei
condannati e il ruolo che alcuni esponenti dell'ordine religioso ebbero nella
resistenza romana. Lo abbiamo intervistato
di Laura Lilli
Roma.
«La galleria di sinistra era ostruita a pochi metri
dall'ingresso: si inoltrarono per quella di destra. Notarono un filo rosso,
ricoperto da un leggero strato di pozzolana. Sollevandolo passo dopo passo, i
tre salesiani lo seguirono per una trentina di metri, fino a un cumulo di terra
alto più di due metri che bloccava in parte il tratto di galleria comunicante
con l'altra. Arrampicatosi sul terrapieno, il giovane chierico Perrinella vide
appoggiata, sulla parete interna, una scala dalla quale scese non appena don
Fagiolo lo raggiunse. Con l’aiuto di una candela videro i cadaveri.
sovrapposti in più strati, mal coperti dì pozzolana e terriccio». Così
scrive il salesiano Francesco Motto in un corposo saggio dal titolo Gli
sfollati e i rifugiati nelle catacombe di San Callisto durante l'occupazione
nazifascista di Roma. I Salesiani e la scoperta delle Fosse Ardeatine,
apparso nel primo numero di quest’anno della semestrale Rivista di ricerche
storiche salesiane che egli stesso dirige. (Dirige anche l'Istituto storico
del suo ordine e insegna storia salesiana e materie attinenti all'Università
salesiana). Il
triste cinquantenario della famigerata strage nazista ricorre il 23 marzo.
L'abbiamo intervistato. Sia la strage sia l'attentato di via Rasella sono ormai
fatti ben noti, scrutinati da storici e memorialisti. «Soprattutto laici»,
sospira don Motto, il quale lamenta che «i
Salesiani non abbiano senso storico. Abbiamo fatto del bene, copriamo tutto con
la carità dicono». In ogni caso, quello che restava da aggiungere «che
riguarda il giorno esatto della scoperta dei cadaveri e qualche leggenda da
sfatare» lo ha aggiunto lui nel saggio, che documenta il ruolo dei salesiani nella Resistenza romana.
Ruolo decisivo nella protezione di ebrei, antifascisti, sfollati, sbandati,
bambini. Le catacombe di San
Sebastiano, custodite appunto dalle due comunità salesiane di San Tarcisio e
San Callisto, sono anche servite da deposito di munizioni per partigiani.
Il progetto di Amendola
L'idea dell'attentato di via Rasella, organizzato da Gap
(Gruppi d'azione partigiana), comunisti delle squadre «Sozzi», «Gramsci»,
«Pisacane», «Garibaldi» agli ordini di Carlo Salinari, era stata di Giorgio
Amendola, rappresentante dei Pci nella giunta militare dei Cln. Obiettivo: una
colonna di SS (del terzo battaglione di polizia «SS
Bozen»)
che ogni giorno alle 14 passava per la piccola strada dietro via del tritone.
Giovedì 23 marzo 1944, venticinquesimo anniversario della
nascita del fascismo, alle due del pomeriggio gli attentatori sono pronti e
aspettano al varco. Rosario Bentivegna. vestito da spazzino, ha collocato
un carrettino della Nettezza Urbana carico di esplosivo (18 chili di tritolo più
pezzi di tubo di ferro con «carica») accanto a un camion, all'altezza del
numero 156 di via Rasella appunto; palazzo Tittoni, dove, nel '22, subito dopo
la marcia su Roma, Mussolini aveva affittato un appartamento di cinque stanze.
Quando Franco Calamandrei agiterà il berretto, il finto spazzino accenderà la
pipa e la nasconderà nel carretto a mo' di miccia, fuggendo subito dopo, Carla
Capponi gli verrà incontro con un impermeabile bianco con cui nasconderà gli
abiti da spazzino. La studentessa è ferma davanti al
Messaggero, in via del Tritone. Le strade però sono vuote. Ė
incredibile: i tedeschi sono in ritardo. Passa mezz'ora. Un'altra. Una terza.
Due poliziotti ammoniscono Carla Capponi a non sostare troppo a lungo avanti al
giornale. Panico. Uno però ha intenzioni galanti, e lei con sollievo finge di
accettarne la corte. L’ansia cresce. Alle 15,20 Pasquale Balsamo sussurra a Bentivegna che se fra dieci minuti non arrivano si ripiega.
Ma
ecco il passo cadenzato, accompagnato da canti. Alle 15,45 l'attentato, e subito
la fuga. La deflagrazione, seguita da un'enorme fiammata giallastra, fa tremare
l'intero isolato e si sente in tutta Roma, 26 SS muoiono sul colpo, 60 sono
feriti e 7 di questi moriranno. Un mezzo blindato va distrutto, le fiamme
lambiscono le mura delle case fra urla, lamenti fuggi fuggi, spari
all'impazzata. Partigiani nascosti lanciano altre quattro bombe. Il
furore dei tedeschi, che subito radunano ostaggi, raggiunge immediatamente
Berlino (oltre al ministro degli Interni della Rsi Bufanini Guidi). Il Führer
vuole uccidere 40-50 italiani per ogni tedesco, Kesserling ritiene che «esageri».
Si decide per dieci, e che la
rappresaglia sia immediata. Ė affidata a Kappler. Nella notte, in un
silenzio frenetico, egli sceglie i «candidati alla morte» fra i prigionieri di
via tasso e di Regina Coeli, con l'aiuto del prefetto Pietro Caruso. Al turbatissimo console
Mellhausen che lo va a trovare, Kappler promette che «su ogni nome penserà tre
volte». Ma non esclude i minorenni (moriranno 4 ragazzi di 14, 15 e 17 anni) e anzi include 15 nomi in più rispetto ai previsti
320. «Fu un errore, ma ormai erano là»
dirà in seguito. Non lancia appelli agli autori della strage come poi
Spari nel silenzio
“Il venerdì sera - la carneficina era durata dalle 3 alle
8 - i tedeschi avevano fatto cadere dei massi per occultare il luogo. Il sabato
mattina tornarono e fecero esplodere delle cariche. Il telefono più vicino
era quello del chiosco della vendita di oggetti religiosi, e loro se ne
servirono per ben due volte. Il confratello ungherese Szenick, che conosceva il
tedesco, ci scambiò qualche parola, e soprattutto, a fine mattinata, li sentì
comunicare al comando che “il lavoro era completato”. Agitato, Szenick a
tavola parlò con i confratelli, suscitando la curiosità di don Fagiolo e don
Perrinella - di quest’ultimo parla anche don Valentini. Il quale don Valentini ebbe l'incarico di riferire a Montini.
Bisognerebbe vedere il testo di quel colloquio, ora custodito in Vaticano. Se
per esempio fosse avvenuto il lunedì, sarebbe una conferma”.
In ogni caso aggiunge don Motto «nella sostanza io non vedo grandi
contraddizioni fra le due testimonianze. Si può ipotizzare che don Valentini
abbia voluto verificare personalmente e con dei medici.
Da la Repubblica, 1993, per gentile concessione