DIARIO di Repubblica
Anna Frank - Sessant' anni fa l'arresto della Gestapo
Anna Frank – Una voce dentro la tragedia
di Joachim Fest
Voi lettori italiani forse
non lo sapete, ma fu proprio qui da noi in Germania che il Diario di Anna
Frank riscosse fin dall’inizio uno dei suoi maggiori successi mondiali. Fin da
quando uscì, negli anni Cinquanta ormai lontani in cui la Germania era divisa,
e i drammi del presente – nell’Ovest libero la ricostruzione economica e
l’edificazione della democrazia, all’Est il comunismo - rafforzavano la
tentazione di dimenticare il passato, di guardare avanti e basta. Quando il
libro di quella straordinaria adolescente uscì, nella Repubblica federale, fu
uno shock positivo enorme. Ci fece fare i conti con la nostra Storia recente più
e meglio di mille statistiche astratte sulle cifre dell’Olocausto. Fu solo una
tessera, ma una tessera importantissima, senza la quale il mosaico della nostra
democrazia postbellica sarebbe risultato diverso, incompleto, privo di un
arricchimento vitale. Ricordo che proprio al Diario di Anna Frank dedicai
nel 1953 una delle mie prime trasmissioni radio, prima che il libro diventasse
un best-seller. Subito dopo venne l’edizione pocket, e vendette oltre un
milione di copie. Le pagine lasciateci da quella giovinetta straordinaria ebbero
un peso enorme nella coscienza collettiva della società tedesca del dopoguerra.
Perché secondo me catastrofi come l’Olocausto possono essere rivisitate e
comprese dalla gente soltanto quando le si narra descrivendo destini e drammi
individuali. Con la semplicità e la chiarezza che noi figli del dopoguerra
dovemmo appunto ad Anna Frank. O con l’efficacia televisiva che ebbe, negli
anni Settanta, il serial tv americano Holocaust. Libri fatti di resoconti
astratti, statistiche del genocidio, non raccontano nulla, non rendono oggi
l’idea di quella che fu la vita reale delle prede braccate, dei perseguitati o
degli internati nei campi di sterminio. Ben altra efficacia hanno ricordi e
testimonianze di una singola persona: con le sue tendenze, le sue speranze e le
sue paure il lettore e il cittadino medio possono identificarsi. Le pagine del Diario
hanno reso l’Olocausto un dramma vivo, concreto, davanti al quale non era
possibile chiudere gli occhi. È troppo facile, e sbagliato, affidarsi oggi ai
monumenti per ricordare la Shoah. I monumenti non dicono nulla, glorificano
soprattutto chi li concepisce e li costruisce quasi ritenendosi più importante
dei morti da celebrare. La Germania è stata disseminata di monumenti ai caduti
delle sue guerre: da quella del 1870, al 1914-18, al secondo conflitto mondiale, e la gente passa accanto ai monumenti senza
che di essi resti loro nulla in testa. Pensate al memoriale dell’Olocausto in
costruzione a Berlino, quella pesante, brutta teoria di colonne monolitiche a un
passo dalla Porta di Brandeburgo. È volutamente brutto perché orribile fu
l’Olocausto, ma io non credo che, con tutta la sua aggressiva veemenza
retorica morale, possa servire. È astratto, al di là del quesito se l’arte
possa essere brutta per ricordare pagine brutte della Storia. No, non ci servono
i monumenti. Ci serve leggere e far leggere sempre di più ai nostri giovani
pagine vive come il Diario
di
Anna Frank, o i diari di Viktor Klemperer, e per fortuna qui in Germania già lo
facciamo. È il modo migliore di tenere sveglia la coscienza, e forse è anche
il modo migliore di vaccinare noi stessi, l’Europa e il mondo. Rileggendo oggi il Diario, mi
si stringe il cuore quando ritrovo il grande messaggio di Anna Frank. Il suo
sorprendente ottimismo di fanciulla straordinariamente intelligente nel turbine
delle tragedie della Storia, la sua convinzione che malgrado tutto il mondo è
buono. Non so dire, guardando al mondo d’oggi, se me la sento davvero di darle
ragione. Ma questa è una filosofia ottimista, tramandarla non può far danno. I
giovani di oggi hanno il diritto e in un certo senso il dovere di essere
ottimisti. Specie nella ricca e libera Germania di oggi, da cui pure, dopo tre
catastrofi, forse non si può esigere ottimismo. Io, pensando ad Anna Frank,
ricordo la spinta positiva di ottimismo, pur insieme alla coscienza delle nostre
terribili responsabilità che ci dette leggere il Diario. Da noi si fa
presto ad aver voglia di rimuovere. Già due anni dopo il 1918, spuntò tra i
tedeschi chi aveva voglia di smetterla di sentir parlare di responsabilità
nello scoppio del primo conflitto mondiale. Dopo il 1945, dovemmo aspettare
appena qualche anno in più. Sei o sette per la precisione, ed ecco, ricordo,
che le voci di chi chiedeva un Schlussstrich, di chi voleva voltare
pagina con un tratto di penna sui ricordi e le colpe del passato, tornarono a
farsi sentire. E improvvisamente, su questo sfondo, venne il Diario. Ed
ebbe la meglio su quelle tendenze. Non suscitò critiche negative, non ne
ricordo alcuna. Specie tra i giovani di allora, la generazione che poi costruì
la Repubblica federale. E che leggendo quelle pagine di Anna, giovane preda cui
i nazisti davano la caccia come fosse selvaggina, capirono per la prima volta
quali tragedie l’ubriacatura degli anni Trenta aveva portato. Il Diario,
insieme a molte altre opere e testimonianze del genere, fu un poi la vera
catarsi di noi tedeschi del dopoguerra. Certo, poi vennero anche seguiti
deplorevoli, negativi. Come la polemica tra chi, come il padre di Anna, vedeva
nel libro soprattutto un messaggio di ottimismo e di speranza, e chi vi leggeva
soprattutto una testimonianza di identità ebraica. Polemiche sterili: è ovvio
che entrambi i messaggi sono elementi costitutivi del Diario. Per noi
tedeschi, queste polemiche interne al mondo ebraico non rivestono un grande
interesse. Per noi conta quanto, da quelle pagine, la Germania postbellica imparò
a essere un paese tollerante. Non mi stancherò mai di ripetere che il Diario
fu per noi una tessera indispensabile, senza cui il mosaico della società
democratica tedesca del dopoguerra non avrebbe avuto il volto completo di oggi.
SILLABARIO - ANNA FRANK.
di
Natalia
Ginzburg
Il libro di Anna Frank, noi lo
leggiamo sempre tenendo presente la sua tragica conclusione; senza poterci
fermare a quei precisi momenti che vi son raccontati, ma sempre guardando oltre,
sempre cercando di figurarci quel campo di Bergen Belsen, dove Anna è morta, e
quegli otto mesi che ha trascorso là, prima della morte, certo penosamente
ricordando l’”alloggio segreto”, l’idillio con il ragazzo Peter, i
gattini, le feste per i compleanni, le amiche Elli e Miep che fino all’ultimo
hanno rischiato la vita per la salvezza di lei e dei suoi; tutto questo, mentre
leggiamo, ci sta davanti cosÏ come Anna deve averlo rievocato in quegli otto
mesi, tutti i due anni dell’”alloggio segreto” così come saranno apparsi
a lei e agli altri quel mattino sul camion, fra i tedeschi che li portavano via,
quei due anni strappati ai tedeschi e vissuti a insaputa dei tedeschi, di frodo,
quei due anni che hanno consentito ad Anna Frank di scrivere il suo diario.
Anna e Margot sorelle senza futuro
In mostra ad Amsterdam le foto
scattate dal padre
di Leonardo Coen
Amsterdam -
Il
sole di luglio riscalda la sabbia della sterminata spiaggia di Zandvoort, non i
cuori. Il mare è una striscia lontana. Papà Otto scruta le adorate figlie.
Vorrebbe scacciare ogni inquietudine, la mente ne è ingombra. Ma non può.
L’estate del 1938 sta infatti allontanando ogni speranza. Hitler ha ingoiato
l’Austria. Minaccia di invadere la Cecoslovacchia: pretende i Sudeti. Francia
ed Inghilterra cercano di scongiurare la guerra con le armi (spuntate) della
diplomazia. La stessa tollerante Olanda, due mesi prima, ha chiuso le frontiere
agli ebrei profughi. Le persecuzioni naziste sono incessanti, sempre più
terribili. Nemmeno un anno prima, il 17 luglio, è stato aperto il lager di
Buchenwald. Un triste primato. Otto,
però, guarda davanti a sé: le figlie sono il futuro, la speranza. Sorride.
Almeno loro abbiano la sensazione di vivere una vita serena, tranquilla.
Normale. Finché è possibile: poi, ci penserà lui a proteggerle. Come ha fatto
sempre. Come quando le ha portate via da Francoforte, dopo l’avvento del Führer.
Prima Margot, nel dicembre del 1933. Poi Anna, nel febbraio del 1934. Come sono
belle, pensa Otto Frank. Anna e Margot sono in piedi, sulla sabbia ancora umida.
La bassa marea ha risucchiato l’acqua per decine e decine di metri. La gente
ne approfitta: raccoglie conchiglie, molluschi, arselle. Anna e Margot
osservano. Allora, papà Otto ha un’intuizione. Afferra l’inseparabile Leica,
dice loro di restar ferme, immobili per qualche istante. Le fotografa. Di
schiena. Le figlie mostrano le spalle nude, ancora acerbe. Il torso, fin dove il
costume lo consente. Le gambe, fin dove il prendisole arriva: quello che
indossano ha foggia identica. Tessuto scozzese. Un tocco chic. Va di moda. Ma
Anna e Margot non mostrano il volto. Come se ci avessero già salutato. Come
fossero pronte a lasciarci per sempre. Le loro ombre si allungano oblique sulla
sabbia. Verso Occidente. Verso la libertà. Otto Frank aveva un occhio
impeccabile per i dettagli, per la scelta delle inquadrature. Le sue non erano
mai foto banali. Quella della spiaggia di Zandvoort ha infatti qualcosa in più:
è quasi un presentimento. Per sessantasei anni quest’immagine struggente,
enigmatica, è rimasta dentro un album di famiglia. Unica foto di Otto che
tradisce angoscia, paura, smarrimento. Frammento doloroso di memoria privata:
Anna e Margot morirono a Bergen- Belsen, nel marzo del 1945, uccise dal tifo e
dalle privazioni: avessero resistito qualche altro giorno, sarebbero forse qui a
raccontarci la loro atroce esperienza. Oggi, quel luminoso illusorio pomeriggio
d’estate è diventato il soggetto di un poster emblematico, biglietto da
visita di una mostra, in fondo, drammatica: Anne Frank and family è
un’insostituibile testimonianza dell’orrore che nelle 69 foto esposte al
Fotografienmuseum di Amsterdam (Keizersgracht 609, sino al 12 settembre) non è
mai (volutamente) rappresentato. Anzi, proprio questo non mostrare - ma noi
invece sappiamo che ci sarà, che comunque incombeva ovunque, anche nei pacifici Paesi Bassi - è
la chiave di lettura e di riflessione di un percorso breve, brevissimo. Come lo
furono le vite spezzate di Anna e Margot, dei loro sventurati amici, dei
parenti. Dei sei milioni di ebrei svaniti negli inferni nazisti. È un diario
per immagini organizzate in sequenza cronologica. Tutte scattate da papà Otto:
che era un abilissimo ed appassionato fotografo. E che si era prefissato di
salvaguardare la famiglia, di mantenerne la dignità. Di farla vivere come tutte
le altre. Ecco, dunque, il rito borghese (e non solo) del ritrarre i momenti
cruciali che scandiscono l’esistenza familiare. La nascita. I primi
compleanni. Gli amici più cari. Le visite ai parenti. I nonni. Gli zii. I
vicini di casa. I loro volti. Poi, la scuola. Le case. Il primo orologio. Il
vestito “buono”. Le scampagnate. Le vacanze: al mare, in montagna. Il
giardino di casa. A passeggio lungo il marciapiede davanti a casa. I sogni
celati - i sogni semplici di ogni adolescente - dietro quelle foto. Come quando
Anna scrisse sul Diario, incorniciando una piccola e sgualcita
fototessera che ce la mostra coi capelli scuri lisci e lucenti, la riga dritta
sulla sinistra: “Questa è una fotografia in cui ho proprio il volto che
vorrei avere sempre. Allora potevo ancora sperare di finire a Hollywood, ma
adesso purtroppo spesso ho un altro aspetto” (10 ottobre 1942). Eppure Anna
era un’inguaribile ottimista. Carattere ereditato da papà Otto. La sua volontà
di vivere e vivere felice è la cifra quasi ossessiva del Diario:
“Questa terribile guerra finirà una volta per tutte e noi torneremo ad essere
di nuovo esseri umani e non soltanto ebrei”, aveva
scritto il 9 aprile del 1944, quando già più di centomila dei 140 mila ebrei
che abitavano l’Olanda erano stati deportati nei campi di concentramento per
la “soluzione finale”. Venticinquemila erano riusciti a nascondersi,
tuffandosi nella clandestinità: in 17 mila riuscirono a scamparla. Non Anna.
Non Margot. Strappate il 4 agosto del 1944 - un 4 agosto come oggi - dal loro
“Alloggio segreto” ricavato nel retro della casa di Prinsengracht 263, dove
aveva sede la ditta commerciale Opekta di papà Otto. Tradite da un conoscente.
Di quel che è successo noi sappiamo tutto. Crediamo di saper tutto: il Diario
di Anna è lettura obbligata in moltissime scuole del mondo, consigliata in
tutte le altre. Nel 2003 più di 913 mila persone hanno visitato casa Frank,
oltre 18 milioni e mezzo da quando è stata aperta al pubblico, il 3 maggio del
1960. Due ore prima dell’inaugurazione, il fotografo Arnold Newman ritrae Otto
di profilo, ai piedi di una scaletta di legno, nell’alloggio segreto. Quella
foto, 44 anni dopo, ci accoglie all’ingresso della mostra. L’ottanta per
cento delle foto esposte, assicura Colette Olof, portavoce del bellissimo
Fotografienmuseum di Amsterdam, vicino al Mercato dei Fiori e all’Opera, sono
inedite. Le vedono cinquemila persone al mese. Colpiscono le stringate
didascalie che accompagnano la sobria raccolta: il curatore Victor Levie ha
preferito utilizzare le stesse - vergate col pennino intinto nell’inchiostro
di china - che avevano appuntato i Frank in quattro album (400 foto). Anna venne
alla luce il 12 giugno del 1929, alle 7 e 30 del mattino: pesava oltre quattro
chili e misurava 54 centimetri di lunghezza. Vivace, sin troppo, scrive mamma
Edith: “Ha pianto tantissimo per sei settimane”.
Cresce Anna e cresce il suo temperamento estroverso. Papà Otto la iscrive alla
scuola Montessori: eccola seduta dietro il banco, apparentemente compita, ma
sguardo e sorriso birichini (inverno 1940). Un anno dopo, il sorriso si spegne.
È il maggio del 1941. Anna si sporge dal balcone di casa. Sgomenta: gli ebrei
possono girare solo se portano la stella gialla. E mai dopo le otto di sera. È
l’ultimo scatto di vita normale. Nel maggio del 1942 Otto Frank ripone
la sua Leica dentro un cassetto. Non la userà mai più. Il 6 luglio lui e i
suoi entrano in clandestinità. Otto morirà nel 1980. Lascerà la Leica alla
seconda moglie Elfriede “Fritzi” Geiringer-Markovits, sposata nel 1953:
l’aveva conosciuta sul convoglio che da Auschwitz lo riportava in Olanda.
Quei messaggi nella bottiglia
Furono tantissime le pagine diaristiche lasciate come
memoria
di
Susanna
Nirenstein
“Tutti si misero a scrivere: giornalisti, scrittori,
maestri e professori, attivisti sociali, giovani, e perfino bambini. Più che
altro si scrivevano diari, in cui gli avvenimenti tragici venivano raccontati e
commentati col criterio dell’esperienza personale. Si è scritto moltissimo,
ma la maggior parte di questo materiale è stato distrutto insieme agli ebrei di
Varsavia. È rimasto solo quello conservato dall’Oneg Shabat”. La nota è di
Emanuele Ringelblum, eroe della resistenza del ghetto di Varsavia, fucilato nel
marzo ‘44 insieme alla moglie e ai figli. Documentare, raccogliere materiale
sull’annientamento degli ebrei in Polonia, questa era diventata la sua
missione a partire dall’ottobre 1939, l’inizio dell’occupazione tedesca, e
la realizzò appunto con l’Oneg Shabat, “La delizia del sabato”, nome in
codice per via del giorno in cui si riunivano le persone che crearono questo
preziosissimo archivio del ghetto. Quando la fine divenne imminente, Ringelblum
e i suoi collaboratori chiusero gli scritti raccolti in una decina di casse di
lamiera e bidoni da latte e li seppellirono in un cortile del ghetto in via
Nowolipki 68, e fecero arrivare all’estero una descrizione del luogo del
nascondiglio. Le carte furono ritrovate alla fine del conflitto a testimoniare
non solo la macchina della persecuzione, della ghettizzazione e dello sterminio
insieme ai temi strazianti del coraggio e della rivolta senza speranza, ma anche
argomenti scomodi come il collaborazionismo, il problema della dignità, della
passività, della disumanizzazione. Altri archivi clandestini furono ritrovati
in altri ghetti, come a Bialystok. E diari furono occultati nei luoghi più
strani e difficili: come quello ritrovato sotto il Sonderkommando di Birkenau, o
quello di Justina, Justa Drenger, scritto in terza persona su carta igienica e
nascosto in una stufa inutilizzata di una prigione per raccontare il suo arrivo
nel ghetto di Cracovia, il rapporto col marito Marek, uno dei capi della
resistenza, la gioia della sera prima della ribellione, la cattura.
Testimoniare, descrivere. Dallo stesso archivio Ringelblum arrivarono pagine e
pagine di diaristica che raccontavano l’indicibile, come un giorno non
assomigliasse mai all’altro, come il primo ghetto fosse quasi “un paradiso
in confronto all’ultimo stretto recinto” dello “shop”, e poi l’inizio
della deportazione: tutto cambiava nel giro di pochi giorni di precipizio,
“perfino il modo di vestirsi”. L’Oneg Shabat si sforzava di fissare ogni
fenomeno nel momento in cui era in atto. “Perché ogni giornata contava come
decenni”. E quei diari, come sappiamo, non sono stati certamente gli unici ad
arrivarci. A volte, viene da chiedersi come mai le memorie di Anna
Frank siano state più diffuse di quelle ad esempio dell’allora quindicenne
Mary Berg (Il ghetto di Varsavia, diario 1939-1944, Einaudi): anche
queste fresche, dirette, terribili ma al tempo stesso ricche di informazioni
concrete, e pubblicate già nel 1945 in America. La risposta sembra poter essere
una sola: le pagine di Anna si fermano a prima della deportazione, permettono di
soffermarsi sulla cesura del nascondiglio in soffitta sospesa sulla morte
futura, eppure non brutale come la vita nel ghetto: Mary Berg, per quanto parli
anche di amicizie, teatro, canzoni, famiglia, non permette tergiversazioni sui
temi dell’adolescenza: l’annientamento, la fame, i morti, stanno lì per
strada e Mary quando esce ci inciampa sopra, letteralmente.Tra i diari più
famosi, forse il più simile a quello di Anna Frank, per l’assenza della
concretezza dell’orrore, è quello del 52enne Victor Klemperer, (Testimoniare
fino all’ultimo, diari 1933-1945, Mondadori), scritto tra le pieghe della
Germania nazista, dove Klemperer, professore di letteratura francese, poté
rimanere in quanto marito di un’ariana e combattente della Prima Guerra
Mondiale: è la storia meticolosa di un inesorabile strangolamento che Klemperer
subisce sempre più stupito, scandalizzato, offeso e da cui si salva solo perché
il giorno in cui infine deve presentarsi alla Gestapo, Dresda viene bombardata.
Un diario davvero speciale perché registra quasi ora per ora come la civile
Germania si trasformasse in una bestia feroce. Ma ogni diario è speciale.
Messaggi nella bottiglia, li chiama Gustavo Corni, lo studioso che li ha
studiati ultimamente in Italia come fonti storiche dirette, con il suo I
ghetti di Hitler. Voci da una società sotto assedio (Il Mulino). Perché
scrivevano così copiosamente nonostante la fame, il freddo, i lavori durissimi,
l’angoscia del futuro, il disastro? “Era frutto di una deliberata scelta di
lasciare testimonianza, di fare i conti con quello che stava avvenendo” dice
Corni. Per sentirsi vivi in un mondo isolato e senza voce, per lasciarsi andare.
Scrive l’anonimo autore di un diario appuntato in quattro lingue sui margini
di un romanzo: “Sento una tale necessità di aprire il mio libro della memoria
ad ogni momento e di alleggerire il mio cuore amaro scrivendo”. Annota un
collaboratore di Ringelblum: “Il desiderio di scrivere è altrettanto forte
della ripugnanza verso le parole”. Persino il capo dello Judenrat di Varsavia
Adam Czerniakow, ricorda Corni, dedica ogni sera qualche minuto alle sue note.
Bisogno di lasciare traccia di sé, di mantenere in vita quelli già scomparsi,
ma soprattutto urgenza che gli altri leggano il messaggio nella bottiglia e
sappiano quel che è veramente avvenuto, come scrive il lavoratore del
Sonderkommando di Birkenau che trova un diario e lo seppellisce: “CosÏ come
esattamente gli avvenimenti si sono svolti, nessuno se li può immaginare...
Ritengo perciò mio dovere nascondere questo pacchetto di carte che ho trovato
in modo che si conservi a lungo... Questa non è ancora tutta la verità. La
verità intera è molto più tragica, molto più orribile”.
Il socio in affari che tradì Otto Frank
L’ Olanda e il nazismo / le ricerche di Carol Ann
Lee
di Roberto Festa
Carol Ann Lee è inglese, vive ad Amsterdam. Da anni si
occupa del “caso Anna Frank”. Il suo lavoro più recente, A Friend Called
Anne, storia dellíamicizia tra Anna e Jacqueline Van Maarsdens, verrà
pubblicato domani da Penguin. In Olanda Carol Lee è celebre soprattutto per The
Hidden Life of Otto Frank (2002), il libro che dava un volto nuovo e
imprevisto al traditore dei Frank: Anton Ahlers, ex-socio in affari di papà
Otto, che avrebbe tradito per il più comune tra i motivi: l’interesse.
Consegnare un ebreo, nel 1944, valeva quaranta fiorini. La Lee giungeva al nuovo
“colpevole” sulla base della corrispondenza tra Otto Frank e Ahlers. Per
anni ci si era chiesto chi avesse denunciato gli otto ebrei nascosti nel
retromagazzino di Prinsengracht 263. I sospetti si erano concentrati soprattutto
su Willem Van Maarem, che lavorava nel magazzino e che morì nel 1971 giurando
sulla propria innocenza. Nel libro la Lee spiegava la ragione che avrebbe spinto
Otto Frank, dopo la guerra, a non denunciare il suo ex-socio. Ahlers conosceva
un segreto imbarazzante: Otto aveva continuato a vendere cibo ai nazisti nei
primi mesi di guerra. “Ma non era una decisione volontaria - spiega la Lee -
l’85% delle imprese olandesi furono costrette a fare affari con i nazisti”.
In Olanda le reazioni al libro della Lee sono state contrastanti. “Mi hanno
criticata, spesso con rabbia”, spiega la scrittrice. “Qualcuno aveva osato
toccare il padre della loro “santa patrona”. Dietro la “rabbia” di
alcune recensioni si indovinava comunque dell’altro. La Lee si era infatti
avventurata in un terreno minato: le reazioni dell’olandese comune alla
persecuzione degli ebrei. Nel 1944 c’erano soltanto 200 soldati tedeschi ad
Amsterdam: la gran parte degli ebrei venne rastrellata dalle SS olandesi. Per
tutti gli anni Trenta, il governo olandese negò l’asilo a molti rifugiati
ebrei. Dopo l’invasione, il partito nazista olandese balzò a 32 mila
iscritti. Quando i tedeschi chiedevano la mappa di una strada, i funzionari
olandesi gliela fornivano con tanti piccoli punti. Un punto, 10 ebrei. “Ho
osato mettere in discussione l’icona dell’olandese salvatore”, ha scritto
la Lee. Un processo che inizia subito dopo la pubblicazione del Diario.
Spiega Carol Ann Lee: “La storia di Anna Frank suggeriva al mondo: “Noi
olandesi l’abbiamo nascosta, i terribili tedeschi l’hanno uccisa”. Le
polemiche suscitate dal libro hanno spinto il Netherlands Institute for War
Documentation a riaprire il caso del “tradimento” di Anna. Ma, come scriveva
il rapporto finale dell’aprile 2003, “la nostra indagine non ha condotto a
un responsabile”. La tesi della Lee veniva giudicata “pura speculazione”.
Il colpevole restava senza volto, come gran parte degli olandesi che
denunciarono i 9 mila ebrei di Amsterdam. “Il nostro problema non è il
furfante, ma l’uomo comune che si umilia e compie atti atroci”, ha scritto
lo storico Jacob Presser, anche lui un sopravvissuto.
Da la Repubblica, 4 agosto 2004, per gentile concessione