DIARIO di Repubblica

 Varsavia '44 - 60 fa la rivolta contro i tedeschi 

Varsavia ‘44 - Quell’insurrezione dimenticata

di Paolo Rumiz

“Il primo agosto ‘44 ci rivoltammo contro i nazisti perché non volevamo essere liberati dai russi. Conoscevamo gli orrori dello stalinismo, l’Armata Rossa arrivava, bisognava fare in fretta, e Varsavia insorse. Avevamo vent’anni, non conoscevamo la paura. Non ci importava di morire, la nostra causa era troppo grande”. Alina Karpowicz, 82 anni splendidi e due occhi pieni di luce, racconta.”A pensarci, fu inutile: un disastro per noi, per Varsavia, per i civili. E un vantaggio per Stalin. Ma fu, lo giuro, la cosa più bella della mia vita. Fu tutto stupendamente romantico, tragico e insensato”. 250 mila morti in due mesi. Un massacro. Combattimenti casa per casa, feriti nelle fogne e nelle cantine, una città intera che trasloca sottoterra, un paesaggio di macerie come Dresda, Hiroshima, che si è tentato di riprodurre nel film Il pianista. Nessuna capitale ha avuto più coraggio di Varsavia e nessuna ha subito più bombardamenti. Ma se ne parla poco. A Est, Mosca ha taciuto per mezzo secolo. A Ovest, la letteratura sulla rivolta del ghetto del ‘43 ha oscurato il resto. Ma le ragioni di quest’amnesia stanno soprattutto anche nella cattiva coscienza delle potenze alleate che, per la seconda volta dopo il ‘39, avevano abbandonato Varsavia a se stessa e alla dominazione di Stalin. Varsavia, si leggeva fino a ieri, fu liberata dai sovietici il 17 gennaio del ‘45. Falso, tre volte falso. Primo: i nazisti se n’erano già andati e i russi non spararono un colpo per entrare. Secondo: Varsavia era già stata rasa al suolo dunque non c’era niente da liberare. Terzo: l’Armata Rossa avrebbe potuto liberarla cinque mesi prima, ma non lo fece. I sovietici, anziché aiutare i rivoltosi, aspettarono che i nazisti li massacrassero. Stalin non voleva patrioti tra i piedi, ma una nazione-zombie da dominare. Così bloccò l’avanzata a cinque chilometri dal centro, e impedì che gli angloamericani paracadutassero munizioni. Né Londra e Parigi insistettero perché quegli aiuti arrivassero. L’Occidente aveva altro da pensare. “Il 4 giugno era caduta Roma, il 6 giugno gli Alleati erano sbarcati in Normandia, della Polonia non importava a nessuno”, racconta lo storico Federigo Argentieri. Ma soprattutto il governo provvisorio di Varsavia a Londra ignorava che Churchill e Roosevelt, alla conferenza di Teheran del dicembre ‘43, avevano regalato alla Russia la parte di Polonia occupata da Stalin dopo il suo scellerato accordo con Hitler. Erano stati proprio gli inglesi (dopo la prima guerra mondiale) a sancire segretamente quella divisione, che prese il nome dal loro ministro degli Esteri Curzon. Linea Curzon appunto. Stalin, poi, avrebbe sfruttato alla grande l’imbarazzo di Churchill sull’argomento, per accaparrarsi la Polonia intera. Comincia con i polacchi in esilio che avvertono gli Alleati delle purghe staliniane, degli stermini per fame, dei Gulag. Nel ‘43 in Bielorussia, a Katyn, i tedeschi hanno trovato un’immensa fossa comune piena di soldati polacchi massacrati dai russi, ma la storia viene liquidata come propaganda nazista. Il mostro, allora è solo Hitler, e come se non bastasse, Roosevelt è affascinato da Stalin. Pochi credono alle paure degli esuli fuggiti a Londra. Ma il governo provvisorio non può aspettare, spera per la Polonia un destino occidentale, dà l’ordine di attacco. “All’inizio fu tutto facile – racconta Alina - i tedeschi erano asserragliati in pochi capisaldi. Ma poi arrivarono i bombardieri. Un immenso cannone su rotaie fu piazzato alle porte della città. E fu l’inferno “. Alina annota tutto, tiene un diario minuzioso, ci tiene più che ai suoi anelli. Si combatte nelle fogne,  come racconterà Andrzej Wajda nel suo film Kanal (I dannati di Varsavia). Si beve vodka per farsi coraggio e andare all’assalto. Ci si nutre di cani, gatti, radici. I tedeschi arretrano. Ma, esattamente come spera Stalin, è lo sterminio di un’intellighenzia. Di grandi poeti come Krzysztof Kamil Baczynski e Tadeusz Gajcy, che i compagni cercano di non far combattere perché “troppo preziosi per la Polonia”. Antoni Bieniaszewski ha 25 anni, gli affidano il compito di bloccare i mezzi pesanti sull’arteria-chiave, Jerozolimska. “Costruimmo una trincea sotto il fuoco dell’artiglieria pesante. Morimmo come mosche. Un’impresa pazzesca, ma a noi paraggio pareva normale. Per tutta la rivolta non passò di lì un solo carro armato”. Oggi Antoni ha 85 anni, è un bell’uomo dalla schiena dritta e i grandi baffi bianchi. Sorride: “Ho scoperto solo ora, leggendo i libri di storia, quanto era importante la posizione che tenevo”. All’inizio la gente sostiene i combattenti, poi si dispera, li maledice. I bambini non hanno latte, i vecchi assistenza. Miron Bialoszewski racconterà il calvario dei civili in un libro uscito nel 1971 dopo vent’anni di censura. “Un racconto minuzioso e mistico, concentrato sulla fisiologia della sopravvivenza, un testo che ha spalancato nuovi orizzonti al linguaggio”, spiega il critico Jacek Kopcinski. Le catacombe, la paura dei crolli, la claustrofobia, il buio, la lettura del salmo 91, una voce che sussurra “Mi porterai sulle tue spalle affinché  io non mi ferisca i piedi con le pietre…“. E quando, il 3 ottobre, arriva la capitolazione, su Varsavia scende un silenzio quasi metafisico. In quel silenzio, il canto di un vecchio rimasto solo, inebetito su una sedia della cucina. “La liturgia delle ore”, un antico canto contadino che diventa urlo, uno squarcio nell’anima. I tedeschi riconoscono il valore degli insorti, concedono l’onore delle armi. Poi cominciano a distruggere la città. Dinamite e lanciafiamme. L’ordine del Führer è „Vernichten und ausrotten”, annientare e sradicare. La colonna dei superstiti attraversa la Polonia verso i campi di prigionia, ma pochi solidarizzano. La Polonia profonda, contadina, gode della sconfitta dei “signori della grande città”. Inizia la tragedia di un eroismo negato. Quando arrivano i sovietici, i rivoltosi sono additati alla pubblica vergogna, messi in galera. Ai loro figli viene chiusa l’università. Morto Stalin, la storiografia comunista edulcora la rivolta come l’errore di una generazione nobile subornata da portatori di interessi ignobili. Ma solo anni dopo la storia riaffiora, escono i primi libri sull’evento. Racconta Kopcinski: “Quei libri ci hanno dato la forza di resistere. Nessuno può immaginare l’immensa forza morale che c’era nella parola scritta di quella generazione sconfitta. Un amore romantico della libertà, oggi inconcepibile. Oggi si parla del romanticismo polacco come sinonimo di nazionalismo e antisemitismo. Fu il contrario: il messianismo del nostro vate Mickiewicz ebbe radici ebraiche. Marek Edelmann, l’ultimo capo della rivolta del ghetto si rifece proprio a Mickiewicz, all’idea della morte cercata eroicamente e non subita. L’idea che la Polonia dovesse sacrificarsi per l’Europa nacque in ambienti ebrei”. Per anni, portare fiori in cimitero il primo agosto, è stato per i polacchi l’unico modo di dirsi anticomunisti. “Ora finalmente se ne parla nei discorsi ufficiali, si apre un museo sulla rivolta, i fiori del primo agosto sono diventati cerimonia, e questo sessantesimo anniversario è l’ultima occasione per sentire dal vivo le voce di quella grande generazione” spiega Jarek Mikolajewski del quotidiano Gazeta Wyborcza. Ma aggiunge: “Intanto il ricordo si è banalizzato, ha perso intimità. Ē diventato una cosa di piazza, calata dall’alto. Si erigono monumenti faraonici, ma quel cemento certifica anche la fine di un simbolo. La generazione dei ventenni non sa più nulla di quel grande evento”.  


Sillabario – Varsavia ’44

di Krzystof Zanussi

Quando scoppiò la rivolta mi trovavo nell’appartamento con mia madre e la cameriera. Mio padre era in città, da qualche parte, e non lo avremmo rivisto per molti mesi, ma per me costituisce il ricordo più importante dei primi giorni dell’insurrezione. Il telefono funzionava ancora e mio padre ci chiamò da poco distante, dicendo che sarebbe salito in cima al tetto e che se noi fossimo saliti sul nostro avremmo potuto vederlo. Ricordo con chiarezza di essermi arrampicato con cautela, nascondendomi fra i comignoli per evitare che mi vedessero e mi sparassero addosso. La mia memoria è confusa: era stata mia madre a dirci di fare cosÏ, oppure pensavamo che ci sarebbero state poche possibilità di rivederlo? Nell’inverno, quando venne scoperto a Cracovia, fu come un miracolo perché lo pensavamo morto. Ero già convinto di essere un bambino senza padre.


Himmler furioso “Fucilate i ribelli”

Anticipazioni/ da “La rivolta. La tragedia di una città  fra Hitler e Stalin”

di Norman Davies

L’ora “V” era stata fissata per le 17 del 1º agosto. Ma già alle 13.50, nel sobborgo di Zoliborz, un giovane capitano dell’Esercito Nazionale (o AK, l’Armia Krajova) noto come “Marek S” e che in seguito sarebbe diventato un famoso critico musicale, si distinse per essere stato il primo a dare inizio, in modo prematuro, alla rivolta. Alla testa della sua compagnia diretta verso il punto di raccolta, s’imbatté in una pattuglia motorizzata tedesca: “Ci fu un momento in cui ci guardammo negli occhi a vicenda con grande determinazione. Era ovvio che i tedeschi stavano valutando i possibili vantaggi e svantaggi, se intimarci l’alt o se fingere di non aver notato questo gruppo di giovanotti con addosso una specie di uniforme che portavano pistole mitragliatrici sotto le giacche... Poi decisero di entrare in azione, un breve scontro a fuoco dal quale uscimmo incolumi. Lanciammo le nostre bombe a mano dentro il loro autocarro, che esplose... e riuscimmo ad attraversare di corsa la strada e metterci al coperto assieme al resto del nostro reparto”. Alle 17, come concordato, i numerosi capisaldi tedeschi furono attaccati, occupati o bombardati da gruppi di giovani coraggiosi che portavano bracciali rossi e bianchi. I civili erano ancora per le strade, e alcuni rimasero vittime del tiro incrociato, oppure isolati per sempre dalle loro abitazioni. Ben presto la bandiera rossa e bianca sventolò in vetta al palazzo della Prudential, il più alto della città. Fu conquistato un importante arsenale e deposito tedesco. Altrettanto avvenne per l’ufficio delle poste, la centrale elettrica, gli uffici delle ferrovie del sobborgo di Praga e di vaste zone della città. Il costo fu di 2.500 morti, l’80 per cento dei quali dell’AK. Un totale simile a quello delle perdite degli Alleati sulle spiagge di Normandia il giorno dello sbarco. È  impossibile stabilire chi fu il primo insorto a cadere. Molti erano rimasti uccisi prima dell’inizio ufficiale della rivolta. Ma “Sadowski”, il figlio quindicenne dell’ex Primo ministro, deve essere stato uno dei primissimi caduti. Poco dopo le 17 del 1º agosto rimase ferito mortalmente in via Flory, davanti al caffè  Dabowski. Secondo la testimonianza di un compagno, che lo esortava a fuggire, dichiarò: “Non è per questo che mi hanno mandato qui”. E a questo punto, mentre attaccava un carro armato tedesco, venne investito dal getto di un lanciafiamme. Quella stessa sera morì in un ospedale da campo, in seguito a ferite, un altro elemento dello “Stag” di Sadowski: era “Canuta”, l’infermiera n. 1108, di trent’anni, colpita mentre cercava di soccorrere un soldato ferito nel corso dell’attacco alla Casa della Stampa. Cantante e autrice di canzoni, era stata lei a comporre il motivo più popolare della rivolta, Baionetta in canna, ragazzi. Aveva anche fatto da modella per la famosa Statua della Sirena di Varsavia, che i tedeschi avevano portato via. Il comando dell’AK era stato trasferito nella fabbrica di tabacco Kammler a Wola. Quella notte, dopo aver studiato i rapporti, apprese che molti obiettivi non erano stati conquistati. Gli insorti avevano avuto scarso successo in piazza Castello, al distretto di polizia e all’aeroporto, dove avevano subito gravi perdite. E soprattutto non erano riusciti ad assumere il controllo né  dell’imbocco occidentale né di quello orientale dei due ponti principali sulla Vistola. E si rendevano già conto che avrebbero dovuto affrontare una battaglia molto lunga. Il 2 agosto il comando dell’AK ristabilì il contatto radio con Londra, che aveva perso durante il trasferimento alla fabbrica Kammler. Il messaggio trasmesso in modo imprudente in chiaro il giorno precedente fu ripetuto in modo corretto in codice: “La battaglia per Varsavia è cominciata”. Ogni giorno, nei giorni successivi, il generale Boor chiese con insistenza a Londra di effettuare lanci di rifornimenti e armi con i paracadute e di far intervenire la brigata paracadutisti polacca, convinto che venisse ceduta dal comando britannico. Il 3 agosto gli insorti non solo si impadronirono del primo carro armato tedesco, ma lo ripararono e lo impiegarono in azione contro le truppe avversarie. Uno dei primi obiettivi fu il campo di concentramento delle Ss chiamato Fattoria delle oche. La loro intraprendenza rivelò alcune delle impreviste difficoltà in cui si trovavano già i tedeschi, nonostante il loro impiego di reparti speciali. Nella notte tra il 4 e il 5 agosto nel cielo di Varsavia comparve il primo bombardiere della Raf, giunto da una base aerea in Italia, che effettuò un riuscito lancio sulla piazza Krasinskich. Gli insorti non potevano sapere quanti altri erano decollati ed erano andati perduti, ma presero coraggio, sentendo di non essere dimenticati del tutto. Il 5 agosto giunse a Varsavia l’Obergruppenführer delle Ss Erich von dem Bach, per assumere il comando di tutte le operazioni contro gli insorti. Il suo arrivo coincise con le notizie di massacri in massa di civili, di profughi in fuga e di pesanti bombardamenti. Domenica 6 agosto fu la sesta giornata della rivolta. L’idea degli insorti era di resistere per quarantotto ore e al massimo per cinque o sei giorni, e ormai quel limite era stato raggiunto. Ma non c’era alcun segnale di sviluppo positivo. Erano riusciti ad assumere il controllo di buona parte della capitale ma non erano riusciti a scacciare i tedeschi. Avevano sempre capito che i contrattacchi tedeschi a est della Vistola avrebbero potuto sconvolgere i loro piani, ma non avevano modo di sapere come andavano i nuovi scontri fra truppe corazzate tedesche e sovietiche. Nutrivano molte speranze sulla missione del loro Primo ministro a Mosca, ma non ne conoscevano ancora il risultato. Avevano inviato appelli agli Alleati occidentali, ma fino a quel momento non avevano avuto una risposta chiara. Non restava altra scelta che continuare a combattere. Non avevano vinto e non erano nemmeno stati sconfitti. (…) I dirigenti nazisti reagirono con selvaggia soddisfazione. La rivolta dava loro il pretesto per punire Varsavia una volta per tutte. Alle 17.30 Himmler venne informato per radio. Andò su tutte le furie e spedì un messaggio al comandante del campo di concentramento di Sachsenhausen con l’ordine di giustiziare il generale Grot. Un rapporto iniziale parlava soltanto di “disordini” a Varsavia e dell’ipotesi, sbagliata, che i ribelli fossero comunisti. Il generale Hahn corresse quella sera il suo errore informando Berlino che i ribelli appartenevano al  “movimento nazionale di resistenza, l’Armia Kraiowa” e che portavano bracciali rossi e bianchi, non rossi.


La mia poesia sotto le bombe

Il poeta polacco premio Nobel ricorda quei giorni

di Czeslaw Milosz

Migliaia di civili rimangono bloccati dallo scoppio dell’insurrezione. L’ora della distruzione di Varsavia si stava avvicinando. La sollevazione era stata un’iniziativa deplorevole, presa a cuor leggero: confermava in pieno la diagnosi di “Tygrys”, il professor T. Kronski - anche se nessuno poteva dire quale forma avrebbe assunto la leggenda o quale influenza avrebbe potuto avere nei decenni e nei secoli a venire. Si poteva già sentire il rombo dell’artiglieria sovietica. Le voci di una rivolta furono accolte con gioia: la possibilità di gettarsi contro i torturatori e di vendicarsi... Ben presto, tuttavia, giunse la notizia che non vi sarebbe stata alcuna insurrezione. Uno dei miei colleghi socialisti mi disse che agire ora, mentre il Primo ministro del governo di Londra si stava recando in volo a Mosca, era una sciocchezza. Stalin era tropo astuto per trattare con chiunque avesse un simile asso nella manica... Quel giorno, il primo agosto, Janka e io ci stavamo recando a casa di Tygrys per un colloquio dopo pranzo e per una tazza di tè. Io dovevo parlare di una cosa terribilmente importante: in sostanza, della mia nuova traduzione di una poesia inglese. Quando si usciva di casa non si doveva mai essere troppo sicuri di tornare, non solo perché poteva succederti qualcosa, ma anche perché c’era il rischio che la casa non esistesse più. Quella nostra passeggiata sarebbe durata molto a lungo. Dieci minuti senza pensieri sotto un cielo limpido. Poi, all’improvviso, scoppiò il caos e il mio angolo visuale cambiò, perché mi trovai a proseguire carponi. Questo rione di periferia, in cui orti e case sparse confinavano con la campagna, pullulava di soldati delle Ss. Le mitragliatrici sparavano contro tutto ciò che si muoveva. Alcuni amici abitavano poco distante, ma quando non è possibile né camminare né correre, anche soltanto cento metri diventano un vero e proprio viaggio... Nonostante tutto non abbandonai mai il mio libro - in primo luogo per rispetto alla proprietà statale, dato che era contraddistinto da un numero di serie della Biblioteca dell’Università; in secondo luogo perché ne avevo bisogno (anche se avrei potuto smettere di averne bisogno). Il titolo era The Collected Poems of T. S. Eliot, nell’edizione della Faber & Faber. Quando riuscimmo a raggiungere carponi l’isola era ormai l’alba del giorno dopo: era un piccolo appartamento moderno con bellissimi fiori nel cortile; gli spazi aperti circostanti lo facevano sembrare del tutto tagliato fuori dal mondo esterno.


Il ferito più grave è diventato mio marito

Il racconto di Danuta, infermiera nella città vecchia

Varsavia – “I malati mi chiamavano Blondynka, la biondina. Facevo l’infermiera nell’ospedale di Stare Miasto, la città vecchia. Piovevano bombe, mancava la luce, non c’era cibo. Non potevo immaginare che il peggio sarebbe arrivato dopo, con la resa. Stare Miasto alzò bandiera bianca cinque settimane prima della capitolazione generale. E allora cominciò l’inferno”. Danuta Slazak ha ottant’anni, occhi azzurri, un sorriso solare e rossetto sulle labbra. Una donna serena. “Lo humor - racconta - è stato la mia sopravvivenza”. Ha preparato una torta di mele. Accanto a lei l’amico Jan Kreusch, 79 anni, altro reduce della rivolta, versa una grappa di miele alle erbe. L’ha fatta lui, compresa l’etichetta, stampata al computer. Sopra c’è scritto “prodotto anti-monopolistico”. Una generazione indomita. “La città vecchia si arrese il 31 agosto, dopo appena un mese. E subito arrivò in ospedale la brigata Dirlewanger, guidata dal generale Kaminskij. Erano criminali ucraini, avevano avuto dai nazisti licenza di saccheggio. Rubarono anelli, croci, portafogli. Poi trovarono l’alcol, lo bevvero, violentarono le ragazze ferite gravi e le uccisero. Fecero uscire i feriti leggeri e diedero fuoco all’ospedale per ammazzare i malati gravi”. “Mi nascosi sotto la branda del pronto soccorso, sotto un ferito. E approfittando della confusione cominciai a portar feriti attraverso il muro sbrecciato che portava a un’altra casa. Ne ho raccolti ventuno. Non so come ce l’ho fatta, allora ero molto magra. Dovevo sollevarli di peso, strisciare spostando travi in fiamme. Il fisico ha davvero risorse infinite”. “La città era diventata un labirinto di sotterranei, i crolli avevano creato varchi tra cantine, corridoi, cortili, canalizzazioni. Tutta la vita si era spostata là sotto, avevo imparato a conoscere quel dedalo. Così sistemai i feriti. Intimai loro di tacere e partii alla ricerca di cibo, acqua e bende. Mantenere il silenzio era fondamentale, perché non si sparava più in quella zona, e i civili erano stati tutti sgomberati. Anche un lamento si sarebbe sentito, e ci avrebbero scoperti”. “Trovai delle zollette, ne distribuii una al giorno. La vodka scoperta in una cantina fu il disinfettante. Raccolsi l’acqua dagli scoli, la feci bollire bicchiere per bicchiere. Le lenzuola degli appartamenti vuoti furono le bende. Non bastava mai, i malati morivano. E ogni volta che uno se ne andava, ne trascinavo fuori il corpo, all’uscita del rifugio, per tenere lontano i tedeschi”. “Faceva caldo, fuori c’era un agosto stupendo, ricordo che respirarne l’aria dava brividi di piacere. Con quella temperatura i corpi si decomponevano, la puzza era orrenda, e proprio per questo funzionò. Non ci trovarono mai. Nessuno poteva pensare che in quel cimitero abitassero dei vivi”. “Alla fine i feriti rimasero in due. Era il 9 ottobre. Non sapevo che Varsavia si era arresa. Uscii ancora a caccia di cibo e vidi dei civili all’aperto che saccheggiavano una chiesa bombardata. Gridai: siete pazzi! Vi ammazzeranno! Mi spiegarono che era finita, che potevo uscire. Allora chiesi loro di aiutarmi a portare i feriti in ospedale, ma non mi badarono”. “Traversai disperata la città, andai all’ospedale maggiore, ero senza forze. Mi vidi allo specchio, avevo 35 chili, i capelli bruciati, il corpo mangiato dalle pulci. Trovai due uomini robusti con un carretto e li portai con me. Arrivammo dai feriti, che avevano perso la speranza che tornassi. Uno aveva una gamba in cancrena”. “Eravamo così malconci che persino la Wehrmacht ci aiutò. Ricoverai i due sopravvissuti, mangiai la mia prima, indimenticabile minestra. Mi dissero che il ferito con la cancrena doveva essere amputato. Lui, prima di entrare in sala operatoria, mi prese la mano e mi disse: Danuta, alla fine ti sposo. Sopravvisse. E divenne il compagno della mia vita”.

(p.r.)

Da la Repubblica, 14 luglio 2004, per gentile concessione

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