DIARIO di Repubblica
Sionismo - Cento anni fa scompariva Theodor Herzl
Le radici dello Stato ebraico
Benny
Morris*
Quando nel 1896 Theodor Herzl, fondatore del sionismo
politico, pubblicò Der Judenstaat (Lo Stato ebraico) ritenne di
aver gettato le premesse per la soluzione del “problema Ebraico” che aveva
assillato l’Europa sin dall’espulsione dalla Giudea/Palestina degli ebrei ad
opera dei romani nel primo e nel secondo secolo. Herzl era profondamente
preoccupato per l’ondata di antisemitismo scatenatasi in Francia in seguito
all’affare Dreyfuss (“A morte gli ebrei!” urlava la folla per le strade di
Parigi) e dai pogrom che periodicamente si abbattevano sull’impero russo ed
era giunto alla conclusione che gli ebrei non potevano più considerarsi al
sicuro in Europa: la società cristiana inevitabilmente avrebbe degradato,
ucciso o scacciato gli ebrei. Al pari di molti intellettuali ebrei europei della
fin de-siécle, anche Herzl sentiva che quella tragica fatalità –
l’Olocausto - stava per abbattersi su di loro. La salvezza poteva trovarsi
nella creazione di uno “Stato ebraico” sovrano, nel quale gli ebrei
sarebbero emigrati in massa. Egli procedette dunque a radunare attorno a sé i
gruppi sionisti che già esistevano in embrione in Europa e diede vita all’
“Organizzazione Sionista” che mezzo secolo dopo fondò lo Stato di Israele.
Herzl morì, in miseria e in solitudine, nel 1904, ma nel 1897, sullo sfondo
della riunione del primo congresso sionista a Basilea, in Svizzera, dove
l’Organizzazione Sionista fu fondata e dove si decise che suo obiettivo doveva
essere la fondazione di uno Stato, egli così annotò nel suo diario: “A
Basilea ho fondato lo Stato ebraico... forse tra cinque anni, sicuramente tra
cinquanta, tutti se ne renderanno conto”. Sbagliò di un anno soltanto:
Israele fu fondato il 14 maggio 1948. Herzl aveva sperato di fondare uno Stato
ebraico grazie a un’opera di patrocinio, quantunque lautamente ripagata,
dall’Impero Ottomano, che all’epoca governava la Palestina, o con
un’azione di forza maggiore da parte delle Grandi Potenze - Gran Bretagna,
Germania, Francia - che avrebbero
piegato i turchi al loro volere. Herzl pose fine al lavoro dei “sionisti
pratici” che comperavano appezzamenti di terreno in Palestina, un acro qui e
un acro là, e inviavano in quella terra sterile dei gruppetti di coloni a
fondare dei piccoli insediamenti ebraici in mezzo alla poco accogliente
popolazione indigena araba. Il sistema era troppo modesto e troppo lento,
dichiarò. Gli ebrei europei avevano bisogno di un rifugio sicuro molto più
rapidamente. Lo Stato doveva essere istituito immediatamente, non tramite un
lento processo evolutivo. Come poi risultò, Herzl aveva avuto torto e ragione
al tempo stesso: la fondazione di uno stato ebraico richiese effettivamente
delle sanzioni internazionali e aiuto - prima da parte dell’impero inglese con
la dichiarazione di Balfour del 1917 e il successivo mandato, in seguito dalla
comunità internazionale tutta, tramite la risoluzione 181 del 29 novembre 1947
dell’assemblea generale delle Nazioni
Unite (che raccomandò la creazione di uno Stato ebraico e di uno Stato arabo
palestinese in una Palestina ripartita). E senza alcun dubbio nel corso dei
decenni il contributo finanziario, politico e militare occidentale –
essenzialmente americano, ma anche talora francese e tedesco - contribuì a
garantire l’esistenza di Israele nel tempo. Herzl però si era sbagliato in
merito al significato del Sionismo pratico. Senza dubbio fu l’emergente rete
di insediamenti e di infrastrutture ebraiche di autogoverno e di autodifesa ad
aprire la strada sia alla vittoria di Israele nei confronti degli aggressori
palestinesi e degli eserciti arabi stranieri nel 1948, sia la tempestiva
trasformazione da comunità di minoranza a entità statale vera e propria. In
che cos’altro sbagliò il Profeta del Sionismo? Beh, se Herzl fosse vissuto
fino al 2004 non sarebbe stato in grado di colloquiare con quasi nessun
israeliano. Soltanto una esigua minoranza di loro, infatti, conosce il tedesco o
il francese, le lingue parlate da Herzl. Non parlava l’ebraico (o Yddish), non
avrebbe mai immaginato che l’ebraico sarebbe stato resuscitato e sarebbe stato
comunemente parlato, e che la cultura israeliana, con tutta la sua profusione di
scrittori, artisti, scienziati e studiosi, sarebbe stata una cultura ebraica. Ma
di fatto in relazione alla forma di governo presagita ciò che pensò fu più
giusto che sbagliato. È vero, liberale illuminato e non credente, egli si era
augurato di escludere la religione dal regno della politica e aveva auspicato e
predetto una separazione assoluta tra Stato e Sinagoga, come nella Francia
repubblicana. Herzl si sarebbe senza dubbio sbalordito di assistere alla nascita
in Israele di forti partiti religiosi, guidati da rabbini superstiziosi e
ignoranti. Ma, detto ciò, Israele non è una teocrazia: era e rimane una
rigogliosa democrazia di più fazioni, con una pletora di partiti laici
dominanti. Forse, per quanto sbalordito, Herzl ciò non di meno si sarebbe
sentito a casa sua. Herzl, specialmente nel suo secondo libro, Altneuland (La
terra vecchia e nuova) del 1902, un racconto utopista ambientato in Palestina
nel 1923, aveva presagito l’affermarsi dello stato ebraico come l’ultimo
avamposto europeo in Medio Oriente. E Israele era e rimane proprio questo. Ecco
perché Israele è cosÏ profondamente odiato dal mondo islamico che lo
circonda: il mondo arabo considera Israele un alieno, un innesto europeo nel
cuore del mondo arabo, e aborre i valori che esso incarna, l’apertura
intellettuale, la (relativa) tolleranza del prossimo (nella vicina Giordania, un
ebreo non può per legge essere un cittadino a
tutti gli effetti), la sua libertà politica, l’uguaglianza tra i sessi (nella
confinante Arabia Saudita le donne non possono guidare la macchina né votare),
la libertà sessuale (in Egitto gli omosessuali vanno in prigione). Da questo
punto di vista, per come la vedono Hamas o la Jihad islamica, Israele pur non
facendo nulla, semplicemente essendo ciò che è, costituisce una grave minaccia
per i loro costumi e per il loro stile di vita. Questo ci porta all’errore di
previsione più importante commesso da Herzl, quello del “problema arabo” di
Israele. Herzl aveva vissuto in un’epoca anteriore alla nascita dei movimenti
nazionalisti del Terzo Mondo, e anteriore alla nascita del nazionalismo arabo.
In realtà Herzl travisò la natura del nazionalismo moderno - che colloca
l’auto-determinazione nazionale (anche se quell’auto-determinazione è
spesso incarnata da governi dispotici) al di sopra di tutto il resto (benefici
materiali, arricchimento culturale), e soprattutto aborre il dominio da parte di
estranei - e non previde l’esplosione demografica che la combinazione di
scienza occidentale, interessi politici e proibizioni islamiche concernenti il
controllo delle nascite avrebbe portato nel mondo arabo islamico. Quando Herzl
nel 1898 aveva visitato la Palestina, il paese era abitato da circa mezzo
milione di arabi e circa 50.000 ebrei. Oggi esso conta oltre quattro milioni di
arabi (insieme a cinque milioni di ebrei, gran parte dei quali sono immigrati
dall’Europa, dall’Asia e dal Nord Africa). Questi arabi insultano Israele e
inneggiano alla sua fine, come del resto fa gran parte del circostante mondo
arabo, che continua a confutare la legittimità stessa del Sionismo e di
Israele. Nei suoi scritti Herzl diede scarsa importanza al “problema arabo”:
anzi, pare che non lo considerasse affatto un problema. Diede per scontato che
provocare lo spostamento di una popolazione dalla Palestina alla Cisgiordania o
alla Siria non avrebbe dato adito ad alcun grande problema o trauma: gli arabi
si sarebbero semplicemente spostati da una zona della loro “patria” araba ad
un’altra. Inoltre Herzl mancò completamente di considerare la reazione alla
nascita in mezzo a loro di uno Stato ebraico da parte delle circostanti società
arabe (in Siria, in Egitto e in Iraq). Il che ci riporta alle origine stesse del
sionismo: Herzl aveva auspicato la nascita di uno Stato ebraico che potesse
costituire un rifugio sicuro per le comunità ebraiche perseguitate e minacciate
in tutto il mondo. In una parola aveva sperato di salvarle. Ma paradossalmente
il conflitto arabo-israeliano e, più recentemente e specificatamente,
l’attuale guerra israelo-palestinese ha innescato in Europa una nuova ondata
di antisemitismo, quantunque questa volta non sia più caldeggiata dai
cristiani, ma dalle comunità musulmane del continente. Al tempo stesso il
Sionismo, pur creando la più potente comunità ebraica della Storia, ha creato
uno Stato che è il più vulnerabile e minacciato del mondo. In effetti,
l’odio incessante del mondo arabo musulmano per Israele, nonché gli sforzi
islamici (vedi Iran) per entrare in possesso di armi di distruzione di massa,
mettono a repentaglio l’esistenza stessa di Israele. Herzl, senza dubbio,
avrebbe apprezzato l’ironia e la tristezza di una simile evoluzione.
* Benny Morris è professore di Storia all’Università di
Beer’ sheva e autore di numerosi saggi tra cui il celebre Vittime (Rizzoli).
Traduzione di Anna Bissanti
SILLABARIO – SIONISMO
Amos
Oz*
Nonno spasimava per la terra d’Israele
costruita dal deserto, per la Galilea e le valli, per Sharon e Ghilead e Ghilboa
e i monti di Samaria e quelli di Edom, “avanti Giordano, avanti scorri, le tue
onde tuonano”, versava i soldi al Fondo nazionale, pagava la decima sionista,
divorava avidamente ogni brandello di notizia che veniva dalla Palestina,
accoglieva con entusiasmo appassionato i discorsi di Jabotinsky quando questi
passava ogni tanto per la Vilna ebraica e trascinava gli animi. Nonno ebbe
sempre piena fiducia della politica nazionalista, fiera e ignara del compromesso
di Zeev Jabotinsky, e si considerava un sionista militante. Con ciò, per quanto
la terra di Vilna ormai bruciasse sotto i piedi suoi e di tutta la sua famiglia,
era ancora propenso - o forse lo era la nonna Shlomit - a cercare una patria
nuova che fosse un poi meno esotica della Palestina e un poi più europea della
Vilna su cui stava calando la tenebra.
* Il testo è tratto da Una storia d’amore e di tenebra,
pubblicato da Feltrinelli.
Se un popolo corre verso un’utopia
Intervista
ad Abraham B. Yehoshua */ Cosa
resta del sionismo
di
Alberto
Stabile
Gerusalemme
- Cento
anni dopo la morte di Theodor Herzl, si può dire che il suo programma abbia
raggiunto il suo scopo: lo Stato d’Israele esiste.
“Solo
per il fatto che abbiamo la Legge del Ritorno. Questo paese deve rimanere un
punto di attrazione per gli ebrei di tutto il mondo affinché possano
normalizzare la loro esistenza”.
Se dovesse dare uno sguardo critico al sionismo, in quanto strumento politico per la creazione dello Stato Ebraico, quali errori potrebbe trovare e correggere?
“Direi
che l’errore non è del sionismo, bensì del Popolo Ebraico. Sionismo è solo
il nome della medicina. Il problema è il paziente. Il sionismo è solo l’idea
su come restituire la normalità al popolo. Naturalmente vedo alcuni errori
commessi dalla leadership del Movimento sionista. Ad esempio, vedo un errore in
quanto accadde negli anni ’20 del secolo scorso: volevano costruire anche una
nuova società ed hanno concentrato troppa attenzione sulla natura del futuro
Stato, senza preoccuparsi del fatto che era necessario portare quanti più ebrei
fosse possibile. Quando la sinistra, negli anni ‘20 parlava della creazione di
uno Stato che fosse socialista provocò una forma di riluttanza nella piccola
borghesia, negli ebrei della Diaspora, che erano soprattutto commercianti e che
si spaventarono all’idea di venire in Eretz Israel e di perdere i loro soldi,
assoggettandosi ad un regime socialista. CosÏ Ë stata perduta l’occasione di
farli venire al più presto”.
Non pensa che l’aver sin dall’inizio ignorato le aspirazioni nazionali della popolazione araba, che a quel tempo abitava nella regione, abbia portato la leadership sionista a scegliere la via del confronto militare, che dura tuttora, invece che quella di un processo politico con l’obiettivo di arrivare ad un accordo?
“Ritengo
che fino al 1948 non vi fosse scelta. Gli arabi erano contro e questo è
naturale, ogni altra popolazione sarebbe stata contro l’immigrazione degli
ebrei. Soprattutto se si paragonano
i numeri della popolazione araba e di quella ebraica nel 1917, al momento della
Dichiarazione Balfour. Il numero degli arabi in Palestina era di 550.000, mentre
quello degli ebrei nel mondo era di 18 milioni. Quindi si sono detti che se agli
ebrei fosse stato permesso di venire liberamente, immediatamente li avrebbero
superati di numero, assicurandosi il controllo di tutto il territorio. La loro
opposizione era quindi naturale. Il problema con gli arabi ed i palestinesi era
che essi erano decisi a combattere e non hanno accettato compromessi fino a
quando non è stato troppo tardi. I sionisti hanno offerto molti compromessi,
all’inizio, soprattutto perché negli anni ‘20 pensavano: “Dov’è il
problema? Verremo qui, saremo sei-sette milioni, daremo immediatamente la
cittadinanza a tutti gli arabi” e, nella visione herzeliana dello Stato
Ebraico, non ci sarebbero stati più problemi. Penso che i sionisti non abbiano
visto il problema arabo perché da un lato pensavano che in ogni caso sarebbe
stato risolto dal loro numero sovrastante, e dall’altro, se l’avessero
visto, sarebbero giunti alla conclusione che avrebbero dovuto ritirarsi. Quindi
hanno preferito chiudere gli occhi. Dopo il í48, dopo la fondazione dello
Stato, non penso che gli arabi fossero disposti al compromesso. L’errore più
grave è stato commesso dopo il ‘67, la Guerra dei Sei Giorni, ma questo non
ha nulla a che fare con il Sionismo. Si tratta della politica dello Stato
d’Israele”.
Nella dottrina revisionista di Vladimir Jabotinsky, però, vi era l’idea di questo confronto nelle relazioni fra lo Stato Ebraico e gli arabi: Jabotinsky parla di una “muraglia di ferro”.
“Certo,
questa era la sua idea, in quanto leader, ma non ha nulla che fare con il
sionismo. Prima di tutto non è mai stato il leader perché si è sempre trovato
all’opposizione, ma ha avvertito
che il confronto ci sarebbe stato e che bisognava prepararvisi, perché, a suo
parere, non vi era altra scelta. Comprendendo l’opposizione degli arabi, i
leader della comunità ebraica in Palestina pensavano all’inevitabilità del
confronto e tentavano di posporlo, perché si rendevano conto di non essere
sufficientemente forti e di dipendere dagli inglesi. Se qui non fossero arrivati
gli inglesi, anche il sionismo non avrebbe potuto arrivarci. Gli arabi li
avrebbero respinti immediatamente”.
Non crede che la barriera difensiva che si sta costruendo ora sia la realizzazione concreta della “muraglia di ferro” auspicata da Jabotinsky ottant’anni fa?
“No,
la muraglia difensiva era una metafora di come gli ebrei avrebbero dovuto porsi
e resistere di fronte agli arabi, ma dopo avere dato loro tutti i diritti.
Jabotinsky vedeva un popolo di 18 milioni di persone, non ha visto l’Olocausto
(morì nel 1940). Pensava che milioni di ebrei sarebbero venuti, gli arabi
sarebbero stati all’opposizione, e noi avremmo dovuto porci nei loro confronti
come una muraglia di ferro, ma alla fine gli arabi avrebbero avuto pieni diritti
di cittadinanza. Quello che è successo, in primo luogo, è che gli ebrei non
sono venuti, poi c’è stato l’Olocausto e quindi i termini del problema sono
cambiati: nel senso che non potevamo più superare numericamente gli arabi e
quindi non potevamo dare la cittadinanza alla maggioranza degli arabi che erano
qui. I fatti di oggi sono in parte conseguenza dell’occupazione e degli errori
commessi da Israele. Se la barriera fosse sulle linee del ‘67, sarebbe una
buona cosa, sia per noi che per i palestinesi, perché ridurrebbe il
terrorismo”.
“Vorrei
essere chiaro. Il sionismo è solo il fatto di portare qui il Popolo Ebraico.
Quello che gli ebrei avrebbero fatto qui è un’altra cosa. Ogni paese ha i
suoi partiti, le sue ideologie e le sue numerose concezioni della politica. Ciò
non ha nulla a che fare con il sionismo. Il sionismo dice semplicemente che si
deve normalizzare la situazione degli ebrei, portando il popolo a vivere sul
suo territorio. Le altre cose sono politica, ideologia ed esistono in ogni altro
paese del mondo”.
Che cosa risponde a quegli intellettuali e politici, come Abraham Burg, che lo scorso anno ha proclamato in un suo articolo la morte del sionismo a causa della decadenza morale della classe politica israeliana?
“L’ho incontrato e gli ho detto che non aveva capito cos’era il sionismo. Non ha capito ed ha parlato solo delle sue frustrazioni politiche, ha criticato lo Stato ed il governo di Israele, pensando di parlare di sionismo. È come se in Italia qualcuno criticasse la politica di Berlusconi, affermando che perciò l’Italia è morta. O che il Risorgimento ha fallito perché Berlusconi sta facendo questa o quella cosa. O che l’unità d’Italia è stata una tragedia, perché in Sicilia c’è la mafia. Ho detto e ripetuto che il sionismo non è una politica, bensì la cura ad una certa malattia ebraica. Ciò che gli ebrei fanno con lo Stato è una questione aperta. Una volta le cose vanno così una volta cosà. Sharon ha messo gli insediamenti a Gaza ed ora li toglie. Si tratta di scelte politiche che non hanno nulla a che vedere con il sionismo”.
Nonostante che
l’esistenza dello Stato d’Israele sia un fatto compiuto, la profonda natura
religiosa di questo tipo di stato sembra non rispondere alle esigenze di una
società moderna, multietnica e multireligiosa. Lei stesso nel suo ultimo libro
si augura che Israele possa diventare in futuro una società più aperta. Oggi
però sembra accadere l’opposto, con la crescente pressione dei partiti
nazionalisti e religiosi, che non vorrebbero nemmeno che l’esercito si
ritirasse da Gaza. Che cosa ne pensa?
“Lo Stato non è
religioso, lo Stato è guidato dal parlamento, che può decidere. Nel parlamento
vi sono, ovviamente persone religiose, che hanno opinioni diverse l’una
dall’altra. Lo Stato deve essere governato dal popolo e non da Dio, o da una
qualsiasi altra autorità, se non dalla volontà del popolo stesso. Questo è
quello che succede in ogni altro paese democratico del mondo e noi facciamo
parte di questa categoria. Quindi, coloro che si oppongono al ritiro da Gaza,
parlano come i coloni francesi in Algeria, che anche lì si opposero. Non
c’entra con il sionismo. E se il governo francese ha imposto l’evacuazione
ai coloni francesi in Algeria, questo è ciò che faremo noi con i nostri
coloni”.
*
Abraham B. Yehoshua, è uno dei più noti scrittori israeliani.
Quella scommessa chiamata Israele
Nasce un centro di ricerche sulla storia del sionismo
Maoz Azaryahu *
La storia del sionismo è racchiusa al meglio nelle foto
e nelle lettere che documentano i suoi primi successi, la creazione di una nuova
vita ebraica nella vecchia patria ebraica. I matrimoni e le escursioni, i bagni
in mare e i bambini a scuola dimostrano la misura in cui il Sionismo ruppe gli
usuali schemi della vita ordinaria. Lo stesso vale per le lettere, nelle quali
la gente si raccontò gioie e dolori, pensieri e aspirazioni. Il sionismo
riguarda una visione e il successo del sionismo è quanto mai evidente nella
creazione di una nuova vita ebraica in Israele. In anni recenti, oltre alla
spietata campagna militare-terroristica contro di esso, è la legittimità
stessa di Israele ad essersi venuta a trovare sotto attacco ideologico. Questo
attacco assume molteplici forme, ma essenzialmente si presenta con
pretesti ipocriti e moraleggianti che hanno scarsa attinenza con la realtà e
che spesso smentiscono addirittura la Storia. Questo attacco è stato una
sorpresa per coloro che sottovalutano la misura dell'odio indirizzato contro lo
Stato ebraico. Questa situazione ha indotto un gruppo di intellettuali
israeliani a fondare Metom, un centro indipendente di ricerca e
documentazione dedito allo studio della dimensione culturale del sionismo, con
un'attenzione particolare alla cultura popolare e ai modelli della vita
contemporanea. La priorità assoluta del Metom è la documentazione: suo
scopo è quello di raccogliere e rendere accessibili le foto e le lettere della
gente comune, la cui vita entrò a far parte di una delle più grandi avventure
del ventesimo secolo: il ritorno degli ebrei nella Storia non più come vittime
– ruolo che era diventato loro consueto – bensì come nazione indipendente,
libera e democratica. Metom non si interessa alla nostalgia per i tempi
andati, ma dà una riposta alla necessità di comprendere da una nuova
prospettiva la storia collettiva del sionismo, una storia che è ancora in corso
di evoluzione. In ebraico Metom significa unità, forza. L'idea che sta
dietro questo centro è abbastanza semplice: attirare l'attenzione su quello che
con ogni probabilità è il successo più grande del sionismo, l'aver fatto
nascere e sviluppare uno stile di vita precipuamente israeliano, che si
manifesta nella sua cultura popolare e nelle sue consuetudini di vita
quotidiane. Oltre alla documentazione, ai libri e alle conferenze, il nostro
centro vuole rafforzare gli ideali e le idee che hanno reso il sionismo un
simile straordinario successo. Poiché lo Stato ebraico è ora diventato l'ebreo
tra le nazioni, poiché la calunnia ha ora preso il sopravvento sul dibattito
sincero, e poiché la verità ha ceduto il passo all'odio e all'invidia, il
compito del Metom si è fatto quanto mai urgente. Il centro di
documentazione è stato fondato per aiutare e difendere le premesse culturali di
un Israele sovrano, libero e democratico e punta a enfatizzare i principi morali
della nazione ebraica e della democrazia israeliana: suo scopo è quello di
influenzare un dibattito essenzialmente dominato da distorsioni spesso molto
ciniche della realtà e dai falsi presupposti dell'antisionismo e dei cliché
ipermoraleggianti che perpetuano gli antichi stereotipi antisemiti e i
pregiudizi antiisraeliani. Nella sua autobiografia Gorge Steiner annotò che
“Israele è un miracolo fondamentale: la sua creazione, il modo in cui resiste
contro ogni scommessa militare e geopolitica, i suoi successi civili, annientano
qualsiasi ragionevole aspettativa”. Scopo principale di Metom è anche
quello di attirare l'attenzione sul vero Israele: al contrario di quanto si
pensa comunemente in Europa, Israele non è un semplice aspetto del conflitto
ebraico-arabo. Al contrario: il conflitto non è che un aspetto, quantunque
molto importante, di Israele. Il vero Israele è un paese nel quale
l'aspettativa di vita è tra le più alte al mondo. Sebbene fondato da rifugiati
e tuttora impegnato in una battaglia per la propria esistenza, Israele si è
costituito quale isola di ricchezza e di libertà in un oceano di povertà e di
oppressione. È una società dinamica e aperta. Circondato da dittature ostili,
Israele è una democrazia viva, nella quale domina il rispetto della legge. E
infine, cosa di non poco conto, Israele rappresenta anche la continuità ebraica
in termini di cultura ebraica condivisa e di fiorente lezione ebraica. Metom è
stato fondato a partire dalla semplice considerazione che il sionismo e i suoi
successi rappresentano una delle più grandi vittorie del ventesimo secolo. La
rivoluzione sionista riuscì laddove molte altre rivoluzioni avevano miseramente
fallito: trasformare una visione profetica in un aspetto più che
incontrovertibile della vita quotidiana. Il paradosso è che il successo di una
visione implica che essa, prima o poi, diventi obsoleta. I fondatori del Metom
sostengono che un secolo dopo la morte di Herzl, colui che ebbe la visione
del sionismo, è tornato il momento di ribadire le idee e i valori che fecero di
esso un simile successo fenomenale.
* Maoz Azaryahu insegna geografia culturale all’Università
di Haifa.
(traduzione di Anna Bissanti)
Così l’Europa napoleonica creò l’ebreo come diverso
Theodor
Herzl e l’affare Dreyfus
Yoram
Hazony *
Theodor Herzl si ripropose di farsi un nome come
artefice della civiltà tedesca e figlio dell'Austria tedesca. In questo egli
trovò una vocazione nobile, esaltante, interessante, alla quale avrebbe
probabilmente dedicato la sua vita intera se non avesse compreso quello che
tutto il mondo avrebbe capito cinquanta anni dopo: che la libertà non aveva
portato gli ebrei europei all'inizio di una nuova vita, ma alla sua fine. A mano
a mano che negli anni seguenti si andò dipanando lo scandalo Dreyfus, Herzl
vide confermata la sua intuizione iniziale: l'ufficiale di artiglieria ebreo era
di fatto innocente. La colpa, piuttosto, era da imputare all'accordo concluso
con Napoleone (che, in occasione dell’emancipazione degli ebrei in Francia,
non accettava la loro esistenza quale nazione, n.d.r.), che aveva escluso
l'eventualità di una nuova identità per gli appartenenti all'antico popolo
ebraico. Gli ebrei d'Europa si erano battuti quasi cento anni per essere in
grado di rispettare quell'accordo. Eppure, nonostante tutti i miglioramenti che
avevano apportato al loro comportamento e ai loro principi, l'accordo di
emancipazione non era stato rispettato. Così scrisse in proposito Herzl:
“Dreyfus è soltanto un'astrazione ora. Egli è l'ebreo in una società
moderna che ha cercato di adattarsi al suo ambiente, che ne parla la lingua, ne
ha fatti suoi i pensieri, ne cuce i simboli alla propria tunica - e a cui quei
gradi sono stati strappati con la forza. Dreyfus rappresenta una posizione per
la quale si è combattuto, per la quale ancora si combatte e - non illudiamoci -
che è andata sprecata”. La soluzione di Herzl fu quella di un “ritorno
all'ebraismo”, di reclamare quello che Napoleone aveva strappato agli ebrei
con la forza della spada: la loro identità di popolo, il sogno di ricostruire
un loro Stato. Questo è il significato di quelle che forse sono le parole più
celebri de Lo Stato Ebraico, che oggi afferriamo cosÏ prontamente e che
suonarono come una vera empietà alle orecchie degli ebrei suoi contemporanei:
“Noi siamo un popolo, un solo popolo”. Gran parte degli ebrei cui erano
dirette quelle parole si rifiutarono categoricamente di ascoltarle, rispondendo
alla crescente marea dell'antisemitismo con la decisione di diventare sempre più
forti sostenitori dei movimenti socialisti che promettevano di portare la libertà
spogliando i tedeschi - e tutti gli altri popoli - dei loro interessi e dei loro
sogni, proprio come gli ebrei erano stati privati dei loro. Herzl, che a sua
volta aveva accarezzato questi stessi concetti, fu tra i primi a mettere in
guardia che il sogno di far inaridire gli Stati e le nazioni si basava su una
visione alterata della realtà. “Potremmo dire... che non si dovrebbero creare
nuove distinzioni tra i popoli, che dovremmo cercare di non erigere nuove
barriere, bensì di far scomparire quelle che già vi sono. Ritengo che chi
pensa in questo modo è un affascinante sentimentale, ma l'idea di patria
continuerà a espandersi, ben dopo che la polvere delle loro ossa sarà stata
soffiata via senza che ne rimanga più traccia”.
* Il brano
è
tratto da The Jewish State / The Struggle for Israel’s Soul.
(traduzione di Anna Bissanti)
Da la Repubblica, 30 giugno 2004, per gentile concessione