la Repubblica

 Giorno della Memoria   

Ciampi: “Shoah, ricordare è un dovere”

di Giorgio Battistini

ROMA - Oggi, per il giorno della memoria, dedicato alle vittime dell'Olocausto, ci saranno manifestazioni in tutta Italia. Con ventiquattro ore d'anticipo interviene il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi che legge in tv il suo messaggio: «Riflettiamo sulla Shoah, sullo sterminio degli ebrei organizzato dal nazismo. Dobbiamo ricordare perché l'orrore non abbia a ripetersi». Poi il capo dello Stato aggiunge: «Ricordiamo, perché da stessa enormità di quanto: accadde in quegli anni rende quel crimine quasi incredibile: “Meditate, che questo è stato”, è il monito che ci ha lasciato Primo Levi».

«Ricordiamo perché l'orrore non possa ripetersi». L'orrore dello sterminio sistematico, organizzato di milioni d'esseri umani, soprattutto ebrei. La maggior parte di quelli che allora vivevano in Europa. Carlo Azeglio Ciampi anticipa di ventiquattr’ore il "giorno della memoria” (oggi in calendario), il ricordo d'un «evento che non ha l'eguale nella storia», con una breve memoria in tv e premiando coloro.che si opposero, rischiando la vita, a quell'orrido sterminio. Un breve, intenso ricordo che il presidente ha letto durante i tg della sera. Condiviso da Romano Prodi, a Bruxelles, per il quale «la memoria della Shoah ha un significato ancora più forte per l'Europa, dove essa si è prodotta» e dalla cui tragica lezione «è nata la nuova Europa unita, fondata sul rispetto della persona umana, del diritto e della libertà». Quell' enorme tragedia ha tuttora «valore universale, perché l'umanità non ha smesso di macchiarsi di crimini come genocidio, pulizia etnica, razzismo, xenofobia, antisemitismo». Ancora una volta la "giornata della memoria". Per imparare a non dimenticare. Per ricordare i colpevoli e i giusti. Ieri Ciampi ha ricevuto al Quirinale il presidente della commissione d'inchiesta sulle cause dell'occultamento delle indagini sui crimini nazifascisti: 695 fascicoli trovati dopo oltre cinquat'anni, sui quali il Parlamento sta indagando. «La democrazia, la giustizia, l'amore del prossimo che ci è stato insegnato siano la nostra forza», esorta Ciampi in tv, «riflettendo sul passato, guardando a un futuro che vogliamo sia di pace e di concordia tra tutte le genti». E' importante ricordare lo «sterminio degli ebrei, di un intero popolo organizzato dal nazismo» perché «l'orrore non possa ripetersi, perché ogni manifestazione di antisemitismo, di razzismo in tutte le sue forme venga condannata e messa al bando». L'«enormità di quanto accadde in quegli anni» rende quel crimine «quasi incredibile. Meditate che questo è stato è il monito che ci ha lasciato Primo Levi». Ricorda i colpevoli, il presidente. «L'ideologia razzista di Hitler e di coloro che furono gli strumenti e i collaboratori che resero possibili, anche in Italia, le deportazioni». Ma non dimentica i «giusti», coloro che «agirono secondo coscienza e spirito di umanità. Dà conforto ricordare che tra loro ci furono anche tanti italiani, migliaia di persone, semplici cittadini, funzionari, diplomatici, militari che in ogni regione d'Italia e oltre confine (Grecia, Jugoslavia, Francia) salvarono, a rischio della loro vita, la vita di migliaia di ebrei, italiani o stranieri. Proprio per premiare il coraggio di chi seppe opporsi a una tirannia sanguinaria che deportava e sterminava in massa esseri umani colpevoli di esistere (la "soluzione finale" nei campi di concentramento si accanì soprattutto con gli ebrei, ma colpì anche altre diversità: handicappati e minorati, zingari, oppositori politici, omosessuali, testimoni di Geova, ma­ati di mente; e tanti militari) che Ciampi ha consegnato una serie di onorificenze alla memoria. Ad Angelo Donati (medaglia d'oro perché «salvò migliaia di ebrei di diversa nazionalità»), al comune di Assisi. Medaglie d'argento con analoghe motivazioni umanitarie alla memoria di monsignor Umberto Rossi, ai comuni di Castiglion Fiorentino, Vicchio, Campodimele. Questa mattina alle 10, in diretta tv, la celebrazione all’auditorium parco della musica promossa dal Senato, presente Ciampi.


Memoria d'un sopravvissuto

di Elie Wiesel

Undici aprile 1945: un ragazzino ebreo si svegliò e si rese conto d'esser vivo. 11aprile 1945: era un giorno particolare per tutta quella gente - in gran parte ebrei, ma non solo - che si trovava a Buchenwald, un campo vicino Weimar. Weimar è una città famosa grazie a Goethe - e a causa di coloro che nel campo erano stati condannati a morte. A partire dal 5 aprile, quando l'esercito americano aveva iniziato l'avvicinamento al campo, il comando delle SS iniziò, giorno dopo giorno, a eliminare migliaia di persone. Di 80mila che erano, ne erano rimasti 20mila circa, e questi dovevano essere fatti fuori proprio quell' 11 aprile. Quella mattina, quando si svegliarono, quei 20mila erano convinti d'esser rimasti gli ultimi esseri umani viventi di Buchenwald. I cancelli furono spalancati. Stava per avere inizio la marcia della morte. L'Angelo della Morte stava aspettando. All'improvviso accadde qualcosa. Ancora oggi non so di preciso cosa. Alcuni membri dei gruppi della resistenza interna al campo comparirono, imbracciando delle armi, e attaccarono i tedeschi. Due ore più tardi arrivò l'esercito americano. Quando furono lì mi domandai chi, tra loro e me, fosse più reale. Mi domandai chi, tra loro e me,fosse più umano. Mi domandai al sogno di chi io stessi assistendo, se al loro o al mio. Il ragazzino ebreo di quell'11 aprile da quel momento in poi ha dedicato la propria vita a scrivere storie, a raccontare fatti, cercando di trovare le parole opportune per descrivere ciò che le parole non possono dire, cercando di mettere a frutto quel che sapeva e quel che ricordava. Non ha cercato di destare pietà - è troppo tardi per la pietà. Non tentato di provocare commozione - è troppo tardi anche per quella. Ha cercato, cosa ancor più importante, di appellarsi a un qualche senso di giustizia, per il passato e, soprattutto, per il futuro. Credo che accadde verso mezzogiorno, o forse l'una. Ricordo con precisione che cosa feci. Ricordo chi mi trovai accanto. Ricordo le parole che avrei voluto proferire, ma che non proferii. Ricordo che alcuni prigionieri di guerra russi rinchiusi a Buchenwald non vollero attendere oltre, impugnarono delle armi, saltarono sulle jeep americane e si precipitarono a Weimar, la città della cultura, la città dello spirito, a cercare vendetta. lo ero troppo giovane ed ero troppo ebreo. Tutto ciò che i miei amici ed io finimmo col fare fu radunarci nelle nostre baracche e organizzare un minjan, una funzione religiosa. Che altro potevamo fare? Recitammo il Kaddish, la preghiera per i defunti. La recitammo in un modo che non potrò mai dimenticare. La recitammo nel modo in cui soltanto la gente squilibrata la sa declamare. Lì, sulle rovine della speranza umana, sulle rovine della civiltà, giovani e vecchi - esseri umani senza più età, spogliati di tutto ciò che dall’uomo è stato dato all’uomo - ci riunimmo per santificare e glorificare il nome del Signore eterno. Lì. In quel momento. Questo è ciò che facemmo. Ora cerco di rievocare, cerco di richiamare alla memoria i fatti per capire come questa storia conduca a me, che sono un insegnante, sono uno scrittore e cerco di raccontare storie e di capire le storie che racconto. Che cosa provai quel giorno? ! Che cosa provammo tutti noi quel giorno? Può sembrare sconcertante; ma è la verità: in noi non ci fu assolutamente amarezza. Non esecrammo nemmeno i nostri aguzzini. Fummo sopraffatti da un'indicibile tristezza ­non solo per le persone care che ci eravamo lasciati alle spalle, o che si erano lasciate noi alle spalle, ma in un certo qual senso anche per il futuro, perché istintivamente, intuitivamente, avevamo già percepito la verità. Una verità che avrebbe aggiunto molte dimensioni alla nostra tragedia. Ci rendemmo conto che per tutto quel tempo ci eravamo sbagliati. Avevamo ritenuto che il mondo non sapesse. Il mondo sapeva. Inoltre comprendemmo anche - ma soltanto molto più avanti - che gli assassini avevano messo in piedi un vero e proprio apparato. Non fu semplicemente questione di uccidere, come in un pogrom. L'ebreo è sempre stato abituato ai pogrom. Per molti secoli ha dovuto conviverci, qualche volta sopravvivendo, altre volte perendo in essi. Questa volta, invece, era stata messa in moto una vera e propria macchina - e ­ Dio ce ne scampi! - il sistema funzionava! Più tardi ancora scoprimmo anche che gli assassini non rappresentavano la feccia della società, bensì si trattava di gente che aveva studiato, molti dei quali laureati... Ne abbiamo apprese di cose, da quell'11 aprile. I pochi di noi che sopravvissero, sopravvissero soltanto per puro caso. E tuttavia proprio perché sopravvissuti, ritenemmo che ogni minuto delle nostre vite dovesse essere consacrato ad una sorta di missione impossibile - una vocazione, una responsabilità, un obbligo. Dovevamo fare qualcosa dei nostri ricordi; di tutto quello che sapevamo. Dovevamo farne qualcosa non tanto per amore dei nostri morti, quanto per amore dei bambini che ancora dovevano nascere, ebrei e cristiani, musulmani e buddisti, bambini di ogni dove. Si presentò un problema. Non ne avevamo gli strumenti. Come scrivere, quali parole utilizzare quando tutte le parole sono state ormai contaminate? Come restituire loro l'originale bellezza, la loro purezza? Come esprimersi a parole, quando si avver­te che ognuna di esse è inadeguata, minimizza l'esperienza vissuta, più che trasmetterla? Come si può comunicare qualcosa che per sua stessa natura, se non per la sua portata, travalica ogni comprensione, immaginazione, percezione umana? In un primo tempo i sopravvissuti dell' apparato nazista furono altresì vittime della società civile. Centi­naia di migliaia di sopravvissuti, liberati nel1945, furono obbligati a rimanere con le loro famiglie negli stessi campi dai quali erano stati liberati. Vi rimasero cinque anni, perché nessun paese volle accoglierli. A quel tempo nessuno poteva più dire «Non sapevamo». Tutti sapevano. Dopo la liberazione i cancelli continuarono a rimanere sbarrati e, ciò nonostante, noi non provammo indignazione. Persino allora continuammo soltanto a provare tristezza. Eravamo tristi perché la nostra storia non bastava come testimonianza; nessuno voleva recepire le nostre parole. Per molti anni i sopravvissuti furono considerati alla stregua di reietti... eppure ancora adesso credo che la storia che essi cercarono di raccontare, la loro storia grondante d'angoscia, non è circoscritta alla nostra sola vita. Ri­guarda me. Riguarda tutti noi... . E ora, abbiamo forse imparato a raccontarla quella storia? No, non ancora. Le parole sono tuttora troppo elusive, le immagini troppo sfocate. Non vogliamo raccontare storie tristi. Non vogliamo che vi rattristiate. Che cosa vogliamo a voi? Che siate più consapevoli, più schietti, più sensibili. Ecco, questa è la chiave giusta: maggiore sensibilità. Quando rievoco il passato, cercando di capire e di soppesare gli eventi che condussero a quel genocidio, ricordo insensibilità, indifferenza. Noi ebrei morimmo perché il mondo fu indifferente. Abbiamo appreso che l'indifferenza per il male è essa stessa male. Abbiamo appreso che se il male colpisce un popolo e gli altri non reagiscono, il male esacerba le proprie dinamiche. Vorrei che potessimo fermarlo. Quell'11 aprile 1945 un ragazzino ebreo cercò lì a Buchenwald di capire che sogno stesse facendo. Ancora adesso sto tentando di capire se i miei sogni mi appartengono davvero. Tutti i libri che ho scritto sono in realtà il mio modo di parlare a quel ragazzino. Sento il suo sguardo fisso sul mio volto. Lo sento chiedermi: «Che cosa ne hai fatto della tua vita?». lo scrivo. Scrivo. Scrivo. Cercando di spiegarvi ciò che ho fatto della mia vita. Non lo so. La risposta non verrà da me. Verrà dai nostri figli.

(Traduzione di Anna Bissanti)


 Sillabario   Primo Levi

“Shoah. È avvenuto, e quindi può accadere: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire. Può accadere, e dappertutto. Non intendo né posso dire che avverrà; è poco probabile che si verifichino di nuovo, simultaneamente, tutti i fattori che hanno scatenato la follia nazista, ma si profilano alcuni segni precursori. La violenza, “utile” o “inutile”, è sotto i nostri occhi: serpeggia, in episodi saltuari e privati, o come illegalità di stato, in entrambi quelli che si sogliono chiamare il primo e il secondo mondo, vale a dire nelle democrazie parlamentari e nei paesi dell’area comunista. Nel terzo mondo è endemica o epidemica. Attende solo il nuovo istrione (non mancano i candidati) che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo. Pochi paesi possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso, da attriti razziali.”  


Le altre vittime della follia nazista. Essere diversi al tempo di Hitler

La politica razziale del nazismo contro gli omosessuali

di Gűnter Grass

La persecuzione degli omosessuali e altre misure repressive iniziarono poche settimane dopo la presa del potere da parte del partito nazista all'inizio del 1933. Negli anni successivi, la pressione su queste categorie divenne sempre più dura, e i provvedimenti dello Stato contro gli omosessuali s'intensificarono nell'ambito d'un sistema completo di manipolazione. Vennero emanati circa venti provvedimenti legislativi, ordini segreti e norme speciali da cui si possono ricostruire le misure intraprese dai nazismo contro gli omosessuali. Questa politica si può suddividere in tre periodi. La prima fase è quella compresa tra la presa del potere e il 1935, in cui furono eliminate tutte le istituzioni e le associazioni legate ai movimenti di riforma sessuale della Repubblica di Weimar, e venne lanciata la prima campagna contro gli omosessuali, in cui rientrava anche la poderosa propaganda intrapresa nel '34 dopo il cosiddetto colpo di stato di Röhm. Questa fase fu caratterizzata anche dalla tattica del terrore applicata dalla polizia e dalla Gestapo, nonché da altre azioni programmate contro gli omosessuali, i loro club e i loro luoghi di incontro. Infine, i cambiamenti intervenuti sotto il profilo del diritto penale,in particolare la reinterpretazione restrettiva dell'art.175 che puniva gli atti omosessuali tra uomini, segnarono una rottura decisiva rispetto al passato. La seconda fase è quella compresa tra il 1936 e lo scoppio della guerra, che vide l'istituzione di un ente amministrativo speciale - l'Ufficio del Reich per la lotta all'omosessualità e all'aborto - , un marcato aumento del numero di persone arrestate in base all'art. 175 e la seconda campagna antiomosessuale del Terzo Reich, i cosiddetti «processi dei conventi» contro monaci appartenenti alla Chiesa cattolica, condotti con aggressiva e violenta demagogia. La terza fase, dallo scoppio della guerra nel settembre 1939 al crollo del regime nel '45, vide un'intensificazione del terrore fisico e la legalizzazione formale delle deportazioni nei campi di concentramento, l'introduzione della pena capitale nei «casi di particolare gravità» e un'intensificarsi dei tentativi di legalizzare la castrazione forzata. Con l'appoggio di nuove definizioni legali del crimine, di un capillare apparato poliziesco e di sicurezza, e della manipolazione dell'opinione pubblica attraverso la propaganda, la percentuale delle azioni giudiziarie intraprese contro omosessuali si accrebbe enormemente dopo il 1936. Se nel ‘34 il numero delle persone condannate non superava il migliaio, nel ‘36 era già salito a 5310 e due anni dopo a 8562. Fra il 1933 e il '45 circa 50000 maschi omosessuali, tra adulti e minorenni, vennero giudicati colpevoli dai tribunali penali nazisti. Di questi, circa 5000 furono deportati nei campi di concentramento dopo avere scontato la pena. Nei campi, gli omosessuali rappresentavano la casta più infima. Rispetto agli altri internati lo stigma dell'omosessualità conferiva loro uno status pericoloso. Erano infatti isolati da tutti: dagli amici, che non osavano mandare lettere per paura di essere registrati loro stessi come omosessuali; dalle famiglie, che per la «vergogna» talvolta ripudiavano il padre o il figlio; e dagli altri gruppi di prigionieri, che  evitavano ogni contatto con gli uomini, dal triangolo rosa sia per evitare di suscitare sospetti sia perché anch'essi condividevano i diffusi pregiudizi contro le «checche». Non esisteva alcuna solidarietà con gli omosessuali da parte dei detenuti politici o dei Testimoni di Geova, e di conseguenza essi contavano assai poco all'interno della struttura di comunicazione e di autorità dei prigionieri. Il risultato fu che pochi di essi sopravvissero: su 5000 deportati, circa 3000 vennero uccisi o morirono per motivi vari. Questa scansione temporale potrebbe dare l'impressione di una strategia a lungo termine e accuratamente preparata per una «soluzione finale del pro­blema dell'omosessualità» pa­ragonabile in qualche modo al­lo sterminio degli ebrei: ma la politica dei nazisti era rivolta contro l'omosessualità, non necessariamente contro gli omosessuali come individui. (...) Solo alcuni omosessuali furono fisicamente vittime della persecuzione nazista, ma la vita quotidiana di tutti gli omosessuali tedeschi sotto il Terzo Reich fu profondamente colpita e influenzata dalle politiche repressive delle istituzioni. (...) Dopo la guerra, la maggioranza del mondo politico, in entrambe le parti della Germania, rifiutò di concedere agli omosessuali uno status analogo a quello degli altri gruppi perseguitati dal nazismo, sostenendo che l'operato dei nazisti si giustificava con Io stato di guerra ed era in linea con le sanzioni tradizionalmente più diffuse .contro i comportamenti criminali. Ciò significava che gli omosessuali non erano considerati come vittime di una ingiustizia «tipica» dei nazisti - un'interpretazione che eliminava ogni bisogno di perseguire penalmente i carnefici. Neppure il processo di Norimberga, né i processi celebrati contro i medici "nazisti citarono crimini commessi contro uomini omosessuali in quanto tali. La disposizione legislativa che costituì la pietra miliare della discriminazione contro gli omosessuali, l'art. 175, rimase in vigore in Germania fino al 1994.


Se i nuovi antisemitismi cancellano i ricordi

di Susanna Nirenstein

Parigi - Shimon Samuels arriva da Ankara e vola al Social Forum di Bombay. Tra un aereo e l'altro incontriamo a Parigi nella sede del Simon Wiesenthal Center Europe che dirige dall' 88, mentre il gran cacciatore di nazisti che dà nome al centro risiede 95enne nella sua Vienna. Nell'elegante Avenue Marceau di Parigi, in tre stanze assai modeste, sommerse di carte, libri, fotografie (con il papa, Ben Kingsley, Aznar, Spielberg, Schwarzeneger ...), si respira l'aria delle imprese ideali. Aria invidiabile.

Dottor Samuels, la vostra missione, lo dite nello statuto, è la memoria della Shoah. Andate ancora a caccia di criminali nazisti?

«La ricerca dei nazisti è biologicamente al termine. Anche se proprio in questi giorni abbiamo avuto la conferma di sei criminali in giudizio al Tribunale militare di La Spezia per l'eccidio di Sant'Anna di Stazzema, 560 vittime. E l'operazione Last Chance, nei paesi baltici, in Germania, Ungheria, Ucraina, Croazia, ex Jugoslavia e Bielorussia è una nostra campagna per individuare chi abbia partecipato allo sterminio. Abbiamo buoni risultati, 253 sospetti segnalati e 67 procedure legali avviate».

Questo però non è più il fulcro del vostro lavoro.

«La memoria dell'Olocausto è una cosa complicata».

L'istituzione della Giornata della memoria è stata senz'altro un momento importante.

«Sì, ma può diventare un pretesto per non guardare al cuore del problema. Per anni, ad esempio, nell'anniversario della Notte dei Cristalli, la sinistra in Germania organizzava grandi cortei. Dal settembre 2000 - dopo che Arafat lasciò Camp David con un no e iniziò l'intifada del terrorismo -, in Europa assistiamo a una serie di azioni antisemite: nessuno però in quelle manifestazioni per la Cristallnacht ricorda che qui vengono attaccate nuovamente decine di sinagoghe ed ebrei, in Francia, ma non solo. In Grecia l'invettiva antisemita è in crescita costante».

I "non dimenticare" non fanno i conti con il nuovo antisemitismo.

«Mi lasci spiegare. È facile mascherare i propri pregiudizi. Si può odiare gli arabi, come fa Le Pen, e nascondersi dietro la bandiera palestinese. Allo stesso modo si può odiare gli ebrei e celebrare la Shoah. È  facile ricordare sei milioni di morti davanti a una lapide. È difficile guardare invece guardare gli ebrei vivi e minacciati».

Cosa vuoI dire?

«Le faccio un esempio. In Francia negli ultimi due tre anni ci sono state varie cerimonie per nominare "giusti tra le nazioni" alcuni salvatori di ebrei. Ecco, molti Comuni, come Tolosa o Poitier e altri, non hanno voluto la presenza di israeliani dello Yad Vashem, ovvero proprio di chi dà questo riconoscimento. Volevano rappresentanti europei, ma non israeliani. È qualcosa che va oltre la critica al governo Sharon, non le pare?».

A cosa l'attribuisce?

«Parte dai sensi di colpa dell'Europa per i propri crimini storici, il colonialismo e la Shoah».

È la tesi di Finkielkraut, che si tratti di un fenomeno scaturito dal terzomondismo e dal condizionamento che la presenza musulmana imprime ai governi europei.

«Sì. E come fai a provare sollievo, se ti senti colpevole del colonialismo e della Shoah? Scambi i ruoli. Fai una caricatura del bambino con le mani alzate nel ghetto di Varsavia mettendogli una kefiah araba in testa, metti la stella di David sull'elmetto SS. Le versioni del gioco perverso sono infinite e spesso praticate dalla sinistra, e guardi che io mi ritengo un uomo di sinistra. Nazifichi l'ebreo e giudaizzi il palestinese. Cominciò tutto nell'82, con la guerra in Libano, o qualcuno dice dopo il '67. In un lavoro che facemmo con il Cedec di Milano (il Centro di documenta­ione ebraico), vedemmo come la stampa italiana iniziasse allora a parlare di "pogrom" contro i palestinesi. Adesso siamo andati oltre. E dopo la banalizzazione e la relativizzazione dello sterminio, è arrivata la negazione.

Il negazionismo appare un fenomeno diverso.

«No. Il negazionismo non appartiene solo all'estrema destra ed è un errore tenerlo separato da quel che sto descrivendo. La decostruzione della storia a cui sono andati incontro i no global ha portato a questo. Sono stato a tutte le riunioni preparatorie al forum di Durban contro il razzismo: poi dall'incontro di Teheran (per cui non avevo il visto) uscì uno schema di lotta agli "olocausti" che parlava dello sterminio degli indiani d'America, del traffico di schiavi e della "catastrofe" palestinese: la Shoah era scomparsa!».

Le Ong la cancellarono. Celebrarla dunque può avere un senso profondo.

«Non se la si degiudaizza. Perché vorrebbe dire appunto destrutturare la storia. Nel '96 la Svezia lanciò il forum internazionale per l'educazione della Shoah (l'Italia nel 2004 la presiederà). Alla seduta inaugurale scoprii che non era stato contattata nessuna comunità ebraica! Degiudaizzare la Shoah vuoI dire dividere una coppia inscindibile, vedere l'Olocausto da un punto di vista antropologico e non storico, rendere l'ebreo un fossile. Gli ebrei sono un'entità viva. E non si tratta di ignoranza. C'è un'orchestrazione politica».

Parla della demonizzazione di Israele?

«Non si può separare quel che è successo 60 anni fa dall'attuale abbandono degli ebrei in parte di tanta Europa, dal doppio standard usato con Israele, condannato decine di volte dall'Onu a differenza della Cina o di certi stati africani genocidari. Quello che ho visto a Durban o nei cortei dove si chiede la distruzione degli ebrei e dell'Israele "nazista", quel che ha detto Saramago, o Theodorakis, si chiama antisemitismo».

E voi cosa fate?

«Noi siamo i testimoni. Quelli che impediscono che si destrutturi la storia. Noi siamo andati in Rwanda e abbiamo fatto raccogliere nomi e parole di chi aveva visto l'annientamento dei tutsi, come fece Simon Wiesenthal ad Auschwitz, e abbiamo proposto Morombi - dove giacciono 28.000 cadaveri tutsi - patrimonio mondiale dell'Unesco come lo è Auschwitz. Vede, applico i termini della Shoah ad altri stermini, ma non voglio cambiare la storia: non si può dire che la battaglia di Jenin, con i suoi morti - 50 palestinesi e 23 soldati israeliani - sia stata "il ghetto di Varsavia". Non si può dare a Sharon e Bush di "nazisti"».

Come si fermano le menzogne?

«In primo luogo, va capito che le parole possono uccidere. Internet ad esempio è uno dei luoghi di creazione e diffusione delle grandi bugie che lavano il cervello ai gio­vani, e li reclutano al terrorismo e alla morte». 

Qual è, nella pratica, il vostro lavoro?

«Il Wiesenthal Center lavora a tre livelli. Primo, il monitoraggio di ciò che mette in pericolo la democrazia. Ad esempio ogni mese vagliamo circa 25,000 siti web che diffondono odio e violenza contro gli ebrei, o contro le donne, i neri, gli handicappati, i gay, gli arabi... Ogni anno stampiamo un cd rom che è un rapporto e un'analisi sui siti sotto accusa».

E dopo il monitoraggio?

«Il secondo livello è la risposta, attraverso la stampa, i tribunali, i parlamenti, le azioni internazionali. Ad esempio, una settimana fa ho incontrato Javier Solana, i governanti turchi - e vedrò altri leader - per far sì che si dichiari il terrorismo suicida "crimine contro l'umanità" (e voi italiani smettete di chiamarlo kamikaze, soldati che apertamente uccidevano altri soldati suicidandosi). Così come denunciamo tutte le pubblicazioni che non registrino la presenza di Israele o neghino la Shoah».

Il terzo livello?

«La prevenzione naturalmente. L'educazione. Un esempio. Abbiamo organizzato dei corsi "di tolleranza" per 97.000 poliziotti in Usa, Europa, Turchia, Argentina - oltre alle attività per i ragazzi. Abbiamo prodotto un libro Smantellare la grande menzogna: i Protocolli dei savi di Sion. Fatto una serie dì film: l'ultimo, Unlikely Heroes, uscirà ora. Realizziamo incontri e infinite attività con il Museo della Tolleranza di Los Angeles (la nostra sede principale), il cui “fratello” nascerà nel 2007 a Gerusalemme progettato da Frank O.Gehry. C'è una nostra mostra che gira nel mondo. Abbiamo creato in Francia un centro s.o.s. contro gli atti di antisemitismo - circa 600 negli ultimi due anni e mezzo nella sola Parigi e nella banlieu. E denunciato pubblicamente la situazione in Grecia. Per noi oggi è questa la memoria della Shoah».


E il Führer disse: ”La Polonia diventi un enorme campo”

Il progetto era di trasferirci tutti gli ebrei

di Hans Mommsen

Con l'occupazione della Polonia cambiarono le condizioni di partenza per una soluzione della questione ebraica nel senso auspicato dal regime nazista. Quello che era lo scopo primario - vale a dire imprimere una forte accelerazione al processo migratorio - venne infatti rapidamente accantonato a favore di un altro e ben diverso obiettivo: trasferire gli ebrei in una grande «riserva» ancora da definire quanto a ubicazione e dimensioni. Già il 21 settembre 1939 Reinhard Heydrich (ideatore e responsabile del programma di deportazione, ndr.) chiarì i termini del nuovo programma in una lettera indirizzata ai capi delle Einsatzgruppen («gruppi operativi»), in cui distingueva tra uno «scopo finale», che avrebbe richiesto «tempi più lunghi», e le misure provvisorie che andavano invece adottate al più presto, tra cui la concentrazione degli ebrei nelle città più grandi, l'«eliminazione», per quanto possibile, «di ogni presenza ebraica» dai territori annessi, dal Warthegau e dal distretto Danzica­-Prussia occidentale, e la creazione, in quel che restava della Polonia e fino alla linea di demarcazione con l'Unione Sovietica, solo di pochi punti di concentramento, possibilmente nelle vi­cinanze di snodi ferroviari, allo scopo di facilitare un ulteriore, futuro trasferimento altrove delle persone ivi detenute. Contemporaneamente, Heydrich ordinò l'immediata istituzione in seno a ogni comunità ebraica di appositi Consigli degli anziani ai quali affidare il compito di eseguire le direttive che sarebbero state emanate. Misure, in ogni caso, considerate provvisorie, perché chiaramente non esisteva ancora un piano preciso in merito a una definitiva soluzione territoriale. [...] Per quanto ancora molto vaghi, questi piani collimavano con le idee che in quello stesso periodo Hitler era venuto sviluppando con Alfred Rosenberg, idee secondo le quali gli ebrei, ma anche tutti gli altri «elementi per qualche ragione inaffidabili», avrebbero dovuto essere trasferiti nel futuro Governatorato generale. A parere del dittatore bisognava creare un vallo orientale lungo la Vistola e una cintura di insediamenti germanici lungo il vecchio confine tedesco-polacco, e lì in mezzo avrebbe potuto anche trovare posto «una qualche entità statale polacca».

Da la Repubblica, 27 gennaio 2004, per gentile concessione


Fini: “L’antisemitismo nascosto sotto le spoglie dell’antisionismo”

Il vicepremier alle commemorazioni: in Israele ho risolto una questione di coscienza

di Alessandra Longo

Roma – Un foglietto di carta con qualche appunto. Ormai, Gianfranco Fini, sulla questione dell’antisemitismo, va a braccio, non gli servono testi scritti. 27 gennaio 2004: a pensarci, è il primo giorno della memoria che il presidente di An, nonché vicepremier, celebra senza angoli oscuri da illuminare, senza residue svolte da programmare. Il viaggio in Israele, tappa finale del lungo affrancamento dalle radici di famiglia, fa già parte dell’album. «Tutto già detto, tutto già fatto», dice. Già detto che il fascismo delle leggi razziali era «il male assoluto», già condannato «le pagine vergognose di Salò», già deposto una corona al Museo dell’Olocausto di Gerusalemme. Come ci si sente, presidente, ad aver lasciato alle spalle un percorso così tortuoso e delicato? Si acquista in serenità? Lui si ferma, ci pensa: «Serenità no, non direi. Non è un termine nel quale mi riconosco. Diciamo piuttosto che ho risolto una questione di coscienza». Questa leggerezza, questo sollievo, nelle stesse ore in cui si gioca una partita dura dentro il governo, si vede nell’atteggiamento, nella familiarità, quasi complice, che si è creata tra Fini e l’ambasciatore israeliano Ehud Gol, nelle strette di mano convinte con il rabbino capo della comunità ebraica romana, Riccardo Di Segni, con il presidente della stessa comunità, Leone Paserman: «Voglio farle i miei complimenti – gli dice il leader di An – per la medaglia d’oro al valor civile che Ciampi le ha conferito …». Alle 9.30 del mattino, Fini è già seduto in prima fila, ospite d’onore al quarto convivio parlamentare nazionale, organizzato da Antonio Meccanico e Maria Burani Procaccino. «Invitiamo al microfono un nostro caro amico …». Si alza con il foglietto in mano, ma non lo guarda neppure: «Ricordare è dovere morale, ma non basta. Bisogna capire perché il mostro dell’antisemitismo tende a riprodursi, anche adesso, sia pur in forme diverse, non legate all’ideologia o alla religione». Non c’è traccia di fretta per i tempi della verifica in corso. Fini si dilunga come se non avesse altri impegni, sorprende positivamente gli astanti quando comunica di «aver riletto ultimamente Martin Lutero». Parla del pregiudizio, «anticamera dell’intolleranza»: «Dopo il viaggio in Israele, sono stato avvicinato in uno dei tanti salotti romani, da un noto professionista, non legato alla politica. “Bravo, mi ha detto. Lei ha fatto bene ad andare a Gerusalemme. Gli ebrei sono potenti … .” Parole che mi hanno gelato. Ecco, il pregiudizio, ecco la teoria degli ebrei padroni del mondo, del complotto giudaico-massonico!». Sì, l’antisemitismo, «nella vecchia e civile Europa», c’è ancora, lo dicono i sondaggi. Fini ha la sua personale teoria, invita tutti «a mettersi una mano sulla coscienza», ora che sente la sua sgombra e liberata: «L’antisemitismo si nasconde sotto le spoglie dell’antisionismo». Criticare un governo va bene, dice il vicepremier, ma «criminalizzarlo no, non bisogna vedere tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra». L’ambasciatore israeliano è entusiasta, gli stringe la mano. Riapparirà il pomeriggio, sempre accanto a lui, nell’aula Giulio Cesare del Campidoglio, dove Walter Veltroni ha organizzato una cerimonia di commemorazione, ospite il premio Nobel per la pace Eli Wiesel. «Ringrazio il vicepremier che ci onora della sua presenza», esordisce il sindaco di Roma. No il foglietto con gli appunti a Fini non serve più: «Almeno in questo caso posso davvero dire che il governo parla a nome degli italiani …». Tutto già detto, già fatto. Che cosa può aggiungere? Ecco che cosa: «Abbiamo il dovere di ricordare l’Olocausto e la sua unicità». L’unicità dell’Olocausto, l’espressione è netta, isolata. Chi conosce il percorso di An ricorda altri tempi, in cui bisognava sempre “compensare” l’omaggio agli ebrei con la citazione di altre tragedie, dalle foibe ai massacri stalinisti. Gol applaude l’amico, Velttroni stringe la mano all’avversario. Peccato che gran parte dei consiglieri comunali del centro destra sia rimasta a casa. Quando parla Eli Wiesel, c’è un silenzio di qualità diversa: «Se Auschwitz non è riuscita a curare l’antisemitismo, che cosa lo potrà fare?», si chiede, angosciato per l’oggi, il premio Nobel. Di lui, dei suoi libri di testimonianza, Veltroni ricorda una frase bellissima: «Il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza, il contrario della vita non è la morte, ma l’indifferenza». Fini, adesso sì, prende appunti.

Da la Repubblica, 28 gennaio 2004, per gentile concessione

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