DIARIO di Repubblica

 16 ottobre  

 1943 - 2003 Sessant'anni fa la deportazione degli Ebrei 

Quell’alba tragica nel ghetto di Roma

di Fausto Coen

Per lungo tempo della sorte dei 2002 ebrei razziati da oltre trecento SS armate di tutto punto, la mattina del 16 ottobre del 1943 in parte a Portico d’Ottavia, il vecchio “ghetto”, in parte nelle ventisei zone della città selezionate dal Comando tedesco, non si seppe nulla.Tutti gli sforzi fatti dalla Comunità ebraica, dalla Croce Rossa e da varie parti non sortirono nessun risultato. Quando il generale Giuseppe Boriani allora Presidente della Croce Rossa chiese udienza a Kappler non riuscì a nascondere la sua emozione per un evento - disse che aveva colpito drammaticamente l’intera cittadinanza - Kappler lo lasciò parlare e freddamente e sbrigativamente concluse che la deportazione era stata una operazione politica e militare dei tedeschi i quali non dovevano renderne conto a nessuno. Quel tragico lacrimante convoglio di diciotto vagoni piombati in cui erano ammassati in modo inumano i 1022 ebrei, partito alle ore 14.05 del 18 ottobre dalla Stazione Tiburtina, sarebbe giunto ad Auschwitz dopo sei giorni e sei notti. Di quel viaggio orrendo c’è una toccante testimonianza. Il lungo convoglio aveva fatto una sosta imprevista alla stazione di Padova. La signora Lucia De Marchi, volontaria della Croce Rossa, era quella mattina di servizio per l’assistenza alle eventuali truppe italiane in transito. Sconvolta dall’arrivo di quei diciotto doloranti vagoni piombati ha lasciato scritto: “Mai spettacolo più raccapricciante s’è offerto ai nostri occhi. Ci sentiamo disarmati e insufficienti per aiutare i deportati, paralizzati da una pietà fremente di ribellione, da una specie di terrore che domina tutti, vittime personale ferroviario, spettatori, popolo”. I militi ferroviari italiani però quella mattina indignati dopo una contestazione a muso duro con le SS ottennero finalmente che i deportati potessero almeno dissetarsi. Le SS per giustificare i loro dinieghi, dicevano “Sono ebrei”. E i militi replicavano “Sì, ma hanno sete”. Dopo 6 giorni dell’allucinante viaggio ignari della loro sorte, sabato 23 ottobre i 1022 ebrei giunsero ad Auschwitz. Nessuno fu fatto scendere fino al giorno successivo. La selezione degli ebrei romani fu rapida: donne, bambini, anziani (o anche validi ma coi capelli bianchi), furono subito avviati alle camere a gas. Era una percentuale altissima: l’82 per cento dei deportati. La minoranza di coloro giudicati validi, adatti al lavoro fu avviata ai campi di quarantena. Auschwitz era allora un nome sconosciuto. Lo stesso Primo Levi racconta che un anno dopo, il 22 febbraio del 1944, quel nome scritto col gesso sul convoglio sul quale lui, deportato stava per salire, pensava fosse l’errore di uno sprovveduto militare e che si trattasse invece di Austerliz, luogo immortalato dalla dura sconfitta inferta da Napoleone nel 1805 alle armate austro. Com’è noto solo quando le truppe alleate entrarono nei campi di sterminio ci si rese conto che l’inimmaginabile purtroppo era avvenuto. Dei 1022 ebrei romani deportati il 16 ottobre, ne sono tornati solo sedici: quindici uomini e una sola donna (Settimia Spizzichino). Nessuno dei duecento bambini è tornato. Per i pochi che dovremmo considerare fortunati, l’inserimento non fu facile. Il fatto di essere sopravvissuti attirò su di loro una pietà mista a un diffidente stupore; i loro racconti strazianti sembrava superassero il limite della credibilità. Non fu facile per loro reinserirsi nella società, nell’ambito familiare riconquistare i pensieri, i progetti, le speranze, le gioie, i piccoli svaghi degli uomini semplici. Qualche caso. Cesare Di Segni, il meno giovane dei sopravvissuti, quando rientrò nella sua casa e la trovò svuotata di tutto si buttò sul letto e pianse per diversi giorni mentre Cesare Efrati tornato nel suo modesto appartamento al Tiburtino fu assalito da una furia indomabile: avrebbe voluto distruggere tutto, il mondo intero. Ma quando si accorse che avevano portato via anche il ritratto della Madre fu avvolto da troppi ricordi e da una grande pietà per se stesso. Si accasciò svuotato di ogni ira e ribellione. Angelo Anticoli era un abile meccanico. In prigionia mille volte aveva pensato alla sua officina e al suo mestiere, che erano la sua vita. Tornò con le mani rovinate e il giorno in cui con trepidazione cercò di afferrare un arnese fra i più semplici, che era stato per tanti anni quasi una appendice della sua mano fu vinto da un grande sconforto... Sommersi e salvati sono tutti vittime di quella terribile tragedia. Pensiamo a coloro che, sfuggiti alla razzia di quel giorno hanno visto portar via sotto i loro occhi i genitori o i figli, o i fratelli e hanno vissuto giorno dopo giorno come una colpa il non aver subito la stessa sorte. Non possiamo dimenticare anche coloro che sotto l’incubo dell’arresto, si tolsero la vita. E quelli che sorprendentemente lo fecero dopo, quando il mondo tornò libero, e avrebbero potuto continuare a vivere, a lavorare, a sperare. Perché? Forse perché avevano vissuto troppo a lungo nel buio della persecuzione e ora investiti dalla abbagliante luce della libertà si sentirono sgomenti.


SILLABARIO - GHETTO

di Miriam Mafai

“Alzati e vai, vattene fuori dal tuo paese e dalla casa di tuo padre” venne detto dall'Eterno ad Abramo. E Abramo se ne andò e diventò straniero. Il viaggio, la fuga, l'estraneità sono stati nei secoli il segno distintivo dell'ebreo, cui non è concesso fermarsi, abitare dove vivono gli altri. E dunque vivrà solo nel ghetto, spazio separato chiuso da mura o cancelli. Eppure mia madre ricordava con una punta di nostalgia il ghetto in cui era cresciuta, bambina, nella città di Vilnius in Lituania, fino a quando la famiglia, dopo l'ennesimo pogrom, era stata costretta a fuggire. Il ghetto, per gli ebrei sopravvissuti all'Olocausto, ancora oggi non è soltanto il luogo della sofferenza e della segregazione, ma anche il microcosmo nel quale, eterni stranieri, vivevano uno accanto all'altro nel tepore della vicinanza e della preghiera. Il ghetto oggi è passato ad indicare altre condizioni di esclusione e sofferenza. Nessuno più dei figli di Abramo è in grado di riconoscerle. Forse un giorno la parola “ghetto” sarà indicata, nel vocabolario, come un arcaismo di cui si è perduto il significato.


Troppo silenzio per una tragedia

Il sadismo dei nazisti e la distrazione degli altri

di Amos Luzzatto

Se dovessimo individuare alcune “parole-chiave” per quel 16 Ottobre 1943, credo che esse sarebbero le seguenti: il Ghetto di Roma, il sadico inganno dei nazisti, il senso della deportazione, i silenzi. Il Ghetto. Certo, era una residenza coatta, imposta agli ebrei da una antica discriminazione, conseguenza di una spietata condanna teologica. Ma gli ebrei ne avevano fatto una cosa loro, una cosa povera, dura da sopportare ma piena di calore ebraico e sede di studio e di fedeltà al culto (le storiche Cinque Scole!); quel calore inconfondibile che si avverte ancora oggi e che è un retaggio prezioso. I nostri persecutori ne avevano fatto invece una trappola, la trappola ideale per catturare questa selvaggina umana, che andava soppressa, come strumento e come fine allo stesso tempo. Il sadico inganno, che si chiama l’oro di Roma. Tormentare le vittime, già comunque condannate, con l’illusione e con l’affanno della raccolta dei cinquanta chili d’oro del riscatto, per assaporare meglio la sofferenza di questi infelici. Perché la deportazione? Perché intensificare il massacro degli ebrei proprio alla vigilia della sconfitta che ormai si profilava, per i nazisti e per i loro alleati, come ineluttabile? Perché occupare militi, treni, carburante, per un’azione senza alcuno scopo bellico? C’è una sola risposta possibile, che oggi può apparire paradossale, “folle”, come ama dire qualcuno: perché lo scopo bellico c’era; perché uno dei principali obiettivi ideologici, dunque mobilitanti, della guerra hitleriana, era proprio quello: lo sterminio degli ebrei d’Europa. Infine, i silenzi; o meglio, il mancato grido di condanna morale da parte delle Autorità religiose e delle Cancellerie alleate. Ē vero che non sono mancati i generosi, laici e religiosi, che si sono prodigati, nel limite delle umane possibilità, in soccorso degli ebrei cui veniva data la caccia dovunque fossero. Non è di questo che parliamo, questi fatti sono conosciuti, sono apprezzati, sono stati e restano una luce di speranza e di fiducia nell’uomo fino ai nostri giorni. Quello che è mancato è lo sdegno con il quale si sarebbero dovuti indicare coloro che davano la caccia a vecchi e donne inermi, e coloro che adoperavano i bambini come oggetti da tiro a segno: i persecutori non si presentavano tanto come un nemico da condannare e da battere, ma come qualcuno che doveva essere messo fuori dallo stesso consorzio umano. Sarebbe servito a qualcosa? Credo che sarebbe servito almeno a tre cose. La prima, forse la più importante: far sentire a coloro che morivano dentro ai carri-bestiame, nelle baracche dei campi, nelle camere a gas, che non erano soli, dimenticati da tutti, forse a volte commiserati ma oggetto di una solidarietà morale, di principio. La seconda: è possibile che si potesse ancora sollecitare un minimo di dubbio, di riserva, forse di resistenza agli ordini, presso tanta parte della popolazione europea che collaborava con i nazisti, a volte per il terrore che essi incutevano, altre volte purtroppo per convincimento, ma che era pur stata educata a suo tempo - nelle Chiese cattoliche, protestanti, ortodosse – all’amore per il prossimo, alla carità e alla giustizia. La terza: la guerra era entrata nella sua fase terminale. Come giudicarne l’esito? Se questo giudizio avesse dovuto fondarsi sul conteggio dei soldati caduti dall’una e dall’altra parte, su quanti carri armati, quanti aerei, quanti pezzi d’artiglieria erano stati perduti dai due eserciti, non ci sarebbe stato posto per dubbi: l’Asse aveva perduto la guerra. Ma tragicamente, se il giudizio avesse dovuto tener conto dello sterminio degli ebrei e dello sradicamento di un’intera cultura, di interi insediamenti ebraici, di sinagoghe e di istituti di studio, del rogo di milioni di libri, un’incertezza poteva essere più che giustificata: Hitler aveva realizzato almeno uno dei suoi obiettivi. Di più: egli aveva dimostrato almeno due cose: la prima, che le tecniche moderne di sterminio possono porre fine persino alla storia dell’ebreo “eterno” der ewige Jude. La seconda, che la tradizione anti-ebraica in Europa era (forse ancora?) talmente radicata e diffusa che attorno a questo obiettivo, che non a caso si chiamava “la soluzione finale”, si può promuovere una mobilitazione di massa; si poteva negli anni ‘30 e ‘40 dell’altro secolo, forse si potrà ancora. Sempre convincendo e convincendosi che i cattivi sono sempre gli ebrei, che le guerre le promuovono sempre gli ebrei. Tutto questo significa che non possiamo e non dobbiamo fare del 16 ottobre una pura commemorazione di un orrendo passato che è oramai per sempre alle nostre spalle. Non è cosÏ, purtroppo. Perché mai come in questi anni, a cinquant’anni e più dalla fine del secondo conflitto mondiale, il mondo è travolto da guerre, percorso da eserciti, teatro di massacri di civili e di intere popolazioni. Si affaccia però oggi una forte reazione pacifista che va allargandosi, che travalica gli schieramenti religiosi e politici e che potrebbe rappresentare la novità positiva di questa attuale generazione. E ricompare il problema ebraico, ancora, anche se sotto una nuova veste. Le responsabilità del conflitto medio-orientale non si possono tagliare con l’accetta e non è questa la sede per farne un’analisi politica. Ma due cose non si possono fare: la prima, non si può attribuire al conflitto cosiddetto israelo-palestinese l’origine, la causa prima, del fuoco che cova in tutto il Medio Oriente e forse anche più in là. La seconda, non si può sottacere il fatto che l’incitamento, presente nella teoria e nei fatti, a fare scomparire lo Stato di Israele, ripete molti aspetti del disegno hitleriano, aspetti che riguardano l’odio per una precisa cultura, il pericolo di sradicamento per le sue scuole, le Università, i centri di ricerca; la totale cecità di fronte alla sua capacità di autocriticarsi dando spazio al dissenso, di fare continuamente i conti con la propria coscienza. Non è segno di nevrosi, è il modo ebraico di essere. E dobbiamo, ancora una volta, difenderlo.


Cinquemila lire per un ebreo

Parla Elio Toaff: l’orrore delle delazioni

di Antonio Gnoli

Roma - Elio Toaff, che è stato il rabbino capo della comunità italiana, di quel 16 ottobre di sessant’anni fa ha un ricordo intenso e drammatico: “Ero rabbino ad Ancona e fu per caso che venni a sapere di quello che era accaduto a Roma. Avevo telefonato alla comunità romana, cosa che facevo abbastanza spesso, e mi rispose la segretaria. Piangeva. Le chiesi cosa era successo e lei mi disse che un fatto terribile si era abbattuto su tutti noi. Mi raccontò della razzia avvenuta proprio quel giorno. Mi parlò delle urla, delle scene di disperazione, dei tedeschi che implacabili rastrellavano la zona del vecchio ghetto e le altre zone di Roma. Fu come se improvvisamente il mondo crollasse. E, prima che andasse in frantumi, uno sperava che quell’evento fosse solo un incubo dal quale potersi risvegliare al più presto. Quel pianto non potrò dimenticarlo, come pure il motivo che l’aveva provocato. Quello che pensai dopo fu che un episodio del genere non potevi giustificarlo in nessun modo. Non potevi capirlo. Superava ogni più perversa immaginazione. Naturalmente c’erano state delle avvisaglie. La nostra vita dopo le leggi razziali stava diventando qualcosa di molto difficile da vivere, almeno nella normalità. C’erano episodi di intolleranza, di emarginazione. Ma nulla, dico nulla, almeno in Italia, lasciava presagire l’entità di una tale tragedia. Certo la situazione in Europa era ben diversa. Soprattutto in Germania dove le deportazioni erano cominciate da tempo. Ma a noi giungevano solo voci che contribuivano a dare corpo alle nostre preoccupazioni. Ma nulla in confronto con quello che avremmo visto e vissuto dopo. A Roma, quel 16 ottobre furono rastrellati 2.091 ebrei. È questa la cifra esatta. Un migliaio furono quelli prelevati direttamente dal ghetto. Il resto venne rastrellato nelle altre zone romane. I tedeschi avevano gli indirizzi degli ebrei che vivevano fuori dal ghetto. È chiaro che li ottennero attraverso la delazione. La pratica della denuncia anonima o molto più spesso legata al tornaconto è un capitolo famigerato che ci lascia intravedere dove possono giungere i rapporti umani quando è l’odio, l’ottusità, il risentimento a guidarli. Ma, ripeto, spesso alla base di queste delazioni c’era un abietto calcolo economico. Per ogni ebreo denunciato il delatore intascava dal comando tedesco cinquemila lire. Capisce? Eravamo venduti, scambiati per un pugno di lire. La cosa era tanto più atroce in quanto la comunità ebraica di Roma era integrata con il resto della popolazione. Molti erano i matrimoni misti. E nessuna repulsione era mai stata manifestata nei nostri confronti. Furono soprattutto i tedeschi ad aizzare una parte degli italiani contro noi ebrei. Forse intuivamo che qualcosa prima o poi si sarebbe scatenata. Ma credevamo ingenuamente che nessuna grande tragedia ci avrebbe coinvolti. E invece la tragedia ci travolse. Un migliaio di ebrei furono stipati come animali in un convoglio di vagoni piombati. Destinazione Auschwitz. Fu lì che il dramma si compì inaudito e impensabile. Ma talmente vero da lasciarci ancora oggi storditi. Da quel convoglio, che comprendeva anche duecento bambini, alla fine tornarono una quindicina. Furono i soli sopravvissuti. Li ho tutti presenti: le loro vite, i loro volti, la loro paura, il loro intimo dramma. Ritornare a casa non significò per loro, almeno immediatamente, un ritorno alla vita. Ci volle tempo perché quelle esistenze umane riacquistassero una piena normalità. Per anni non hanno voluto parlare di quello che gli è accaduto. Ciò che avevano visto e vissuto era enorme perché potessero essere creduti. Pensarono che nessuno li avrebbe presi sul serio. E poi il pudore. Il bisogno di tacere legato al sentire che solo in pochi ce l’avevano fatta. Non credo che una data del genere si possa dimenticare. Certo l’antisemitismo non è scomparso. Risorge in forme nuove. Ma tra l’odierno e quello di ieri la differenza sta nella violenza con cui allora si cercò di sterminarci. Quel 16 ottobre 1943 è una data infausta non solo per gli ebrei, ma per Roma, per l’Italia, per il mondo intero. Quell’episodio ha travalicato qualunque confine, rotto ogni argine, reso universale una tragedia per la quale nessuno allora mosse un dito. È stata solo una mostruosità e quindi qualcosa di irripetibile? La gravità di quel fatto nella sua brutale evidenza dovrebbe servirci da monito. Allora solo dei blandi tentativi furono fatti per soccorrerci. Qualcosa la Chiesa ha fatto, ma direi soprattutto negli episodi singoli. Ricordo un gruppo di suore orsoline che nascose e salvò dei bambini ebrei. E vorrei concludere con un ricordo personale. Ero Rabbino ad Ancona e stavo tornando a casa. Vidi don Bernardino, il parroco della chiesa vicina, che si sbracciava cercando di attrarre la mia attenzione. Finalmente mi avvicinai e gli chiesi perché era cosÏ agitato. Rispose che i tedeschi mi stavano aspettando a casa. Ovviamente non tornai. Don Bernardino mi nascose nei giorni successivi. E quando finalmente potei rimettere piede in casa, vidi che i tedeschi l’avevano completamente svuotata. Avevano portato via tutto. Mobili, libri, valori. Non mi restava più niente. E anche quello fu un modo per ricominciare” .


La cronaca di Debenedetti è una vera opera d’arte

Intervista a Cesare Segre sul “16 ottobre” raccontato dal critico

di Simonetta Fiori

“Mi colpì, nella narrazione di Giacomo Debenedetti, lo stile pacato che celava sdegno, la prosa asciutta e disadorna che restituiva con maggiore efficacia crudeltà e tragedia”. Cesare Segre, che con Debenedetti condivide identità ebraica, passione editoriale e rigore di studioso, racconta cosa significò per un giovane studioso ebreo la lettura di 16 ottobre 1943. ´Ebbi il testo tra le mani soltanto al principio dei Cinquanta, sei anni dopo l’uscita sulla rivista Mercurio. Sapevo della retata, avevo notizia del dramma vissuto nel Ghetto, eppure l’impatto emotivo fu egualmente forte. Mi sorprese, soprattutto, quell’insistito rifiuto opposto dalla comunità romana all’annunzio della tragedia”. Ē l’urlo di Celeste che apre il racconto. Il grido scomposto d’una donna scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia, che la sera di venerdì 15 ottobre rimbalzò di casa in casa. Tra le mani dei tedeschi circolava una lista di duecento capifamiglia, da portare via, con tutti i loro cari. “Ma nessuno volle crederle”, annota Debenedetti. “Tutti ne risero. Perché gli ebrei sono astuti nelle piccole cose, ma creduli e disastrosamente ingenui in quelle realtà, aggiunge Segre, “nessuno tra noi sapeva dei lager, di Auschwitz, del progetto di sterminio voluto da Hitler. In 16 ottobre 1943 è ben rilevata una paura diffusa ma generica, come se la coscienza dell’orrore fosse lontana, rimossa, improponibile”. Che faranno di noi?, chiese smarrito un giovane a cui era stato concesso di sorseggiare un caffè al tavolino del bar. Era già scivolato in quella nuova esistenza “oscura e terribile”, ma non lo sapeva. Il dramma entrava nella vita, “vi si mescolava”, scrive Debenedetti, “con una spaventosa naturalezza che lì per lì non lasciava campo nemmeno allo stupore”. Scrive Natalia Ginzburg: ´Chi ha vissuto quei giorni ricorda bene come al terrore dei nazisti si mescolasse un roseo ottimismo, e l’idea che forse la realtà fosse più ragionevole dell’immaginazione”. Dice Segre: “Anch’io non sapevo dei campi di sterminio, e devo la mia salvezza a un prete, che invece sapeva e mi offrì rifugio in un seminario salesiano della Val di Susa. Fu questo il dramma del popolo italiano, anche dei non ebrei: in pochi conoscevano le reali proporzioni della tragedia. Questo può in parte spiegare lo scarso impegno profuso nella difesa dei perseguitati “.In una nota editoriale rimasta anonima, in realtà scritta dallo stesso Debenedetti, il libro viene definito “un classico della letteratura post-clandestina, giustamente accostato alla Peste di Londra e ai primi capitoli della Storia della colonna infame”. Pagine che, oltre al valore documentario, possiedono “l’intensa qualità dello stile”. Condivide Segre questo giudizio? “Sì, il linguaggio è assolutamente alto, efficacissimo nella sua secchezza. In questo anticipò Primo Levi”. Avete mai parlato del 16 ottobre 1943?  “No, mai. Debenedetti non amava parlare di sé, delle sue cose più intime. E quella fu una data che segnò le coscienze nel profondo”.

Da la Repubblica, 15 ottobre 2003, per gentile concessione

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