la Repubblica
Giorno della Memoria
L’Italia
ricorda l’Olocausto. Celebrazioni e sfilate con i sopravvissuti allo
sterminio.
Il
“Giorno della memoria” in ricordo del 27 gennaio 1945, quando i sovietici
liberarono Auschwitz
di
Carlo
Brambilla
Milano
- Calendario fitto di appuntamenti, manifestazioni, celebrazioni, per il «Giorno
della memoria», che ricorda il 27 gennaio del 1945, quando le truppe
sovietiche abbatterono i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz, mettendo
definitivamente fine alla Shoah. Oggi pomeriggio il corteo nazionale,
organizzato dalla Comunità Ebraica, dall’associazione Figli della Shoah e dal
Comitato permanente antifascista, sfilerà, a Milano, da Porta Venezia a piazza del Duomo, aperto dai
cartelli coi nomi dei campi di sterminio
scritti in bianco su fondo nero, portati dai sopravvissuti: Auschwitz,
Mauthausen, Treblinka, Dachau, Buchenwald. Domani mattina il Presidente
della Camera, Pier Ferdinando Casini, sarà a Carpi, vicino a Modena, dove
parteciperà all’inaugurazione della mostra antologica su Giorgio Perlasca,
«Il silenzio del giusto», allestita presso il Museo Monumento al Deportato,
a Palazzo Pio. Il segretario dei Ds, Piero Fassino, sarà invece alla
Sinagoga di Roma, con il rabbino capo della Comunità, Riccardo Di Segni. Per
domani mattina il Comune di Roma e la Rai hanno promosso l'iniziativa «Roma
ricorda»: 2700 ragazze e ragazzi
delle scuole medie e superiori della capitale assisteranno, all’Auditorium,
alla proiezione del film «Perlasca,
un eroe italiano», prodotto dalla Rai (in onda, la prima parte, domani alle
20,55 su Raiuno) ed ascolteranno le testimonianze dei sopravvissuti. Sono
previsti, tra gli altri, interventi del sindaco di Roma, Walter Veltroni, del
Presidente della Rai Antonio Baldassarre e del presidente dell'Unione delle
comunità
ebraiche Amos Luzzatto. Non mancano le polemiche politiche. Il ministro delle
Comunicazioni, Maurizio Gasparri, si augura che la Rai, che dedicherà grande
attenzione al tema dell'Olocausto, «possa ricordare anche altre pagine di
storia, parlando delle foibe, e dedicando spazio ad altre tragedie dimenticate».
Franco Grillini, dell'Arcigay, ha ricordato che «ad essere colpiti dallo
sterminio nazista, nei campi di concentramento, oltre agli ebrei c'erano anche
gli omosessuali». Mentre Yasha Reibman, portavoce della comunità ebraica
milanese, non perde l'occasione per tornare a polemizzare con Asor Rosa e con
il suo ultimo saggio sulla guerra, accusato di antisemitismo.
La
storia – Una clinica che nasconde le docce per evitare
incubi agli ex deportati. A Toronto una casa di cura per gli ebrei cui l’Alzheimer
ha cancellato tutti i ricordi salvo quelli del lager. Alla “Jewish Home for
the Aged” la metà dei pazienti è composta da scampati all’Olocausto
di
Riccardo Staglianò
Nel
pozzo nero della memoria il ricordo più lancinante può essere evocato dalle
gocce argentine che zampillano da una doccia. L'acqua è calda, i bagni
accoglienti, gli infermieri sorridono ma se sei stato nei campi di
concentramento nessuna differenza rispetto all'antica menzogna nazista per
mascherare
l'esecuzione con il gas basterà per disinnescare l'associazione di idee.
Tanto più se, come non è raro tra molti dei ragazzi d’allora, il cervello
ha sviluppato una ruggine senile. Perché l'Alzheimer ha un effetto collaterale
sadico e paradossale: cancellando la memoria a breve esalta quella a lungo
termine, rende opaco fino a far scomparire ciò che è successo cinque minuti
prima mentre punta un riflettore inesorabile su dettagli risalenti a mezzo
secolo indietro. Un’esperienza vissuta quotidianamente alla “Jewish Home
forthe Aged” del Baycrest Apotex Centre di Toronto, una delle cliniche
geriatriche più grandi del mondo, dove circa la metà dei pazienti con qualche
seria forma di deperimento cerebrale è composta da sopravvissuti
all’Olocausto. Al momento del caffè non sanno già più dire che minestra
hanno mangiato ma lo scrosciare dei rubinetti, l’odore di un disinfettante o
una domanda mal posta possono far scatenare i fantasmi di un passato remoto reso
vivido dalla malattia. Triggers, "grilletti", li chiamano nel manuale
ad uso dei medici e degli infermieri dell'importante centro canadese ed è un
termine che rende l’idea perché, premendoli, la mente può fare fuoco. Su
se stessa. Tutto quello che avveniva allora bisogna cercare di non farlo venire
a galla. Quindi nessuno sta in fila per i vaccini anti - influenzali o
per la prescrizione di medicinali: nei campi ci si metteva in coda per tutto,
compreso l'andare a morire. Lo staff evita di usare torce elettriche di notte
perché i nazisti lo facevano controllando i dormitori. E se per convincere
molti anziani a fare la doccia bisogna inventarsi uno zuccherino linguistico
(“Possiamo andare a fare un bodn?”, propone, in yiddish, l’infermiera
Cindy Gabriel) anche per il bagno, può essere difficile dal momento che fa
tornare in mente a molti gli esperimenti di ipotermia dove i prigionieri erano
messi in vasche di acqua gelata oppure piene di disinfettante perché la scienza medica ariana provasse i suoi macabri esperimenti.
Chaya ViIensky è una sopravvissuta. A 88 anni veste ancora con grande
eleganza e non ha, come la maggior parte degli altri ospiti, alcun problema
economico ma quando vede per terra un panino mangiato a metà non può fare a
meno di raccoglierlo e conservarlo nell’armadio della sua stanza. Dopo
l'invasione della Lituania nel '41 sua figlia Miriam, di un anno, morì di fame
nel ghetto di Kaunas. L'antica ossessione, rispolverata dal morbo, censura i
comportamenti. Spesso gli internati sono riluttanti a dire che hanno un
malessere o provano dolore. Una reticenza le cui cause Paula David,
coordinatrice dell'Holocaust Resource Project, sa descrivere: «Ad Auschwitz le
prime persone a essere uccise erano quelle malate e vulnerabili». Per i
medici, però, che devono cercare di scoprire sintomi non dichiarati, è un
trabocchetto in più. E lo staff sanitario vigila anche sulle involontarie
gaffe altrui come quando a un’impiegata dell’amministrazione, rea di avere
un passo marziale e scarpe dal tacco squadrato che mettevano brutti pensieri ai
pazienti, fu richiesto di attutire le falcate e cambiare calzature. Ma se
Baycrest è un osservatorio specializzato sugli scampati della Shoa - «E' la più
grande cucina kosher del Canada» sdrammatizzano -, il problema non riguarda solo loro. «Anche le vittime di stupri,
incesto, pulizie etniche e ogni forma di violenza - spiega al Globe and Mail
Donald Stuss, direttore di uno dei due centri studi interni - potrebbero
rimanere intrappolate nel loro passato più angoscioso man mano che la demenza
si fa strada. E' un pericolo universale». E destinato ad allargarsi se le
stime dei ricercatori canadesi che ipotizzano per il 40 per cento delle
persone una qualche forma entro gli 80 anni - sono giuste. Una sorte
terribile che condanna chi vorrebbe, più di ogni altra cosa dimenticare,
all’ergastolo della memoria. “Yzkor” , spiega il solito glossario
yiddish per gli infermieri, è la parola ebraica per “ricordare”. Quella
che l'Alzheimer, nella testa dei vecchi di Baycrest, illumina ogni giorno di una
luce sinistra.
“Io prete ragazzo ribelle per amore”
Don
Giovanni Barbareschi: così ho salvato centinaia di persone.
di
Zita Dazzi
Durante
la clandestinità, fra il ‘43 e il ‘45, nella casa dei suoi genitori, in via
Eustachi, aveva installato un vero e proprio «ufficio falsi», dove, con
timbri e sigilli uguali a quelli delle Ss - che ancora conserva - fabbricava
carte di identità, salvacondotti, passaporti che consentirono la fuga di
centinaia di persone, soprattutto ebrei e perseguitati politici. Il giovane
lndro Montanelli fu uno dei «salvati» da don Giovanni Barbareschi, oggi
ottantunenne, Croce al merito della Repubblica Italiana e medaglia d’argento
della Resistenza. Ma in quell'epoca, per don Giovanni, «prete ragazzino» -
compagno di
battaglie di Ferruccio Parri e padre Davide Maria Turoldo, arrestato più
volte e torturato dai tedeschi - una vita era uguale all’altra. E non
esitava a mettere in gioco la sua per salvarne altre. Amico fraterno di don
Gnocchi, stretto collaboratore del cardinal Martini, Barbareschi, è stato un
maestro per generazioni di intellettuali cattolici e laici. Per aver salvato
tanti ebrei dallo sterminio, nel ‘56, la Comunità israelitica di Milano,
«con ricordo perenne di gratitudine», lo annoverò fra la schiera dei «Giusti».
Don
Barbareschi com’è cominciata la sua vita clandestina?
«Nel
'43, ancora prima di essere ordinato prete, ero in Valle Spluga, sopra a
Madesimo, collaboratore di don Luigi Re. Una sera arriva una famiglia di
ebrei, padre, madre e due bimbi piccoli. Chiedevano aiuto per scappare in
Svizzera, erano ricercati dai tedeschi e dai fascisti. Così il mattino dopo
organizzammo
una gita al lago D'Emet, vicino al confine, come facevamo normalmente per gli
ospiti della casa. Alla partenza il gruppo guidato da me era composto di 25
persone. Al ritorno eravamo in 2l. Ma i tedeschi non se ne accorsero. Da quel
giorno iniziai a costruire la mia rete di collaboratori, passatori, amici.
Ne abbiamo salvati tanti».
Perché
lo faceva?
«Da
giovane ho incontrato il valore di una parola che ritengo sacra: libertà,
il volto attraverso il quale Dio mi ha parlato. Nella nostra cultura siamo
abituati a una distinzione: atei o credenti. Ma il termine più umano e
universale è quello che troviamo nella Bibbia: uomo schiavo o uomo libero».
Lei
è stato in carcere per questo.
«Tanti
amici sono morti. lo sono vivo. Noi eravamo ribelli per amore».
Perché
i tedeschi se la prendevano con un prete?
«Io
e il mio gruppo del collegio San Carlo ci davamo da fare per aiutare gli ebrei
ricercati, i prigionieri inglesi fuggiti dai campi di concentramento, i
renitenti alla leva della repubblica di Salò. Li facevamo scappare dai
passaggi in Svizzera dallo Spluga. Varese e Luino. La nostra sigla era Oscar:
organizzazione soccorsi cattolici antifascisti ricercati. Per questo ci
servivano i documenti falsi. Ne abbiamo fatti una montagna».
Quando
fu arrestato per la prima volta?
«Avevo
22 anni e mezzo. Il 13 agosto del ‘44 sono stato ordinato sacerdote. Il 15
agosto ho celebrato la mia prima messa qui a Milano. La sera stessa venni
arrestato perché
avevo cercato di far scappare alcuni ebrei nella confusione davanti al carcere
di San Vittore, mentre i tedeschi organizzavano i convogli in partenza per un
campo di concentramento. Mi misero al quinto raggio, nella cella 102».
Lì
venne torturato a lungo.
«Ho
passato 72 giorni in quella cella. Ho sofferto molto per gli interrogatori, le
botte, il non poter vedere il cielo stellato. La mia paura più grande era
quella di non avere sempre la presenza d'animo per resistere e non fare i nomi
dei miei compagni. Ma la paura si riesce a superare, se si ha un’idea chiara.
Una volta organizzarono una finta fucilazione per farmi parlare. Ricordo
benissimo quel giorno».
E
poi?
«Dopo
72 giorni l’allora cardinale Schuster riuscì a ottenere la mia liberazione.
Ricordo che andai a trovarlo. Ero nella sala d’attesa, a un certo punto il
cardinale esce dal suo studio e mi vede. Viene davanti a me, prete di 22 anni,
si inginocchia, mi bacia le mani e mi dice “Così nella Chiesa primitiva
facevano i vescovi davanti ai martiri”. Quelle parole per me erano un inno
sacro al valore della libertà, era come se il mio vescovo mi dicesse:
“quello che stai facendo è giusto. Va' avanti”. Schuster poi si alza, mi
guarda in faccia e mi chiede: “Ti hanno fatto molto male gli alemanni?”».
Com'era Milano in quel
tempo?
«C’era
molta indifferenza, poco coraggio. C’era molta paura, in effetti i pericoli erano
molti. Bastava un niente per essere denunciati,
arrestati. l tedeschi facevano continue
retate, bloccavano quattro strade e tutti quelli che erano dentro venivano
controllati. E molti si trasformavano in delatori per fame».
Così
tornò in clandestinità.
«Certo.
Raggiunsi in Alta VaI Camonica i partigiani delle Fiamme verdi. Venni
arrestato un’altra volta, portato nel campo di concentramento
di Gries,
vicino a Bolzano. Nella mia baracca eravamo 21, io il più giovane. C’erano
ebrei, comunisti, atei, indifferenti.
Forse un solo credente.
Grazie a loro, che rischiarono una terribile punizione per farmi dire una messa
clandestina, ho capito che la grandezza delle persone non sta nella ricchezza,
nel potere, neppure nella cultura, ma solo nella libertà. Ho capito che la
libertà non si dimostra, si crede. Ē un atto di fede».
Da la Repubblica, 26 gennaio 2003, per gentile concessione
Dentro la
Shoah – Intervista ad Abraham Yehoshua
di
Enrico
Franceschini
Gerusalemme
Signor
Yehoshua, cosa vuoI dire oggi ricordare l'Olocausto?
«VuoI
dire occuparsi di qualcosa che non tocca solo gli ebrei. Infatti non siamo
solo noi ebrei che rivisitiamo la Shoah. In Europa, in America, in buona parte
del mondo contemporaneo, gli studiosi e gli storici ma anche la gente comune
provano e riprovano a capire cosa fosse quel patologico aspetto del nazismo che
passa sotto il nome di "soluzione finale". E paradossalmente io trovo
che, con il passare degli anni più ci allontaniamo da quello che è avvenuto,
più l'interesse verso l'Olocausto aumenta, anziché diminuire».
Perché?
«Perché non lo abbiamo ancora compreso fino in fondo. Prendiamo la
prima guerra mondiale, o la seconda: il mondo se ne è occupato a lungo, poi
le ha collocate nel proprio passato remoto, le ha per così dire risolte e
archiviate, lasciando che soltanto gli specialisti continuino a frugare in
quegli avvenimenti. Con l'Olocausto, invece, dopo quasi sessant'anni
l'interesse non si è esaurito, ma cresce. Con l'0locausto siamo davanti a
qualcosa che turba e avvince anche popoli niente affatto coinvolti nello
sterminio degli ebrei. Qualcosa di sconvolgente che continua a catturare
l'interesse dell'umanità».
«L'orrore per un progetto che fa accapponare la pelle: sterminare un
intero popolo, cancellare una razza dalla faccia della terra. Il punto è:
perché sterminarlo? Nella storia del mondo non mancano le guerre, i massacri,
anche i tentativi di sterminio: solo che in genere si può individuare una
ragione,
non dico una giustificazione, ma una logica, per quanto spietata. Un popolo
vuole sterminarne un altro per strappargli territorio, ricchezze, potere,
per prevenire un attacco. Ma nella Shoah abbiamo visto un popolo, anzi più
d'uno, perché i tedeschi hanno potuto contare sull’assistenza di vari
alleati, che cerca di sterminare un altro popolo per nessuna delle ragioni sopra
citate. Verrebbe da dire: per nessuna ragione. Per puro odio razziale, senza
motivazioni razionali».
«L'Olocausto
fece emergere quella che io chiamo "giudeofobia", una sorta di
irrazionale paura degli ebrei, una paura che genera fanatica avversione e
perfino paranoia. Al punto che Hitler, chiuso nel bunker di Berlino durante
gli ultimi giorni della guerra, confidava ai suoi collaboratori di essere
stato sconfitto dalle forze occulte del "giudaismo internazionale",
non dall’America e dall’Unione Sovietica».
Da
dove viene questo odio paranoico?
«Affonda
le radici in secoli di razzismo, intolleranza, discriminazione, accompagnate da
frequenti sussulti
di violenza,
che hanno avuto nella Shoah la loro esplosione culminante. Due millenni e più
di antisemitismo, un odio per gli ebrei che si è diffuso attraverso i veicoli
più svariati: la chiesa cristiana, il comunismo e oggi buona parte dell'Islam».
L'antisemitismo
è tornato a farsi sentire anche in Europa.
«Non
è mai scomparso del tutto. L'Europa ha bisogno di vincere i suoi sensi di
colpa. Ha interpretato a lungo il sionismo come una nuova forma
di colonialismo,
per cui accusa Israele di fare, con l'occupazione dei territori palestinesi,
quello che le potenze europee fecero in Africa e in Asia nel secolo scorso.
Ma il sionismo non era colonialismo: gli ebrei non sono tornati nella Terra
Promessa per colonizzare gli arabi, né per dominarli, anche se nel loro ritorno ci sono aspetti tutt'altro che da assolvere. Inoltre l'Europa si sente
responsabile per quello che è accaduto ai palestinesi. Gli ebrei sono fuggiti
dall'Europa e hanno fondato il loro stato in Israele dopo la tragedia
dell'Olocausto, perpetrato da tedeschi ed europei: ma il prezzo è stato
pagato dai palestinesi. Ebbene, poiché gli ebrei accusano gli europei per
la Shoah, ora molti europei possono accusare Israele per l'oppressione dei
palestinesi. E concludere che in fondo gli ebrei non sono migliori o diversi
da loro».
Non c'è il rischio che qualunque critica della
politica di Israele verso i palestinesi possa essere tacciata di antisemitismo?
«I
primi a criticare la politica di Israele verso i palestinesi, e nel modo
più aspro, sono molti israeliani, me compreso. Dunque non solo si può, si deve
criticare Israele. Ma a mio parere l'Europa dovrebbe criticare di più anche
Arafat e l'Autorità palestinese per gli errori enormi che hanno commesso,
per l'uso della violenza e del terrorismo, per le opportunità mancate».
«Certamente
non lo fu in passato. C'era grande simpatia e solidarietà verso di noi nei
primi anni di vita del nostro Stato. I giovani europei venivano a lavorare come
volontari nei kibbutz. Allora Israele destava profondo entusiasmo».
L'umore
è mutato dopo la guerra dei Sei Giorni del '67, o meglio con l'occupazione di
Cisgiordania e Gaza?
«Trent'anni
e passa di occupazione hanno rappresentato un danno enorme per Israele. E ancora
più dell'occupazione, ci hanno danneggiato le colonie ebraiche, i nostri
insediamenti nei Territori occupati. Non sono serviti a nulla, sono moralmente
ripugnanti, rappresentano un disastro».
In
Israele l'Olocausto viene celebrato in primavera, con una cerimonia toccante:
due minuti di silenzio in cui l'intero paese si ferma sull'attenti. Cosa
suggerisce
agli europei che il 27 gennaio vorranno ricordare e riflettere?
«Ricordare
serve a cercare un vaccino che impedisca all'umanità di ripiombare in quella
follia collettiva che è stata la Shoah. Chiedersi come evitare che una tragedia
simile possa ripetersi. Sa, a volte io immagino di convocare in una stanza,
con un tocco di bacchetta magica, tutti i grandi saggi dell'ebraismo del
passato,
da Mosè in poi, e di proiettare su una parete un documentario sull'Olocausto: i
treni piombati, i lager, i camini, i mucchi di cadaveri... Poi, riaccesa la
luce, direi a ciascuno: vai, torna nella tua epoca, fai tutto quello che puoi
per cambiare la storia, per impedire che si avveri ciò che hai visto».
Il
passato si può cambiare solo al cinema ...
«O
in un romanzo. Ma è un esercizio utile. Ecco, immagino che Mosè, tornato tra
gli ebrei del suo tempo, faccia in modo di essere sepolto nella Terra Promessa.
Come è noto, Mosè riuscì soltanto a intravedere da lontano questa nostra
terra, nessuno sa dove fu sepolto. Bene, immaginiamo che ordini ai suoi fidi:
"Prendete il mio corpo e portatelo in Israele, costruitemi come tomba
un'immensa piramide; fate sì che il mio popolo rimanga sempre vicino a
essa". Chissà! Forse così gli ebrei non avrebbero lasciato Israele, non
si sarebbero dispersi per il mondo, non ci sarebbe stata la diaspora. E nemmeno
l'Olocausto. Nella prima metà del Novecento, i padri del sionismo, Herzl
incluso, ammonivano: in Europa si prepara una grande catastrofe per gli ebrei.
E un brutto giorno la catastrofe è arrivata».
Perché non tutto finisca nell’oblio
Oggi
rischiamo di trasmettere un saper morto
di
Claude
Lanzmann
La storia, la memoria, il 27 gennaio. Viviamo uno strano momento della storia e della memoria. Un periodo in cui si sta attuando, per quel che riguarda la Shoah, la gestione istituzionalizzata e mondializzata del passaggio all’oblio. Voglio dire con questo che si cerca di trasmettere un sapere morto e questa è la cosa peggiore, la cosa più pericolosa che ci possa capitare. Non mi batto contro i musei, non si possono evitare, ma dico che musei e commemorazioni istituzionalizzano la memoria e la tempo stesso generano l’oblio. Sono convinto, ed è la mia fierezza, che con quel che ho fatto non ho lasciato un sapere morto. L’ho saputo fin dall’inizio ed è per questo che ho voluto una frase precisa all’inizio del mio film Shoah: «L’azione comincia ai nostri giorni». Cioè sempre. L’anno scorso in Francia, abbiamo fatto un’esperienza. Con il mio accordo, il ministero dell’Educazione nazionale ha fatto pubblicare un Dvd con tre ore di estratti di Shoah. Non una versione scorciata, ma sei sequenze che ho scelto. È stato inviato ai 4.500 licei francesi. Jack Lang, allora ministro, mi ha portato al liceo Buffon di Parigi, nel quale hanno proiettato una delle sei sequenze: la descrizione dei meccanismi di morte a Treblinka da parte di un sottufficiale delle SS e la scena del parrucchiere di Treblinka. I ragazzi non avevano mai visto una cosa di questo genere, non ne avevano alcuna idea. Ha avuto un impatto straordinario, hanno avuto voglia di vedere il film nella sua totalità. Questo avviene semplicemente perché Shoah non trasmette un sapere morto. In un certo senso, si potrebbe dire che commemorazioni e musei rischiano di ridurre l’Olocausto a un avvenimento come un altro e di negare così la sua unicità. A questo proposito mi piace citare un giovane cineasta, Arnaud Desplechin, che ha descritto il suo stato d’animo dopo aver assistito con un amico a una proiezione: «Tentavamo maldestramente di descrivere quel che avevamo appena visto. Chi c’era in questo film, che i nostri amici ignoravano. Mille cose. Il film traboccava di informazioni, ma non si trattava di questo. Avevamo toccato con mano quel che più tardi si sarebbe chiamata l’unicità della Shoah e che è un concetto così difficile. Non conoscevamo le parole per descrivere quel che avevamo visto». Gli italiani non hanno fatto granché per far conoscere Shoah. La tv polacca lo trasmette in questi giorni e in Italia è passato una volta nel 1985-86, alle tre del mattino, perché non lo vedesse nessuno, e basta. Una forma di censura. Una vergogna. Adesso c’è la gestione istituzionalizzata del passaggio all’oblio e gli italiani fanno una grande giornata commemorativa il 27 gennaio. Non sanno nemmeno quel che rappresenta. Avrebbero potuto scegliere un’altra dat. C’ero anch’io quando l’hanno scelta. È successo tre anni fa a una riunione di 50 capi di governo a Stoccolma. Lionel Jospin mi aveva invitato e mi aveva portato con sé nel suo aereo. Un capo di governo ha letto un discorso, scritto da un consigliere ministeriale, e hanno deciso di pubblicare un volume scritto da due svedesi (chissà perché proprio due svedesi) e il libro è stato diligentemente distribuito in tutti i paesi, dall’Albania all’Ucraina. Dappertutto lo stesso libro. È questa la gestione istituzionalizzata del passaggio all’oblio. Adesso al Consiglio d’Europa hanno deciso che il 27 gennaio sarà la data finale dell’Olocausto, ma ancora tanta gente è morta dopo la liberazione di Auschwitz. La memoria è una cosa complicata. Basta pensare alla retata del Vel d’Hiv, a Parigi, il 16 luglio 1942. un tempo, per il 16 luglio c’era una riunione di persone coinvolte, che avevano perduto i loro famigliari. Si riunivano in boulevard de Grenelle ed era una cosa molto commovente, come se le persone riunite in quell’occasione condividessero un segreto. C’era appena un discorso, due al massimo. Oggi è diventata una data della storia nazionale: c’è il 14 luglio 1789 e il 16 luglio 1942. bene. Gli ebrei lo hanno voluto e Chirac glielo ha accordato. Ma già prima era diventata una commemorazione molto ufficiale con il primo ministro che fa un discorso e i dignitari seduti sulle poltrone di velluto. Quando vedo questa cose, penso sempre a un’espressione di Flaubert, che in Madame Bovary parla della “obliqua genuflessione dei devoti frettolosi”. È questo il passaggio all’oblio. Forse è inevitabile, ma non credo. Credo alla vita di opere come Shoah.
(testo raccolto da Giampiero Martinotti)
Vi
racconto il vero Schindler
Fu un protagonista controverso che rischiò di essere dimenticato
di
Susanna
Nirenstein
Moshe
Bejski, L'uomo che creò il Giardino dei Giusti, come recita il
sottotitolo di Il tribunale del Bene di Gabriele Nissim, capì che non
poteva più cancellare la sua memoria, fare a meno del passato, del meccanismo
di morte che aveva visto nei lager, quando Israele celebrò il processo contro
Eichmann, nel 1961. Fu chiamato a testimoniare e smise di nascondersi al
“biasimo” che Israele mostrò all'inizio verso le vittime, «gli ebrei che
non avevano avuto il coraggio di alzare la testa ed erano andate a morire come
pecore al macello». Come ricorda Nissim e come ha detto Tom Segev nel suo Il
settimo milione, fino a quel momento il paese si era rispecchiato solo
negli eroi, nei resistenti del Ghetto, e negli ebrei “di tipo nuovo” che
avevano preso in mano il proprio destino sottraendosi all’antisemitismo,
combattendo per la terra, dissodandola, creando lo Stato. (Questo in
Israele. «Per gli assassini poi, come per i silenziosi testimoni che li hanno
circondati, la presa di distanza era necessaria per poter vivere e morire
in pace», come ha scritto Georges Bensoussan, senza troppi sensi di colpa). Al
processo ad Eichmann parlarono le vittime del nazismo. Furono 46 i
testimoni. Alcuni,
come Ka-Tzetnik caddero svenuti, altri piangevano. D'improvviso, scrive
Nissim nel suo libro, si svelarono altri tipi di coraggio: «chi aveva
sputato a pochi passi da un nazista, i prigionieri dei ghetti e dei campi che
sfidavano gli ordini e celebravano il sabato, organizzavano scuole», dividevano
il cibo. Accanto all'eroismo dei resistenti di Varsavia entrava
nel vocabolario politico una nuova espressione, Amidah, dice Bejski a
Nissim, tenere la schiena diritta, «resistere al male preservando la propria
dignità, nell'accanita difesa di una piccola scintilla di umanità». Bejski
era arrivato in Israele nel '45; il fratello Uri era stato ucciso da un cecchino
arabo nel '47; gli altri familiari li aveva cancellati la Shoah. Non aveva mai
detto a nessuno di essere sopravvissuto al terribile campo di Plaszow
comandato da Amon Goeth. Goeth non aveva niente a che fare con l'immagine del
burocrate nazista che eseguiva gli ordini ciecamente, Goeth «si identificava
con il nazismo e con quel particolare lavoro perché gli permetteva di dare
sfogo alle pulsioni più nascoste: era la possibilità di disporre a piacimento
di esseri umani e il vederli soffrire che lo esaltavano». A volte li ammazzava
con un colpo di pistola mentre lavoravano, come in un tiro a segno, per
divertimento. Nel processo ad Eichmann, Bejski testimoniò anche sul perché
gli ebrei sotto il nazismo erano divenuti una massa inerme, terrorizzata,
alla mercé di qualche centinaio di tedeschi che potevano disporre dei loro
corpi, per gioco. Israele si rivegliò, dette posto alle parole dei suoi
sopravvissuti,
finalmente pianse con loro. Bejski poco dopo fu chiamato dal giudice Landau,
lo stesso che aveva condannato Eichmann, a far parte della Commissione dei
Giusti nello Yad Vashem. L'organismo era stato creato nel '53, ma fu allora
che si mise al lavoro, e Moshe Bejski, che era un giudice di professione,
accettò volentieri l'incarico perché sapeva quanto era stata importante la
capacità di alcuni di resistere al male, di aiutare gli ebrei: Moshe doveva la
vita a un coraggioso,
Oskar Schindler. Avea avuto la fortuna di finire nella "Lista"
di 1200 persone chiamate a lavorare nella sua fabbrica a Brinnlitz e si salvò.
Di Schindler credevamo di sapere tutto. Abbiamo visto il film. Eppure dal
racconto che Nissim registra esce un ritratto diverso e sorprendente, oltre la
visione di Spielberg. «Megalomane, semi alcolizzato, donnaiolo,
spendaccione, amante disordinato di tutti i piaceri mondani, proprio lui
lo tirò fuori dall'inferno: «Solo uno così poteva escogitare l'azzardo della
fabbrica fantasma e reggere il gioco fino alla fine». Appena arrivato a
Brinnlitz, Bejski seppe della generosità di Schindler: un gruppo di donne della
fabbrica erano finite ad Auschwitz, Oskar andò al campo di persona e se le
riprese «con i suoi soliti mezzi», corrompendo i responsabili
del lager. Bottiglie, gioielli, sigari, sembrava avesse convinto
anche la sua segretaria nonché amante ad andare a letto con uno dei
comandanti. Formalmente disse ai comandanti di Auschwitz: «Ridatemele, sono
operaie specializzate. Non le posso rimpiazzare così su due piedi. Le ho
addestrate io stesso per anni, lucidano bossoli da 45 millimetri». C'erano
anche delle bambine tra di loro: e il magnifico imbroglione subito aggiungeva:
«Sono state scelte perché hanno le dita lunghe e riescono ad arrivare
all'interno meglio degli adulti». Faceva apparire plausibili le menzogne più
inverosimili. La stessa fabbrica era una finzione. E anche il lavoro di
Bejski faceva parte del gioco. «Sono stato messo in ufficio come tecnico
disegnatore. Poi sono diventato il maggiore esperto nella falsificazione di
documenti e lasciapassare», racconta Moshe a Nissim, perché Schindler aveva
bisogno di timbri ufficiali per ottenere materiali necessari alla fabbrica e
soprattutto trovare cibo per gli operai. Con le autorizzazioni contraffatte
i prigionieri potevano andare con i camion a Olomouc o a Brno a caricare
forme di pane, farina, benzina. «Era come se Bejski fosse stato catapultato
di colpo dall'inferno del campo in un covo di resistenza al nazismo. Attorno a
loro, dopo che il mondo li aveva respinti, sentivano tracce di presenza umana».
L'umanità di Oskar era fatta anche di piccole cose. Schindler lasciava
continuamente
dei lunghi mozziconi in giro. Secondo Moshe era perché gli altri li
fumassero o li scambiassero con qualcosa. Raccoglieva gli occhiali a chi
cadevano. A una ragazza che stava morendo chiese cosa desiderasse. Lei disse: «Una
mela». Lui andò apposta in città, a Zwittau, e gliene portò un sacchetto.
Un'altra giovane era incinta: se le guardie l'avessero scoperto l'avrebbero
ammazzata: Oskar trovò chi la facesse abortire. Quella donna ora vive in Israele. Non
era un uomo perfetto e trattava la moglie come uno zero assoluto. Ma fece vivere
dignitosamente gli ebrei che pensavano di morire da un giorno all'altro.
Schindler dopo la guerra andò in Argentina. Con i 15 mila dollari offerti da un
comitato ebraico americano che aveva riconosciuto i suoi meriti durante la
guerra, aveva progettato un allevamento di nutrie: ma quelle pelli risultarono
scadenti. Nel '57 se ne tornò in Germania dove cercò capitali per comprare
una fabbrica di cemento. Fece l' ennesima bancarotta. Fu allora che scrisse in
Israele per cercare aiuto tra gli ebrei della vecchia fabbrica di Brinnlitz.
Bejski gli mandò un biglietto aereo per Tel Aviv. Con alcuni reduci della
famosa "Lista". formò un comitato d'appoggio: raccolse 4 mila dollari
per il suo mantenimento immediato. Poi fece pubblicare sul giornale degli
emigrati polacchi l'annuncio che Schindler sarebbe arrivato
all'aeroporto Ben Gurion alla fine dell'aprile '62. Moshe andò alla scaletta
dell’aereo e quando comparve Schindler, sentì delle urla di entusiasmo che
arrivavano dall'edificio. Almeno duecento persone scandivano "Oskar,
Oskar, Oskar". Non fu la sola sorpresa: ogni membro della "Lista"
voleva parlare e ricordare pubblicamente il suo pezzetto di Schindler.
«D'istinto
cominciai a prendere appunti. Allora non c'erano né telecamere, né
registratori. Scrissi su dei fazzoletti di carta tutto ciò che sentivo raccontare». Dice Nissim: non sapeva che un giorno il mondo avrebbe
conosciuto la storia di Schindler proprio da quegli appunti, perché furono
quei racconti ad essere mandati a Spielberg per il fIlm, anche se poi nessuno
cercò Bejski per la sceneggiatura. Fin qui, la parte, diciamo "buona".
Il fatto però è che il giorno dopo su un importante
quotidiano israeliano, un certo Winier, peraltro sopravvissuto per merito
della "Lista", accusò Schindler di essere un nazista come gli
altri, di aver sfruttato la manodopera ebraica che non costava, di aver salvato
degli ebrei solo per salvare se stesso di fronte all'imminente disfatta
tedesca. Winier aveva conociuto Schindler il 15 ottobre 1939: portava una
svastica addosso e cercava di portare via a suo pare la fabbrica di proprietà
di famiglia. Per Bejski erano accuse risibili. I tedeschi in Polonia
confiscarono tutti
i beni ebraici e Schindler aveva solo acquistato una fabbrica già espropriata. E se
lo additavano anche perché si ubriacava nei bar insieme ai nazisti, Moshe
rispondeva: «Non avrebbe potuto salvare nessuno se non avesse familiarizzato
con le SS». Furono comunque accuse che a lungo impedirono a Bejski, ormai
nella Commissione dei Giusti, di far dare il riconoscimento a Schindler: le
parole di Winier fermarono il riconoscimento. Naturalmente, però, per quanto
delusi, gli uomini della "Lista" continuavano a sentirsi responsabili
della sorte di Schindler, che non aveva più una lira. I sopravvissuti
convinsero una banca israeliana a prestare i soldi per ripianare un suo grande
debito. Gli appunti delle testimonianze spediti alla Metro Goldwyn Mayer
fruttarono invece 50 mila dollari: ma in pochi giorni Oskar ne aveva già spesi
cinquemila. Insomma, Schindler non era il prototipo dell'uomo buono: era al
contrario «l'uomo più narcisista» che Moshe avesse mai incontrato; ogni volta
che arrivava in Israele
voleva sempre essere ricevuto con tutti gli onori, possibilmente su
pubblica piazza, con cerimonia. Se non veniva ospitato all'Hilton si offendeva.
Offriva da bere a tutti, ogni notte andava in locali equivoci, si ubriacava e
dormiva fino al pomeriggio: una vita sregolata piena di donne e donnine. Dopo un
po' gli stessi membri della "Lista" non ne potevano più dei suoi
sprechi, non facevano che tirare fuori soldi che poi finivano tutti in bevute e
notti proibite. Bejski non mollò di un millimetro. Certo che era più facile
amare le gesta mitiche degli eroi e la vita trasfigurata dei santi, come
desiderava il giudice Landau, che riconosceva come Giusti solo i più
irreprensibili. Bejski, al contrario, voleva apprezzare le azioni buone degli
uomini normali, pieni di difetti, fossero ladri o puttane, fasciti o
perfino nazisti. L'importante era che avessero riconosciuto l'orrore e che
avessero trovato in sé l'umanità per salvare delle vite. Ci volle molto tempo
perché vincesse la sua battaglia e se non l’avesse vinta oggi sulla collina
dello Yad Vashem ci sarebbero duecento alberi e non i 20 mila che conosciamo.
Vinse non solo per Schindler, ma per tutti quegli uomini e donne che avevano
salvato degli ebrei eppure non erano perfetti. Per Grüninger, la guardia
svizzera che aveva fatto passare tanti esuli alla frontiera ma non aveva
rischiato la vita per il suo gesto, per la scrittrice polacca Zofia Kossak,
antisemita dichiarata, eppure capace di nascondere moltissimi perseguitati, per
una prostituta polacca che ne aveva nascosti sette... Non fu facile. La dubbia
etica di Schindler nel '63 fermò una parte dei membri della Commissione dal
riconoscergli il titolo di Giusto. Nel '67 gli si comunicò che nel giardino
dello Yad Vashem esisteva un albero a suo nome. Niente di più. Schindler morì
nel 1974, ma Bejski, ormai a capo del “Tribunale del Bene”, riuscì
solo
nel giugno del '93, con un escamotage che comprendeva delle azioni di
salvataggio fatte dalla moglie di Oskar, Emilie, a dare due medaglie a una coppia
che «per il
resto, non aveva mai funzionato». I racconti di come Bejski si batté per
cambiare il concetto di "Giusto tra le Nazioni" nel libro di
Nissim sono uno più bello dell'altro. Storie di gente vera, non di extraterrestri
illuminati dal Bene assoluto. E l'aver voluto premiarli non è stato un modo di
edulcorare la verità. Al contrario: Bejski salito a presiedere la Commissione
nel 1970, ha dimostrato così che era possibile rimanere degli esseri umani
anche sotto il nazismo: se invece di essere 20 mila i Giusti fossero stati 100
mila, molti più ebrei sarebbero sopravvissuti.
Chi
ha tradito Anna Frank
Non
erano tedeschi ma olandesi i tre sospetti delatori. Ecco i risultati di una
commissione d’inchiesta
di
Andrea Tarquini
Amsterdam
Che
cosa resta da chiarire sul collaborazionismo?
«L'Olanda
è un caso-test. In Francia tutti dicono di aver appoggiato i maquis, eppure ci
fu Vichy. In Italia molti sono orgogliosi della
Resistenza, ma Mussolini era rimasto vent'anni saldo al potere. L'Olanda
fu più abile nell' auto assolversi: piccolo paese neutrale e invaso.
L'olografia ufficiale ci ha tramandato un'Olanda tutta schierata con la
Resistenza. E con il Diario di Anna Frank, l' immagine
d'un popolo unito ad aiutare gli ebrei. Il che non è vero».
Il
mito resiste?
«Abbiamo
cominciato tardi a fare i conti con la nostra coscienza. Molti beni espropriati
agli ebrei durante l'occupazione, dopo la guerra vennero affidati a musei.
Nessuno
cercò i legittimi proprietari».
Quanto
erano forti i collaborazionisti?
«Gran
parte della polizia olandese collaborò con la deportazione degli ebrei. Ma
fino agli anni Ottanta fu impossibile indagare su ciò: non pochi responsabili
di allora erano in alti incarichi».
Nel
caso di Anna Frank, chi tradì la famiglia?
«La
prima inchiesta fu avviata nel 1947. A carico di Willem Van Maar, che lavorò
con l'azienda di papà Otto Frank. Dal diario è chiaro che i Frank avevano
paura di lui. Ma fu scagionato per insufficienza di prove. Nel 1963 Simon
Wiesenthal
scoprì un altro sospetto: Karl Joseph Silberbauer, austriaco di nascita. Guidò
lui gli agenti che vennero ad arrestare i Frank. Fu scosso quando vide che
Otto Frank conservava ancora la sua giaccia da ufficiale del Kaiser. Nel 1980
infine il mio istituto ottenne il manoscritto integrale del Diario. Nel 1986
lo pubblicammo. Un capitolo riguarda appunto il tradimento. Ma non risolve
l'enigma: allo stato attuale, riteniamo che furono sicuramente gli
olandesi a denunciare la famiglia Frank. E non già agenti della "polizia
verde", il corpo. collaborazionista, ma civili, informatori magari
occasionali».
Perché
ne siete così sicuri?
«La
famiglia Frank si nascondevano in una casa sul retro d'un cortile. Una casa
non visibile dal strada e dal canale, come a Amsterdam ce ne sono tante.
Ma gli stranieri non lo sanno. Bisogna essere di casa e conoscere appunto questo
particolare segreto urbanistico
della città».
E
chi sono gli altri sospetti?
«Una
nostra ricercatrice, Melissa Miller, scagiona van Maar e accusa una donna
delle pulizie, Lena Hartog van Bladerer. Il cui marito lavorò per l’azienda
di Otto Frank. Carol Ann Lee, autrice del recente studio sulla vita segreta di
Otto Frank, fa un terzo nome: Tony Aalers, un piccolo criminale coinvolto nel
mercato nero. Entrò in affari con Otto Frank. Dopo la guerra, pare, lo ricattò
minacciando di denunciare che la sua azienda forniva merci non belliche alla
Wehrmacht».
I
tre sospetti - var Maar, Lena Hartog, e Aalers - erano in contatto tra loro?
«Questa
sarebbe una teoria su una congiura troppo azzardata».
I
Frank furono denunciati più di una volta?
«È
possibile, ma è chiara che fu una sola la telefonata alla Gestapo che
decise la loro sorte. È un giallo: stiamo ricercando per scoprire chi dei tre - tutti
sono morti - fu il colpevole. Il figlio di Aalers, a sorpresa, accusa il
padre. Ma non basta, servono più prove».
Quale
fu il movente della denuncia: antisemitismo?
«Dipende.
Nel caso di Aalers si potrebbe essere stato antisemitismo. E la taglia che i
tedeschi pagavano. Per la donna delle pulizie, il caso è
enigmatico:
suo marito lavorava per Otto Frank, avrebbe potuto rischiare l'arresto anche
lui. Van Maar era odiato da tutti per i suoi furtarelli».
Quanti
olandesi si macchiarono di consenso passivo?
«Non
ci fu un Petain, un Laval, o un Quisling. Il capo del partito filonazista,
Anton Adriaan Mussert, era formalmente "duce degli olandesi", ma
senza poteri reali. Chi decideva tutto era il capo tedesco
dell'amministrazione civile, Arthur Seyss-Inquart. Molti
"civil servant" lo aiutarono. Temendo che, se avessero disobbedito,
al loro posto sarebbero venuti nazisti sfegatati causando più vittime. O per
istinto di lealtà amministrativa. La fiducia nel governo è positiva in tempo
di pace, ma durante un'occupazione può creare problemi».
I
funzionari
olandesi salvarono anche ebrei o no?
«A
volte sì a volte no. Ci furono ufficiali di polizia che collaborarono con le
retate, e magari fecero arrestare 98 ebrei e ne salvarono due. Dopo il 1945 si
difesero ricordando i due salvati e non i 98 consegnati ai nazisti. Ci fu
chi visse passivamente rifiutandosi di aprire gli occhi. Nel 1942 tutti i
dipendenti pubblici furono costretti a dichiarare se erano ebrei o no: 99
ebrei su cento si dichiararono».
Ciampi
ha insignito il soldato Rigoni Stern
Migliaia
in corteo a Milano
di
Zita
Dazzi
Sette
croci al merito della Repubblica per sette persone il cui nome è legato alla
memoria tragica della guerra e della Shoah. Il presidente della Repubblica Carlo
Azeglio Ciampi ha scelto il 27 gennaio per premiare le vite e le storia di
persone che subirono le persecuzioni razziali, che furono deportate nei campi di
concentramento o che si diedero da fare per salvare vite umane dalla furia
nazista. Fra i sette insigniti, c’è lo scrittore Mario Rigoni Stern, nominato
Cavaliere della Gran Croce per «aver
tenuto viva negli italiani la memoria delle sofferenze dei nostri soldati».
Rigoni Stern – catturato dai tedeschi l’8 settembre del ’43, deportato nei
campi della Prussia orientale e dell’est europeo fino al 9 maggio del ’45
– appena avuta la notizia si è detto commosso e sorpreso: «Dietro questa
onorificenza ci sono anche tutti i miei compagni che sono rimasti sulle strade
della guerra. Non mi aspettavo una cosa del genere, soprattutto perché vivo
fuori mano e sono ormai 50 anni che è uscito “Il sergente della neve”».
Felicitazioni per il merito riconosciuto allo scrittore arrivano anche da Amos
Luzzatto, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane: «Se lo
merita proprio. È un uomo che ha eternato il ricordo della guerra e che ha
sofferto moltissimo». Luzzatto si felicita anche per le onorificenze conferite
agli altri sei martiri ed eroi della Resistenza e della Shoah, celebrata ieri a
Milano con un corteo di 20 mila persone. Sono tre i Cavalieri della Gran Croce
nominati da Ciampi: don Aldo Brunicci, che era prete nella Cattedrale di Assisi
e «si prodigò nella salvezza di centinaia di rifugiati ebrei»; Agata
Hersskovitz, nota come Goti Bauer deportata nel 1944 ad Auschwitz e liberata un
anno dopo a Theresienstadt; Piero Terracina deportato nel 1944 ad Auschwitz e
liberato il 27 gennaio 1945. Luisella Mortasa Ottolenghi, presidente della
Fondazione Centro documentazione ebraica contemporanea, è stata nominata Grande
ufficiale. Francesco Nicchi Ruscone, partigiano incarcerato dai nazisti, è
invece stato nominato commendatore, come Ines Figini, sindacalista, deportata a
Mauthausen e Auschwitz.
La Germania firma il suo concordato
Svolta a Berlino con la comunità
ebraica
A. T.
Berlino – Svolta nei difficili rapporti tra la
Germania e gli ebrei. Il cancelliere Gerhard Schroeder e il presidente delle
Comunità ebraiche tedesche, Paul Spiegel, firmeranno oggi a Berlino lo
Staatsvertrag, cioè in sostanza un concordato tra lo Stato tedesco e la comunità
stessa. Non a caso è stata scelta la data del Giorno della Memoria per la firma
ufficiale del documento, con cui Berlino conferisce per la prima volta nella sua
storia la massima dignità ufficiale ai rapporti con gli ebrei, elevandole al
rango di relazioni interstatali come quelle con il Vaticano. Lunghi e difficili
negoziati hanno preceduto l’intesa. Il presidente della comunità ebraica,
Paul Spiegel, parla di passo di importanza storica, ma il suo vice Michel
Friedman avverte: «Ciò nonostante, è ancora prematuro parlare di
normalità nei rapporti tra la Germania e gli ebrei». Sul piano dei contenuti
concreti, il punto più importante dell’accordo è l’impegno di Berlino di
triplicare gli aiuti finanziari alla comunità ebraica. La misura è necessaria
per organizzare l’assistenza al massiccio flusso migratorio di ebrei dall’ex
Urss e dall’Europa orientale, flusso che da almeno dieci anni ha nella
Germania la sua meta preferita. Gli arrivi in massa dall’est hanno ridato peso
demografico e dinamismo culturale ed economico alla comunità ebraica tedesca.
Il silenzio sugli eccidi resiste ancora.
Quegli
eccidi in Polonia. Il lato oscuro del vicino di casa
di
Adriano Sofri
Si può
prendere un vecchio popolo per la collottola, come si fa con un giovane cane, e
spingergli il muso in basso, per insegnargli a ricordare qualcosa che ha
dimenticato e che non vuole ricordare? In Polonia è successo, per merito di un
libro uscito nel maggio 2000 e intitolato Vicini. Erano i vicini di casa
cattolici che in un solo giorno, il 10 luglio del 1941, trucidarono i vicini di
casa ebrei, coi quali convivevano da secoli. Il villaggio, metà cattolico metà
ebreo, si chiama Jedwabne, il giovane autore del libro è Jan Gross, ebreo
polacco-americano. Ne scrissi qui anticipando l’uscita del libro, avvertito
del suo contenuto dirompente. Ma non immaginavo che nel giro di un paio d’anni
avrebbe mandato in pezzi l’idea di sé che i polacchi avevano teneramente
nutrito. Nemmeno Gross se l’era aspettato, benché vi aspirasse. Nei giorni
scorsi avete qui letto articoli che parlavano della Polonia. Della manutenzione
di Auschwitz - Birkenau:
continuare, e fino a quando, a sostituire il filo spinato arrugginito e logoro
con filo spinato nuovo di fabbrica? Che fare delle tonnellate di capelli che in
polvere si sfagliano? Che fare del più grande cimitero, un milione di ceneri,
che il mondo abbia avuto? Avete letto del carteggio cinquantennale fra il Papa e
il vecchio professore cattolico Swiezawski, che non si stancava di avvertirlo
“dell’antisemitismo a fior di pelle” e della grettezza sciovinista della
gente e del clero? Oggi, Giorno della Memoria, il racconto di questa Polonia
presa per il collo e messa davanti allo specchio può spingere davanti allo
specchio l’Italia, che i suoi libri rivelatori li ha, anzi!, ma li sa ingoiare
come un fachiro. L’Italia e la
Polonia sono diverse, beninteso. Cattoliche, devote alla Madonna, affratellate
nei risorgimenti e negli inni nazionali: solo che la Polonia aveva nel 1941 tre
milioni e mezzo di cittadini ebrei, più di tre milioni erano stati uccisi alla
fine della guerra, e oggi ne ha meno di ventimila. (In Italia ce n’erano
cinquantamila, e oggi sono trentamila). La cifra di partenza e quella d’arrivo
bastano a squalificare qualunque storia della Polonia che non abbia il suo
centro la voragine milionaria che li ha inghiottiti. Lo stesso enorme costo che
i polacchi non ebrei pagarono all’occupazione nazista – due milioni di
persone! – vacilla se non sia messo in colonna sotto quell’altro numero. Sul
carico separato delle “proprie” vittime la Polonia del dopoguerra ha
fabbricato la propria innocenza, liquidando di passaggio gli avanzi della più
grande comunità ebraica. Jedwabne era un posto come mille, un eccidio di ebrei
– radunati, spogliati, torturati, annegati, incendiati – compiuto dai
nazisti tedeschi. Tutto come al solito: solo che non erano stati i nazisti
tedeschi, ma i vicini di casa polacchi. Il silenzio che accolse il libro di
Gross non resse a lungo. Si scatenò
una virulenta campagna nazionalistica e clericale per denunciarne la falsità, e
continua tuttora: fornendo ulteriori prove di un antisemitismo incontrollabile.
La stessa deriva che ha travolto i resti di Solidarnosc. (Compresi, ahimè, Lech
Walesa e il suo confessore Henricyk Jankowski, il quale non ha trovato di meglio
che dichiarare che l’attuale governo polacco è dominato dagli ebrei). Il
governo ha nominaton un Istituto della Memoria nazionale che, guidato dal
professor Leon Kieres e dal procuratore Radoslaw Ignatiew, ha pubblicato due
imponenti volumi, documentando che crimini analoghi al massacro di Jedwabne si
erano compiuti nello stesso volgere di tempo in più di venti altre località.
Nel 2001 il presidente Kwasniewski partecipò a una cerimonia a Jedwabne nel
sessantesimo anniversario, chiesa perdono fra l’ostilità della cittadinanza,
si augurò che il mondo fosse così paziente da aspettare che il popolo polacco
digerisse quel boccone amaro. Il primate, cardinale Glemp, che non aveva voluto
partecipare, criticò Kwasniewski. (Nella chiesa c’è tuttavia una minoranza
di voci limpide, come Michal Czajkowski, sacerdote e teologo, o l’arcivescovo
di Gnienzno, Henryk Muszynski, o il padre Adam Bonieki, direttore del
settimanale Tygodnik Powszechny). Fino ad allora a Jedwabne una lapide
commemorava ancora i “1600 civili polacchi uccisi dai tedeschi”.
L’Istituto ha concluso che i civili polacchi erano ebrei, che a massacrarli
era stata una banda di alcune decine di compaesani polacchi, che i tedeschi
avevano offerto occasione e copertura all’impresa. “Non sarebbe successo”,
ha detto Konstanty Gebert, “se non ci fosse stata l’invasione tedesca: ma
l’invasione tedesca è stata l’occasione, non la causa per cui è
successo”. Il tifo o la passività della metà cattolica del villaggio erano
stati essenziali per il compimento dell’eccidio. L’Istituto aveva
(saggiamente) deciso di omettere i nomi delle persone implicate. Il sindaco di
Jedwabne, che aveva appoggiato l’indagine, e una famiglia di testimoni, si
sono ora indotti a emigrare negli Stati Uniti. Dettaglio impressionante. Non
raro: molti polacchi che avevano, a rischio della propria vita, aiutato dei loro
connazionali ebrei durante l’occupazione nazista, nel dopoguerra comunista (e
cattolico) si guardarono dal rivendicare le loro buone azioni, per paura di
pagarne il fio. Tengo a copiare qui il nome di Apolonia Wyrzykowska, l’unica
persona che andò in soccorso dei suoi vicini (del suo prossimo: è questo che
vuol dire “vicino”): mise in salvo sei ebrei e li custodì per tutta la
guerra, e fu cacciata dai compaesani come una rinnegata. La storia polacca è
stretta in questa morsa. Contro i nazisti i polacchi seppero resistere, ed è
loro il vanto dell’eroica insurrezione dell’agosto 1944 che costò 200 mila
morti fra i cittadini di Varsavia. Per parte sua, la “liberatrice” Armata
Rossa stette a guardare dall’altra sponda della Vistola senza muovere un dito
in aiuto agli insorti. Però in quella stessa Varsavia c’era già stata,
ancora più eroica e disperata, l’insurrezione del ghetto, nel marzo 1943: fra
due mesi se ne commemorerà il sessantennale, e bisognerà di nuovo ricordare
l’abbandono in cui vennero recintati degradati e sterminati i trecentomila
ebrei, un terso dei cittadini della capitale. Gli sciovinisti polacchi
accusavano (e accusano) gli ebrei di esser stati una quinta colonna del
comunismo sovietico. Il quale, a sua volta, riuscì in un’impresa
stupefacente. Per un verso, insediato al potere nel dopoguerra, contribuì
vastamente alla retorica dell’innocenza vittimista e della bontà polacca con
gli ebrei; e intanto tollerò o incoraggiò veri pogrom – quello di Kielce nel
1946 fece più di 40 morti e 60 feriti – e persecuzioni dentro e fuori del
partito. Le forsennate campagne antisemite arrivarono fino a quel 1968 che fece
emigrare 25 mila ebrei, la maggioranza dei superstiti, e segnò la scoperta del
proprio ebraismo nei pochi rimasti,
come l’ottimo Adam Michnik, oggi direttore della Gazeta Wyborcza, il
principale quotidiano, che dopo l’uscita di Vicini ha lui stesso esitato per
amor di patria, prima che l’amore per la verità avesse la meglio. Sul suo
giornale, Anna Bikont ha raccontato come ancora gli abitanti di Jedwabne,
ispirati dal loro bravo parroco, Edward Orlowski, sostengano che furono gli
ebrei stessi a commettere il proprio massacro, agli ordini della Gestapo. “La
nostra memoria”, ha scritto in un bell’articolo Joanna Tokarska, “è un
posto senza ebrei”. Succede così che si riempia spensieratamente di croci il
piazzale di Auschwitz. La Polonia ha ancora un 40 per cento di popolazione
rurale, la più esposta al pregiudizio antisemita. Tuttavia la discussione di
questi tre anni – c’è qualcosa di simbolico nel fatto che abbia aspettato
un nuovo secolo per aprirsi, e gli ultimi anni di vita degli ultimi testimoni
– ha scosso davvero l’idea di sé di quel paese, e la paradossale durata del
“antisemitismo senza ebrei”. L’anno scorso l’85 per cento dei polacchi
risultava al corrente della discussione (una percentuale record, eguagliata solo
sul tema dell’aborto): un terzo dei polacchi auspicava una pubblica richiesta
di scuse della Polonia agli ebrei – mai avvenuta, finora. Nello scorso
novembre il 40 per cento no, e il 20 per cento non sapeva. Una maggioranza
auspicava comunque che tutto ciò entrasse nei programmi scolastici. Tanti
auguri alla Polonia. Ma anche a noi. Il rabbino di Varsavia Michael Schudrich ha
detto. “La Polonia è impegnata in una profonda, ardua e onesta ricerca della
propria anima. Altri paesi possono imparare da questo”. Noi, per esempio? Le
revisioni storiche sul Novecento italiano che hanno guadagnato l’attenzione
del pubblico hanno essenzialmente attaccato descrizioni dichiaratamente
schematiche del fascismo o apologetiche dell’antifascismo. Ma in verità
nessun ramo della ricerca è stato ricco di frutti quanto quello
sull’antisemitismo italiano, sulle leggi razziste, sulla partecipazione
diretta alle persecuzioni e allo sterminio, sulle complicità e le inerzie. (Si
veda appena oggi, sul Diario settimanale, il saggio di Michele Sarfatti sul
mancato trasferimento degli ebrei italiani al sud dopo l’8 settembre 1943). Ma
la sua risonanza pubblica, la sua ricaduta civile, sono avare. Essa è poco più
che una specializzazione. Non ha neanche i nemici con la bava alla bocca che in
Polonia si battono contro la verità. Tranne che nelle frange maniache, gli
eredi della destra neofascista si sono sbrigati a condannare il paragrafo del
razzismo antisemita – buona cosa, naturalmente – e si sono definitivamente
esentati da ulteriori riflessioni. Sono al governo. Un giorno, quando le
periodizzazioni storiografiche troveranno un asse meno improvvisato, bisognerà
chiedersi se il ventennio fascista fu una parentesi nella storia nazionale, o se
lo fu il cinquantennio repubblicano. E come ci si chiese che responsabilità
avesse avuto il liberalismo monarchico prefascista nell’avvento del ventennio,
bisognerà chiedersi quale l’abbia avuta il cinquantennio – molto meno –
di centrosinistra nell’avvento
della destra. È passato poco tempo da quando i nostri vicini di casa furono
rapiti, e guardammo dall’altra parte: subito dopo allargammo i nostri
appartamenti. Ora c’è gente nuova, pare, che ci viene ad abitare accanto. Il
nostro nuovo prossimo, prossimo venturo.
Da la Repubblica, 27 gennaio 2003, per gentile concessione