la Repubblica
Giorno della Memoria
A Reggio Emilia 320 immagini dello sterminio nazista. Le più
rare quelle scattate nelle camere a gas di Birkenau
di
Francesca Caferri
ROMA
- Gli sguardi perduti nel vuoto di fronte a una macchina fotografica.
L'ingresso, tristemente noto, di uno dei luoghi più orribili della storia
umana, il campo di Birkenau. Una massa di scarpe o di pennelli da barba. E la
scena della cremazione dei cadaveri dei detenuti morti nelle camere a gas.
L'universo dei campi di concentramento nazisti è il tema di "La memoria
dei campi", esposizione fotografica ospitata fino al 10 marzo nelle sale di
Palazzo Magnani a Reggio Emilia. La mostra ospita 320 foto, scattate fra il 1933
e il 2000 e raccolte anche in un libro edito da Contrasto: si tratta di immagini
dure e difficili, a volte di testimonianze di pratiche orrende - come gli
esperimenti sui detenuti - che i curatori hanno voluto raccogliere non solo in
nome della memoria, ma anche per contribuire a capire come l'orrore dei campi di
sterminio sia potuto esistere. "Costituiscono un materiale doloroso,
talvolta insostenibile, che sempre fa dubitare persino sulla possibilità stessa
di mostrarlo - scrivono i curatori della mostra, Pierre Bonhomme e Clement Chèroux
- ma ci è sembrato meno grave rischiare di turbare che rischiare di
dimenticare". Fra le altre, in mostra ci sono le quattro foto scattate
nell'agosto del 1944 nella camera a gas del quinto crematorio di Birkenau da un
membro del Sonderkommando, la squadra incaricata dai nazisti di eliminare i
corpi dei detenuti cremati. Non si sa come i prigionieri riuscirono a procurarsi
la macchina fotografica, si sa però che il rullino uscì dal campo in un
tubetto di dentifricio e che quelle immagini rappresentano una delle pochissime
testimonianze della realtà delle camere a gas. L'esposizione si divide in tre
sezioni. Nella prima, 125 immagini raccontano il periodo dei campi: accanto a
foto scattate dai nazisti come ricordo di quel periodo - fra le altre, quella di
un ufficiale e suo figlio in visita a Buchenwald - ci sono quelle scattate agli
internati al momento del loro ingresso nei campi. Sguardi vuoti e spaventati che
sono spesso l'ultima testimonianza della vita di migliaia di persone. Si passa
poi alle foto scattate dai reporter al momento della liberazione dei campi. Sono
raccolti in questa sezione i volti emaciati e increduli dei sopravvissuti e le
testimonianze di un orrore appena terminato: immagini che raccontano il baratro
di orrore cui si trovarono di fronte reporter professionisti e militari semplici
fra la fine del 1944 e l'estate nel 1945. La terza parte raccoglie le foto
scattate nei campi dal 1945 a oggi: alcune sono opera di ex prigionieri tornati
nei luoghi dell'orrore, altre come quelle di Michael Kenna, nascono da una
precisa volontà di documentare l'orrore. Attraverso tutte, a chi le guarda
arriva un unico messaggio, lo stesso che volle trasmettere Primo Levi:
"Meditate che questo è stato".
Da la Repubblica, 16 gennaio 2002, per gentile concessione
«Gilda che sapeva di morire. Storia del viaggio da San Vittore a Auschwitz. Aveva 64 anni, il 30 gennaio 1944 fu caricata a calci e pugni su un furgone sigillato alla stazione Centrale di Milano. Lei che immaginava il suo destino tentò il suicidio. Morì appena giunta nel lager. Gli orari dei treni carichi di ebrei non dovevano disturbare il traffico normale. Quella donna era mia zia, ho raccontato la sua vicenda a mio figlio perché ricordi. Mio padre non mi ha mai detto come visse quel tempo, troppo forte era il dolore»
di Leonardo Coen
La mia prozia Gilda era nata a Livorno, ma viveva a Firenze, da ex insegnante, in un appartamento vicino al Duomo zeppo di libri e di oggetti che avevano accompagnato generazioni e generazioni di una famiglia ebrea diventata toscana all'inizio del Cinquecento. Stava a letto malata per colpa di una brutta bronchite quando le Ss bussarono alla porta, grazie alla spiata sella cameriera. Il 1944 era appena cominciato, il freddo s'incattiviva giorno dopo giorno e tutti dicevano che quello sarebbe diventato il più gelido gennaio del secolo. Lei avrebbe compiuto 64 anni ad agosto: dall' 8 settembre 1943 viveva col terrore d'essere scoperta e deportata nei campi di concentramento. Suo padre si chiamava Leonardo, sua madre Silvia. Era sorella di mio nonno Gastone. Suonava il pianoforte con buono stile (il fratello era compositore), aveva fama d'essere una donna molto generosa ed altruista: aveva dedicato la sua vita alla scuola, agli allievi. Le leggi razziali del 1938 la costrinsero a dare le dimissioni, e le tolsero persino il diritto alla pensione. Vendendo poco per volta i beni di famiglia, si comprò il silenzio di chi avrebbe potuto segnalarla alla polizia e quindi ai tedeschi. L'argenteria salvò zia Gilda sino a quel mattino di gennaio. Mio zio Alberto, fratello di mio padre, e mio nonno furono più fortunati: svendendo una prestigiosa collezione di francobolli del Granducato di Toscana si salvarono la pelle. Zia Gilda fu invece tradita dalla cupidigia di chi le dava una mano in casa. La storia di Gilda è la storia di centinaia e centinaia di altri ebrei italiani finiti nelle mani degli aguzzini di Hitler. Mio padre me la raccontò una sola volta: disse che per certe cose non esisteva il perdono. Zia Gilda cercò di suicidarsi, perché sapeva quale sarebbe stata la sua sorte: lo sapevano tutti. Quante volte, ipocritamente, è stato invece detto: "Non sapevamo e quando abbiamo saputo era ormai troppo tardi". Gli ebrei nelle mani dei tedeschi erano soli. Chi sapeva non seppe alzare la voce né far nulla per opporsi alla soluzione finale ideata da Hitler e dai suoi accoliti. I nazisti portarono zia Gilda all'ospedale di Firenze, la curarono e appena fu in condizione di stare in piedi, la misero su un treno diretto a Milano. Fu incarcerata al quinto raggio di San Vittore. Ci rimase qualche giorno, in attesa che i burocrati dello sterminio decidessero convoglio e destinazione. Gli orari dei treni per i morituri non dovevano mai disturbare il traffico ferroviario normale. L'efficienza tedesca, in questo caso, è assai documentata: per allestire i reni speciali destinati ai lager utilizzavano linee modernissime di telex e cavi telefonici dedicati. Un mare di moduli accompagnava i viaggiatori destinati alle camere a gas. Zia Gilda lasciò San Vittore il 30 gennaio. Fu caricata su un camion a calci, pugni, bastonate. Il suo convoglio portava la sigla 06. Alla Stazione Centrale gli ebrei catturati in tutta Italia arrivavano dentro furgoni sigillati condotti da autisti spesso italiani e portati al carico e scarico merci, in via Ferrante Aporti. In uno di quei sottopassaggi funzionava il montacarichi. Gli ebrei, ammucchiati come bestie, aspettavano il turno: sopra, i carri piombati erano già pronti. Tutto doveva sbrigarsi con la massima celerità. E in silenzio assoluto. Si udivano soltanto i latrati dei cani lupo che le Ss aizzavano contro i prigionieri. Gli ordini secchi e gutturali. Il pianto sommesso. Qualcuno riusciva a trovare la forza di pregare e ringraziare Iddio anche in quella miserabile situazione. Ma doveva farlo mormorando. Altrimenti veniva malmenato selvaggiamente. Dai binari sopraelevati, allora come oggi, alle case la distanza era modesta. Dai piani alti si vedeva. Eppure, chi guardava non aveva occhi per vedere. Sul "libro della memoria" di Liliana Picciotto Fargion a pagina 186 si legge che mia zia morì il 6 febbraio 1944, appena arrivata ad Auschwitz. Sulla pensilina d'arrivo sostava abitualmente Josef Mengele, il medico dell'orrore. Con un gesto quasi delicato del suo frustino indicava quale fila dovevano seguire i nuovi prigionieri. Una portava direttamente alle camere a gas. L'altra, alle baracche. Morivano subito i vecchi, i malati, che visibilmente non potevano resistere al Terribile regime imposto nel lager. Sul documento 2118279 " a page of Testimony" che ho rintracciato nel gigantesco archivio di Yad Vashem, a Gerusalemme (il nome vuol dire "un posto e un nome", citazione biblica di Isaia, 56, 1: è il museo dell'Olocausto) si segnala un'altra data della morte: 31 gennaio. Ma si basa su una testimonianza registrata a Milano nel 1989. Questa è la mia giornata della memoria: a mia volta l'ho raccontata a mio figlio. Quand'ero piccolo Milano portava addosso ancora i segni della guerra che un'alacre ricostruzione stava cercando di cancellare ma non, come succede ora, di dimenticare, banalizzando fascismo ed antifascismo in nome di un pretestuoso revisionismo. C'erano vasti spazi zeppi di macerie, e case coi carrelli che mettevano in guardia i passanti: "pericolante", leggevi, e attraversavi immediatamente, andavi sull'altro marciapiedi. Erano, quelli, i segni dei bombardamenti. Ogni tanto qualche ragazzo, giocando in un prato dove le sterpaglie nascondevano insidie esplosive, saltava per aria perché aveva messo piede inavvertitamente sopra un ordigno fino allora inesploso. Si passava davanti a certi portoni e c'era chi indicava: lì la Gestapo torturava la gente, lì i repubblichini portavano i partigiani, lì si sparavano fascisti e gappisti. I discorsi dei "grandi" erano pieni di ricordi di quegli anni bui: ognuno cercava di spiegare e spiegarsi. La guerra, la Resistenza, le atrocità del nazismo, le complicità e le responsabilità del fascismo diventavano attraverso le testimonianze dei nostri parenti, dei loro amici, come una scuola di vita, e comprendevamo così il grande valore della libertà, della democrazia, della coscienza civile riconquistate a prezzo di quelle indicibili terribili e laceranti esperienze. Ogni famiglia cercava di commemorare senza mentire: perché comunque c'era chi aveva visto, aveva vissuto, sapeva, aveva sofferto. Molti furono per anni incapaci di rievocare ciò che avevano vissuto: mio padre, per esempio, non ci ha mai detto come visse gli anni della caccia agli ebrei. Aveva una carta d'identità falsa, faceva l'annunciatore all'Eiar (la Rai del tempo) assieme ad Arnoldo Foà, la sua vita fu più simile all'esistenza di un ratto che non di un uomo, venne reso e piombato in un treno che gli inglesi attaccarono poco prima di Civitavecchia. Scappò, corse per ore. I nazisti stanarono quasi tutti i fuggitivi. Lui si salvò aggrappandosi ai rami più alti di un albero. Ci stette due notti. Ritornò a Roma vagolando per i campi. C'era nella sua voce, la voce di chi sopravvissuto alla vergogna, l'indignazione che tutto questo avesse potuto succedere. "Mai più" gliel'ho sentito dire infinite volte. Prima di morire, quattro anni fa, ci disse: "State attenti: sono tornati".
Da la Repubblica, 25 gennaio 2002, per gentile concessione
La
"Giornata della memoria" cade in una data precisa, a scoperta del
lager dove morirono 4 milioni di persone
Il 27 gennaio del 1945 russi
entrano ad Auschwitz
ROMA - Il 27 gennaio del 1945 l'Armata Rossa entrò nel campo di sterminio nazista di Auschwitz. Intorno alle 15 i soldati sovietici della Prima Armata del Fronte Ucraino, comandata dal maresciallo Koniev entrarono nel campo di sterminio. Fu così che gli Alleati scoprirono la "vergogna" di Auschwitz. In base alle indagini svolte immediatamente dopo la "scoperta" del lager, esperti inglesi, americani e russi, che lavorarono di comune accordo, stimarono in circa quattro milioni le persone che trovarono la morte nei forni crematori di Auschwitz-Birkenau. L'avanzata delle truppe sovietiche in Polonia, in direzione della Germania, obbligò i gerarchi hitleriani a evacuare i prigionieri da decine di lager e a distruggere gli impianti di sterminio, che secondo le stime più attendibili servirono complessivamente per il genocidio di circa sei milioni di ebrei europei. L'ultimo trasporto dei prigionieri di ambo i sessi verso Auschwitz avvenne a piedi. Era il 18 gennaio. Nei giorni che precedettero la liberazione c'era nei prigionieri - secondo quanto riferirono i pochi sopravvissuti - una tensione drammatica. Nel campo si trovavano soprattutto coloro che non potevano camminare. Quasi subito dopo l'ultimo trasporto, gli ufficiali delle SS cominciarono a bruciare i magazzini appiccando il fuoco con i vestiti imbevuti di benzina, strappati agli uomini uccisi nelle camere a gas. Il 20 gennaio le SS fecero esplodere i forni crematori numero 2 e 3, e la notte tra il 25 e il 26 anche il crematorio 5.
Da la Repubblica,
26
gennaio 2002, per gentile concessione