la Repubblica

«Mi sono salvata per poter parlare» 

La drammatica testimonianza di Settimia Spizzichino, una delle poche sopravvissute

a cura di Laura Lilli

Roma - Settimia Spizzichino è fra i pochissimi superstiti alla razzia del Ghetto. «Avevo ventun anni. Abitavamo a Via Reginella. Era l'alba ma non dormivamo. C'era un silenzio opaco, pesante, più minaccioso di quello solito del coprifuoco. La sera mio fratello, che aveva un negozio al Pantheon, ma abitava con la moglie a Testaccio, era passato, come sempre,a salutare mamma. Lei era agitata. "Paci, va' a casa, sbrigati stasera!”, disse. Ma che fretta c'è?'. "Niente, niente, vai, ché non mi sento bene”. Andammo a letto. Poi quel silenzio. Po passi pesanti, come di marcia. Ci mettiamo “sotto persiana” e vediamo i tedeschi che escono dai portoni con famiglie intere. «Vennero anche da noi. Parlavano poco. Mi mostrarono un foglietto: in venti minuti dovevamo essere pronti con oro, soldi, mangiare per affrontare un lungo viaggio, lo fui lucida. Una delle mie sorelle aveva una bambina piccola. “Lei non è ebrea”, dissi, “è ariana, è la donna di servizio”. La mandarono via, si salvò. Le misi anche in mano sette-ottocentomila lire, gli incassi di un negozio di abbigliamento di una zia a Montecitorio. Glielo gestivo io: ogni sera mi portavo i soldi a casa, la mattina li riportavo in negozio. Da mangiare c'era solo un po' di pecorino perché ne avevano appena distribuito delle razioni: 400 grammi a testa, senza pane né pasta. Vestiti pochi, quattro stracci, si compravano coi punti. Presero mia madre, me e due sorelle - una più giovane di un anno, una più gran de di cinque, con una bambina di 18 mesi. «Tuttavia Reginella era per strada. I tedeschi ci accompagnano a Monte Savello, dietro il Tempio. Dopo un po' ci fanno salire su dei camion.  Prendono peri il Lungotevere, arriviamo davanti a Regina Coeli. Qui scoppiai a piangere. "Mamma, mamma, ci portano a Regina Coeli, ma che abbiamo fatto di male?...'. Invece il camion proseguì fino al Collegio Militare. Lì passammo due giorni con quel pecorino. Una sete... lavarsi e bere, niente. Finalmente, gli stessi camion ci portano alla stazione Tiburtina. Ci mettono sui vagoni... sei giorni di viaggio, fino a Birkenau, che è un sottocampo di Auschwitz. «Stavamo in cinquanta, sdraiati in terra uno accanto all'altro. L'aria entrava dai finestrini a rete in alto. Non sapevamo dove andavamo. I vagoni erano chiusi da fuori. lo avevo dei disturbi fisici. Non c'era da lavarsi. Mia madre ripeteva: "non ti si può stare vicino, tanto puzzi". Piangevo, lei diceva-. “Non fa niente se puzzi”. Abbi pazienza, ci sarà un dottore lì dove ci portano, vedrai. Da mangiare non ci davano niente. Una volta al giorno fermavano in mezzo ai campi: per i bisogni  fisici.  Magari trovavamo qualcosa da mangiare dai contadini ... o qualche pianta ... Solo a Padova ci fu una lunga sosta, e la Croce Rossa ci distribuì una zuppa. Di Nepi, la prima persona che è morta, scese e si afflosciò a terra. No, io non lo conoscevo, era su un altro vagone. «A Birkenau c'era Mengele che faceva la selezione. In cin-quanta donne fummo portate “nel campo della quarantena”,così lo chiamavano. Degli altri sapemmo più tardi che erano finiti nelle camere a gas. Noi non ci credevamo, non ci pareva possibile. Però vedevamo le altre prigioniere che erano lì, ischeletrite, vestite di stracci, piene di pidocchi. Ci misero in una baracca a dieci per tavolaccio, con un'unica coperta, che la notte ognuna tirava a sé, litigando con le altre. Poi, all'alba, veniva la capo-baracca col nerbo: “In piedi!” Ci facevano fare lavori che ci sfinivano. In un campo c'era un cumulo di pietre. A mano, una a una, dovevamo portarle da un'altra parte. Ognuna cercava di prendere le più piccole. I tedeschi: “Dovete prendere le più grosse!” e botte. Così cominciammo a contenderci le più grosse. Eravamo sempre in  guerra fra prigioniere. Altri giorni ci portarono a spalare la neve per far passare i treni. Molte cadevano e morivano sui binari. Alla kapò dicevamo: “se mi riporti stasera ti dò la mia razione di pane”. «Addosso avevamo un vestitaccio e scarpacce. Alle donne non davano la divisa a righe, io non l'ho mai portata. Mia sorella piangeva. "Ė un inferno. Di qui non usciremo vive". Io gridavo: “Stai zitta! Io esco. Mi salvo: perché devo raccontare, far sapere”. Ė da quando sono tornata non ho mai smesso di andare nelle scuole a parlare; e una volta all'anno torno ad Auschwitz per dire una preghiera: quei morti non possono essere abbandonati. Ma ora sono amareggiata perché nei comitati e nelle rievocazioni i sopravvissuti non li fanno parlare più. Quest'anno me ne starò a casa, non parteciperò a niente. «Ero nel blocco dove facevano gli esperimenti. Nel giro di due mesi mia sorella morì, e così  altre italiane. Rimasi sola fra polacche, ungheresi, ucraine, cecoslovacche. Alcune sapevano un po' il tedesco e conquistavano la posizione di capo. «Così due anni. Vicino ad Auschwitz c'era un campo di militari tedeschi, che partivano per il fronte russo. I russi lo bombardavano, ma schegge cadevano anche sul lager. Poco prima che i russi arrivassero, Birkenau fu evacuato e fummo portati a Bergen Belsen (vicino ad Amburgo). Tolsero le prove delle camere a gas. Sentivamo i bombardamenti su Amburgo. Una greca aveva un cugino dalla parte degli uomini. Si incontravano attraverso la rete e lui le dava le notizie: gli alleati stanno qua, stanno là. Arrivarono finalmente il 15 aprile '45. Ormai eravamo pochissimi, stremati, digiuni. I tedeschi non facevano più nemmeno gli appelli. Gli uomini guidarono gli inglesi nel Lager. Li condussero ai magazzini: c'erano solo enormi botti piene di crauti viola. Tutti ci si avventarono, e poche ore dopo cominciarono a morire di diarrea. Il campo era rosso, non di sangue, ma di questa merda dei crauti. «Gli inglesi non avevano niente da darci. Non immaginavano uno sfacelo simile. Tolsero qualcosa alle razioni dei militari, ma per loro la guerra continuava, non potevano affamare i soldati per nutrire noi. I prigionieri liberati cominciarono a rubare. lo ero con tre ragazze, due di 14 e una di 17 anni. Incontrammo venti soldati italiani: “Venite con noi, c'è una fattoria grande, tenuta da due persone anziane”. Lì ammazzarono maiali, galline, bovini. Finito in una fattoria, si ricominciava in un'altra finché gli alleati fecero una legge per proibire queste razzie. Di quei soldati, due erano romani. Tornammo insieme, e ancora ci vediamo».  

Da la Repubblica, 1993, per gentile concessione

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