la Repubblica

"Nazi-criminali impuniti" - Italia sotto accusa
Documenti spariti e indagini degli alleati ignorate - "Il ministro Martino consigliò di lasciar perdere"
Un giornale tedesco: negli anni 50 stop alle inchieste per motivi politici

BERLINO - Criminali nazisti non perseguiti, indagini dei paesi alleati ignorate, migliaia di documenti spariti dagli archivi militari. L'Italia è sotto accusa e l'accusa è pesante: protesse negli anni cinquanta dei criminali di guerra tedeschi per non danneggiare i rapporti con la Germania, paese del quale divenne alleata in seno alla Nato nel 1955. Ad affermarlo è nel suo numero di oggi il quotidiano Sueddeutsche Zeitung, che all'argomento dedica il titolo di apertura e un articolo in prima pagina. "In Italia a tutt'oggi alcune centinaia di criminali di guerra tedeschi non sono stati puniti, poiché dopo la guerra non si è indagato seriamente su di loro", scrive il giornale di Monaco di Baviera che cita a sostegno della sua tesi "documenti degli alleati, atti istruttori e rapporti d'inchiesta" in suo possesso. "L'Italia - afferma la Sueddeutsche Zeitung - rinunciò, per considerazioni di ordine politico, a perseguire questi criminali, non pochi dei quali sono oggi ancora in vita e potrebbero essere oggetto di una nuova serie di indagini". Per far luce sui crimini nazisti, i militari americani e britannici, già nell'autunno del 1944, avevano creato alcune commissioni d'inchiesta che in molti casi erano riuscite a trovare i nomi dei responsabili. Finita la guerra, le loro conclusioni erano state inviate in Italia" dove però, scrive il giornale, "le indagini furono presto interrotte per considerazioni d'ordine politico". "Dopo che nel 1955 la Germania aderì alla Nato - afferma ancora la 'Sueddeutsche Zeitung' - l'allora governo di Roma a guida democristiana non volle danneggiare l'immagine del nuovo alleato per mezzo di inchieste così spinose e delicate". "E quando il procuratore militare di Roma nel 1956 espresse l'intenzione di inviare in Germania una richiesta di assistenza amministrativa, l'allora ministro degli esteri Gaetano Martino consigliò di lasciar perdere". "Fu così che sparirono circa 2 mila mappe da un armadio della procura militare di Roma". "Tali indagini - scrisse Martino in una lettera del 10 ottobre 1956 - potrebbero solo favorire critiche al comportamento dei soldati tedeschi e rafforzare nella Repubblica federale l'opposizione interna contro l'ingresso nella Nato", riferisce il quotidiano tedesco. Un portavoce dell'ufficio centrale per le indagini sui crimini nazisti di Ludwigsburg ha detto alla Sueddeutsche Zeitung che, più di recente, "per quanto riguarda un centinaio di casi l'Italia ha chiesto negli ultimi anni alla Germania assistenza amministrativa" per far luce sui tanti episodi e sulle atrocità commesse dagli hitleriani dopo l'armistizio. Il giornale conclude ricordando che tra il 1943 e il 1945 "furono uccisi più di 30 mila partigiani italiani e 10 mila civili".

Da la Repubblica, 29 ottobre 1999, per gentile concessione


A Roma presentazione della prima pellicola sulla Shoah Foundation alla presenza di Azeglio Ciampi

Olocausto, arriva il film-museo

di Furio Colombo

Il film "Gli ultimi giorni" presentato ieri a Roma (fra gli spettatori in sala c'era il presidente Ciampi) non è nato come un progetto. È nato da un soprassalto, da un incubo. Dice Steven Spielberg che lo ha ideato e prodotto: "Ero a Cracovia, stavo facendo i sopralluoghi per "la lista di Schindler". Mi sono accorto all'improvviso di quanto erano vecchi coloro che sapevano, che ricordavano. Non solo i sopravvissuti, ma coloro che c'erano, a quel tempo, che avevano visto, che potevano indicare il muro del ghetto o il percorso della deportazione. Cracovia è una città intatta, a differenza di Varsavia, dove tutto è stato meticolosamente distrutto e poi ricostruito in un falso antico dopo la guerra. Ma a Cracovia non c'era quasi nessuno che potesse descrivere come era la sinagoga, prima, dov'erano i negozi, dov'erano le scuole da cui hanno prelevato i bambini, i luoghi dov'erano stati ammassati i cittadini polacchi ebrei nella violenta, scrupolosa, bene organizzata deportazione che avrebbe sradicato dalla terra polacca ogni famiglia ebrea". Passavano davanti al regista americano le testimonianze di coloro che erano stati parte della "lista di Schindler", che da quella lista erano stati salvati. E lui si è reso conto che se avesse tardato qualche anno a realizzare il suo film (a volte, nel mondo del cinema, succede, una buona idea ne blocca un'altra) non avrebbe trovato più nessuno in vita. Non ci sarebbe mai più stata alcuna voce o testimonianza. Ma un'altra esperienza ha segnato l'impresa di Spielberg, che continua da anni, che continuerà per anni, e che sarà raccolta in molti episodi come quello presentato lunedì sera a Roma, al cinema Etoile. È il museo dell'Olocausto, a Washington. Quel museo ha lo straordinario valore di dimostrare ciò che i negazionisti tentano inutilmente di far credere, la tesi secondo cui la Shoah è stata "ben poca cosa" (per ripetere la terribile frase di Vittorio Emanuele Savoia). O che non c'è stata affatto. Il museo di Washington è una rappresentazione accurata e inconfutabile dell'orrore perpetrato e dell'orrore subito. Per ogni evento vi sono nomi, luoghi, date e documenti. Di qui è nata l'idea del cinema come museo. O del museo come film. Infatti, come in un museo, Spielberg raccoglie ciò che è restato invita di un meticoloso piano di morte, affinché si possa ascoltare la narrazione dalle vive voci dei protagonisti sopravvissuti, qualcosa che, nella storia, non era stato mai possibile prima d' ora. Lo fa rappresentando con pacatezza e prudenza (ovvero, senza nessun tentativo di sceneggiare o di esaltare la narrazione) il momento che precede la deportazione verso lo sterminio, il luogo e l'esperienza di essere stati protagonisti-vittime del rituale d'orrore. E i frammenti di memoria che restano del "subito dopo". È il momento che sfugge di più alla conoscenza di tutti coloro che non sono stati parte della Shoah perché coincide con un clamoroso, collettivo rigetto della memoria. Per capire, pensiamo per un momento all'Italia, che pure ha un suo importante museo dell'Olocausto presso il campo di Fossoli, che ha testimoni d' immensa autorevolezza come Primo Levi, autori di cinema noti nel mondo come Francesco Rosi e Roberto Benigni. Nessuno, in Italia, ha chiesto, voluto, cercato le liste dei persecutori, dei facilitatori, dei complici del più spaventoso delitto della nostra storia moderna. Non ci sono state antologie dei tremendi documenti che a suo tempo venivano considerati utili articoli di giornale, tempestive recensioni e opportuni sostegni intellettuali alla "difesa della razza". Fino al libro di Giorgio Fabre nessuno ha pubblicato le liste degli editori e dirigenti editoriali italiani che, senza battere ciglio, avevano eliminato gli autori ebrei, anche di immensa fama internazionale, dalle loro liste editoriali. Fino al libro di Israel e Nastasi non erano disponibili (se non in pochi frammenti) i documenti italiani su "scienza e razza". Fino al libro di Gabriele Nissim non si è saputo che si poteva dire no (come hanno fatto alcuni gerarchi fascisti bulgari) alla richiesta nazista di consegnare i propri concittadini ebrei. Questa prima "stanza" del cinema come museo, del museo come reclamo di vita, diretto da James Moll e voluto e organizzato da Steven Spielberg, riguarda l'Ungheria, dove le deportazioni sono avvenute persino quando era già iniziato il crollo del nazismo. A questo criterio si ispira: impedire il gioco dell'amnesia, che diventerà più vasto e più indifferente quando gli ultimi sopravvissuti saranno scomparsi. Per questo l'evento italiano è stato organizzato a Roma dalla associazione "I figli della Shoah", giovani che hanno ascoltato, come Spielberg, le vere storie dalla viva voce di padri, madri, fratelli, e non intendono dimenticare. Per questo si è presentato ad ascoltare le prime storie della grande collezione di Spielberg il presidente Ciampi, a nome degli italiani.

Da la Repubblica, 19 ottobre 1999, per gentile concessione


Il film prodotto da Spielberg è un documento toccante che si presta a più interpretazioni
Viaggio nella memoria per non dimenticare

di Irene Bignardi

Per misurare quali corde di sensibilità e di dolore tocchino certi temi, è interessante scoprire che anche Gli ultimi giorni, il documentario sull'Olocausto prodotto da Steven Spielberg, è stato oggetto in America e in Inghilterra, come è accaduto recentemente a ogni opera cinematografica o letteraria che tocchi questo problema, di un dibattito dai toni pacati ma non per questo meno insistente, e che alla commozione dei più si sono affiancate le riserve di molti insospettabili commentatori. Riassumere le loro argomentazioni - si tratta spesso di sopravvissuti all'Olocausto che mettono in campo la loro personale esperienza - rischia di banalizzarle. Diciamo che l'obiezione più forte mossa al film di Spielberg (inutile nascondersi dietro il nome del regista James Moll, Gli ultimi giorni è in tutto e per tutto il frutto della volontà del "moghul" della Dreamworks e della sua ambizione "storiografica", nata con "Schindler's list", continuata attraverso "Salvate il soldato Ryan" e consolidatasi con il lavoro della Fondazione per la Shoa) e che racconta sì cinque storie tragiche, cinque percorsi attraverso l'inferno dei campi nazisti, cinque storie di sradicamento e di orrore. Ma si tratta di cinque storie "a lieto fine": i protagonisti-testimoni sono lì a raccontare la loro esperienza, circondati dalle famiglie che si sono ricostruiti, cittadini di un grande paese come gli Stati Uniti che li ha accolti e, come nel caso di Tom Lantos, il bellissimo gentiluomo ungherese diventato membro del Congresso, in cui è l'unico sopravvissuto all'Olocausto, ne ha fatto l'esempio di un sogno americano di giustizia e tolleranza per tutti. Gli altri - dicono i critici del film - i "sommersi", quelli che si portano addosso le ferite profonde e incurabili di cui è morto Primo Levi, non avrebbero voce in questa pur così drammatica testimonianza, che è la prima ad avere la circolazione, e quindi l' impatto presso il grande pubblico, di un film realizzato sotto l' etichetta Spielberg. "L'immagine prevalente dell'ebreo in tempo di guerra è passata da quella di una vittima a quella di un eroe. Nessuna delle due è utile", sostiene per esempio Anne Karpf, una sopravvissuta ai campi che ha scritto un libro proprio su questo tema, The War After: Living with the Holocaust, e confessa qualche perplessità anche circa l'azione della Shoa Foundation, che per conto di Spielberg intende raccogliere ogni possibile testimonianza sull'Olocausto, con quella che lei chiama "una toccante fiducia nel potere persuasivo del video".L'interrogativo che investe il film è se non sia più giusta, per trasmettere il senso dell'Olocausto, la secchezza di "Notte e nebbia", il film di Alain Resnais sui campi, o la testimonianza fiume di "Shoa", il film di Claude Lanzman, anziché le storie di Gli ultimi giorni - con i "lieto fine", la bella fotografia e il commento musicale.Se i termini del dibattito sono delicati e coinvolgono il senso della memoria e della storia, Gli ultimi giorni è, in compenso, più semplice e diretto e, nella semplicità di un lavoro di montaggio e di interviste, molto toccante: non diverso in questo, se non per dimensione produttiva, da "Memoria", il film sugli ebrei del ghetto di Roma realizzato due anni fa da Ruggero Gabbai, che in quest'occasione bisognerebbe rivedere con attenzione, perché rappresenta un'altra tessera importante dell'immenso mosaico della Shoa - o, come scriveva qualche giorno fa Furio Colombo, la prima "stanza" di un museo contro l'amnesia. Gli ultimi giorni s'intitola così non solo perché parla degli ultimi giorni di così tante persone innocenti - gli uomini, le donne, i bambini della comunità ebraica ungherese trasportati nei campi nazisti e fatti atrocemente morire - ma anche perché (a prova ulteriore della sinistra follia di cui furono vittime) quelli erano anche gli ultimi giorni o quanto meno gli ultimi mesi della guerra, i nazisti, pur consapevoli che le cose stavano per loro volgendo al peggio, determinati nella loro folle ossessione, in sole otto settimane del 1944 lanciarono un genocidio su vasta scala contro gli ebrei ungheresi. Sullo sfondo di quei tragici mesi il film ci parla di Eichmann e dei Sonderkommandos, che organizzarono minuziosamente il loro piano di sterminio, così come del lavoro frenetico di Raoul Wallenberg, il diplomatico svedese che riuscì a salvare migliaia di persone creando una serie di rifugi e mandandoli in Svezia con falsi passaporti diplomatici. Ci sono i materiali inediti arrivati alla fondazione: con le terribili immagini a 16 millimetri, a colori, girate da un soldato delle forze americane di liberazione, che, proprio per la violenza evocativa del colore, non aveva finora avuto il coraggio di tirar fuori dalle scatole in cui erano conservate. Ma a lasciare il segno sono soprattutto le storie dei cinque testimoni scelti da Moll - da Alice Lok Cahana, un'importante artista le cui opere, tutte ispirate all'Olocausto, sono esposte nei più importanti musei ebraici del mondo, a Renée Firestone, che aveva 14 anni quando è stata deportata e che, sotto gli occhi della cinepresa, vediamo interrogare sulla tragica fine di sua sorella il medico di Auschwitz, il dottor Munch, che descrive con agghiacciante oggettività come si svolgevano "tecnicamente" quegli orrori - e le immagini del loro ritorno in patria, alla ricerca di un mondo scomparso, di memorie cancellate, di identità perdute. Forse hanno ragione i critici e i perplessi: nessuno sa se ricordare, far ricordare, costringere a ricordare, insegni l' umanità e la tolleranza. Ma "non" ricordare sarebbe certo una colpa ben più grave.

Da la Repubblica, 25 ottobre 1999, per gentile concessione

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