la Repubblica
Le memorie di Edith adolescente ebrea
Esce dopo cinquant'anni il diario di Edith Velmans, ragazza della borghesia dell'Aja travolta dal nazismo
di Fabio Santolini
Se Edith Velmans non avesse
pubblicato, a più di cinquant'anni di distanza, i suoi diari di adolescente
ebrea olandese travolta dal nazismo, memorie preziose si sarebbero perdute per
sempre nel fondo opaco della dimenticanza. Come il ricordo di quella notte di
ottobre del 1940, quando alcuni ragazzi della buona borghesia dell'Aja si
accorsero che, nonostante l'oscuramento per la guerra, per le strade si riusciva
a vedere grazie alla luce della luna; e deposero un grammofono sul lago
ghiacciato e ballarono con i pattini ai piedi. Ballarono valzer e fox trot a
dispetto dell'occupazione tedesca, che voleva dire il divieto per gli ebrei di
viaggiare sui mezzi pubblici, la chiusura delle scuole, la stella gialla sui
vestiti, i cartelli nei negozi che recitavano "Qui gli ebrei non sono
graditi"; e poco dopo, le deportazioni. Oppure, sempre se quei fogli
fossero rimasti in un cassetto, l'amnesia avrebbe inghiottito la sera
dell'ultimo concerto del primo violino Sam Swaab costretto a lasciare la
carriera per le leggi razziali; con il pubblico che al termine della sinfonia,
per solidarietà, scoppiò in un tumultuoso applauso: "La gente batteva i
piedi, la sala tremava, ero commossa", registrava la giovane Edith. La sua
gioventù dorata fatta di uscite in barca sul lago, studi e musica jazz alla
radio, feste, amicizie e primi amori al circolo di canottaggio era lì lì per
finire. "Quel periodo remoto l'ho ancora davanti agli occhi, come fosse
ieri", dice con una specie di nostalgia Edith Velmans, che è in Italia in
occasione dell'uscita del Libro di Edith edito da Frassinelli (pagine
231, lire 25.000). L'anziana signora, minuta e timida, nascosta dietro grandi
occhiali da miope, racconta: "Ho tenuto i miei otto diari per tanti anni
chiusi nel cassetto, non pensavo potessero interessare qualcuno. Inoltre,
qualche editore mi aveva addirittura detto che la mia storia non era abbastanza
interessante; secondo loro era poco drammatica perché io non finivo in un campo
di concentramento, ma mi salvavo grazie all'aiuto di una famiglia cattolica
olandese che mi adottò. Non interessavano anche perché dipingevano la vita di
noi giovani ebrei benestanti". "All'inizio
gli credetti poi invece sono andata avanti" prosegue la Velmans, sorridendo
"ho tradotto il materiale in inglese perché almeno i miei amici negli
Stati Uniti, è lì che mi sono trasferita dopo la guerra, potessero leggerli.
Alla fine sono riuscita a pubblicarli, prima negli Usa, poi in Olanda, adesso in
Italia; e confesso che mi fa piacere, soprattutto per i parenti e gli amici che
rimasero nel nostro Paese, furono deportati e io non li rividi mai più".
Nei gesti, nello sguardo, nelle parole dell'anziana autrice, c'è qualcosa della
limpidezza della sua scrittura giovanile, della vitalità e della forza del suo
diario. Nel quale lei riduceva all'essenziale gli avvenimenti, senza
enfatizzare. E non perdeva mai la speranza, per esempio: "Menno ter Braak,
uno dei maggiori critici letterari, si suicidò. Una telefonata avvertì papà
che sua cugina Mary era stata trovata morta nella cucina, con il fornello del
gas acceso. I miei genitori furono molto colpiti dalla notizia. Quanto a me, non
riuscivo a capire come degli adulti nutrissero così poche speranze quando
c'erano così tante cose belle al mondo, cose che mi sembrava di vedere per la
prima volta". "Beh, passi del genere" spiega l'autrice che da
anni esercita la professione di psicologa "mostrano un po' la salutare
incoscienza della piccola Edith, le sue difficoltà emotive a prendere atto di
una situazione gravissima, e un po' il fatto che allora era difficile avere la
percezione della tragedia che di lì a poco sarebbe scoppiata; nessuno avrebbe
potuto immaginare la Shoah". "Adesso" prosegue "la cosa
migliore che si può fare è mantenere il ricordo, la testimonianza. Anche se
sembra che la storia insegni poco. Alla fine del millennio l'Europa è stata
insanguinata da altre deportazioni, uccisioni e da una nuova guerra. È
terribile. Ma spero ci siano altre Edith, non ebree ma albanesi, serbe o rom che
scrivano il loro diario, come feci io più di cinquant'anni fa. La storia deve
essere raccontata e forse le prossime generazioni impareranno". Il Libro
di Edith si aggiunge agli altri libri di memorialistica dell'Olocausto, che
fermano nelle pagine scritte da persone comuni il momento più degradante della
storia europea. E richiama il diario più commovente, quello di un'altra ragazza
olandese di Amsterdam: Anna Frank, meno fortunata della Velmans.
Da la Repubblica, 5 luglio 1999, per gentile concessione