la Repubblica
Mai più la guerra, mai più Auschwitz
di Adriano Sofri
Con la "guerra" per il
Kosovo viene al pettine il nodo irrisolto del 1945: fra la lezione che suona
"mai più la guerra" e quella che suona "mai più
Auschwitz". Quei due fili si ingarbugliarono e oggi, quando è diventato
urgente ridipanarli, ce ne troviamo in mano uno solo alla volta. D'altro canto,
la "guerra" fa appello al "nuovo diritto internazionale",
mettendone alla prova insieme la concezione ispiratrice, e i modi di attuazione.
La differenza fra i modi è offuscata, finché l'attenzione continua a fissarsi
su pretese linee di principio, pacifismo o interventismo: e invece è decisiva,
come mostra giorno dopo giorno la strategia dei raid aerei. Quest'ultima ha una
storia e un carico simbolico, che non mi sembra meno importante di quello
strettamente militare. Menzionando la promessa "Mai più Auschwitz",
non intendo né paragonare la deportazione e gli eccidi in Kosovo alla Shoah, né
Milosevic a Hitler - che può essere solo un generico, e allora meritato,
insulto. Inoltre, nel "Mai più Auschwitz", è contenuto il "Mai
più Gulag", benché questa connessione abbia tardato molto a farsi
riconoscere. I giudici di Norimberga, e le potenze vincitrici che li avevano
insediati, affrontarono due questioni maggiori: la prima, la preservazione
futura della pace, e dunque i "crimini contro la pace"; e l'altra, i
"crimini contro l'umanità", incunabolo dell'odierno diritto
all'ingerenza. Fu la prima a prevalere, al punto che buona parte dell'accusa si
improntò alla nozione (giuridicamente dubbia) di "cospirazione" per
provocare e attuare la guerra d'aggressione. I crimini contro l'umanità,
"l'assassinio, lo sterminio, la schiavizzazione, la deportazione, e ogni
atto inumano commesso contro tutte le popolazioni civili, o le persecuzioni per
motivi politici, razziali o religiosi..." furono largamente assorbiti dai
"crimini di guerra", i quali erano invece codificati nel diritto
internazionale dall'inizio del secolo. Lo stesso sterminio degli ebrei, cuore
della nuova figura di crimine contro l' umanità, venne inizialmente trattato
come parte del piano per la guerra aggressiva, e della sua esecuzione. Il
processo finì nell'ottobre del 1946, e tuttavia il peso cruciale di Auschwitz -
almeno un milione e 100.000 uccisi, più del 90 per cento ebrei - non vi fu
sentito. Quanto alla parola genocidio, coniata da Raphael Lemkin solo nel 1944,
non comparve agli atti del Tribunale militare di Norimberga, e dovette attendere
il processo a Eichmann, 1960, per occupare il centro dell'accusa. L'attenzione
soverchiante al tema della guerra e della pace nei confronti di quello dei
diritti umani, manifesta nell'orientamento giuridico di Norimberga, ha una
faccia civile drammatica e nota, benché mai abbastanza. Vi ricordate del sogno
- l'incubo - del superstite di Auschwitz, raccontato in "Se questo è un
uomo", di tornare e non essere creduto. Di non essere neanche ascoltato.
(Bisogna ricordarsene ora, ascoltando con cautela i racconti di Kukes).
Comprensibile, no? In fondo tutti sono usciti da una tragedia, come è stata la
guerra, e non hanno orecchie per il racconto altrui, e oltretutto vogliono
dimenticare e ricominciare a vivere. A un tale sentimento appartenne anche
l'amara difficoltà di "Se questo è un uomo" a farsi pubblicare, e
riconoscere. Ma che spazio trovasse, alla lettera, la Shoah nell'Europa
liberata, lo mostrarono i campi cintati di filo spinato e vigliati con le armi
in cui le migliaia di ebrei superstiti vennero rinchiusi, "displaced
persons", gente fuori luogo, dagli Alleati, col generale Patton in testa,
prima che Eisenhower lo destituisse. "Fuori posto", in Europa. Fra i
due impegni - mai più guerra, mai più Auschwitz - l'Europa delle autorità e
quella della gente comune non ebbero dubbi, ammesso che intuissero il problema.
All'altro capo della sconfitta, in Giappone, si svolse una vicenda parallela,
con due o tre differenze capitali. Intanto, i giapponesi avevano commesso
atrocità enormi nel corso delle loro lunga guerra (fin dalla Manciuria 1931),
ma senza un equivalente dell'antisemitismo e della Shoah. Inoltre il Giappone
non fu occupato da un gruppo di potenze vincitrici, come la Germania, bensì dai
soli Stati Uniti e anzi da un plenipotenziario assoluto, fino al 1952, Mac
Arthur. Soprattutto, sul Giappone erano state sganciate le bombe atomiche.
Hiroshima e Nagasaki furono sentite da ciascuno come un passaggio epocale, benché
i bombardamenti convenzionali della Seconda Guerra, la "tempesta
incendiaria" su Amburgo o Berlino, o Dresda (luglio '43, decine di migliaia
di morti nel giro di 14 ore), o a Tokyo (84.000 morti in una notte) avessero
causato un numero maggiore di vittime. Il B29 su Hiroshima ne uccise 71.379. Ma
a Hiroshima l'onnipotenza di una scienza che si rivaleva sulla creazione divina
con la distruzione nel nulla, fece strage di persone e cose, ma più ancora
rovesciò l'orizzonte simbolico del mondo. Molti degli stessi giapponesi vollero
sentirvi, più che il colpo schiacciante del nemico americano, una specie di
vampata sacrificale, nella quale rimuovere le proprie colpe, ed espiare per
l'intero genere umano, tramutando la disfatta in una missione di testimonianza
antimilitarista e pacifista. Nel Tribunale militare di Tokyo, gemello di quello
di Norimberga, si condannò la cospirazione della cricca militarista e le
atrocità (gli eccidi, gli stupri di massa, le schiavizzazioni delle popolazioni
asiatiche conquistate, le sevizie ai prigionieri): i "crimini contro
l'umanità" furono assimilati del tutto ai crimini di guerra. La posta
dichiarata era la capacità di prevenire la guerra. A Norimberga era stato
vietato alle difese dei gerarchi nazisti di rinfacciare i crimini alleati, e
soprattutto i bombardamenti delle città; così a Tokyo per Hiroshima. (Benché
il giudice indiano, Pal, considerasse l'atomica come il vero crimine contro
l'umanità). Ma non influì solo il drastico divieto americano. È stupefacente,
di quel Giappone, scoprire come da un giorno all'altro - i giorni di Hiroshima e
dell'inaudito discorso di resa di Hirohito - un mondo di mentalità e abitudini
che sembravano ferree crolli e si capovolga in un'adesione al modo di vita del
vincitore. Il quale portò, con l'"arrogante idealismo" (o, in
un'altra definizione, l'"imperialismo sentimentale") che gli era ed è
proprio, non solo la manifestazione della sua superpotenza economica a un paese
agonizzante di fame, ma anche una radicale riforma democratica della vita
associata (diritti delle donne, liberazione dei prigionieri politici,
essenzialmente di sinistra, regole elettorali ecc.). Questo complesso di
innovazioni fu chiamato, e largamente applaudito, come "rivoluzione
dall'alto". (Ho appena letto John W. Dower, "Embracing Defeat. Japan
in the Wake of World War II", New York 1999, cavandone scoperte forti
quanto la mia ignoranza). Non è sconvolgente che nel paese di Hiroshima venga
adottata l'immagine di un "alto" da cui arriva il bene? L'esplosione
riuscita ad Alamogordo è del luglio. Hiroshima del 6 agosto. Tempo a parte, avrebbero gli americani sganciato l'atomica
sulla Germania, in Europa? I giudizi più affidabili riconoscono una vena di
disprezzo razziale nella scelta del Giappone. Quel colpo ebbe comunque una serie
di ripercussioni decisive su tutto il mondo. In primo luogo, associò
definitivamente (e, in larga misura, abusivamente) gli americani all'idea di un
egoismo così cinico da far scegliere un olocausto atomico di civili,
militarmente superfluo, per non mettere a repentaglio vite americane. Inoltre,
eclissò ogni altro giuramento ("mai più Auschwitz") figurando, da
allora in poi, una distruttività totale della guerra, che ne esigeva la
trasformazione in un tabù, e della pace in un imperativo senza alternativa. Il
mondo si sarebbe spartito d'ora in poi in un prima e un dopo la bomba. Qualcuno
sentiva che il mondo si era diviso in un prima e un dopo Auschwitz. (E le stesse
parole si evocavano per Auschwitz e Hiroshima: impensabile, indicibile...). Ma
come arrestarsi davanti alla fine di un mondo, quando si annunciava la fine del
mondo? L'atomica - tanto più nel colpo raddoppiato di Nagasaki - era stata
impiegata anche per avvertire l'Urss, la quale si gettò al recupero del
ritardo, e in pubblico levava la bandiera della difesa della pace contro la
potenza aggressiva dell'America. Il pacifismo apparso universalmente come la
lezione da tirare dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale, sarebbe stato
segnato dall'ipoteca sovietica. Più in generale, Hiroshima sarebbe diventata,
per un grande e sincero numero di intellettuali e persone comuni in tutto il
mondo, l'argomento da opporre in pubblico all'anticomunismo, e da mormorarsi in
cuor proprio per giustificare le nefandezze dell' Urss. Nel momento
dell'amministrazione congiunta della vittoria, America e Urss preparavano il
terreno della futura sfida. Nella quale un altro fattore era destinato a giocare
una parte simbolica rilevante. Alla fine, la Seconda Guerra Mondiale era stata
vinta soprattutto da due forze complementari (così appariva): la superiorità
economica e tecnologica degli Stati Uniti, e la resistenza umana del popolo
russo. La seconda portava il nome glorioso di Stalingrado, la prima il nome
terribile di Hiroshima. Una aveva l'aspetto dell'aviatore, potente di una
potenza distante, che colpiva dall' alto; l'altra le fattezze antiche del fante
Ivan, del contadino russo attaccato alla terra, e inestirpabile fino alla morte.
(L'armata degli Ivan nella sua controffensiva fino al centro di Berlino commise,
incitata, un numero incomparabile di stupri: questo si seppe meno, o si
"capì"). Un tocco peculiare si aggiunge alle immagini opposte, e dà
loro il suggello che può dare un libro quando diventa lo schermo attraverso cui
riconosciamo il mondo: è il Tolstoj di Guerra e Pace. Sulla sua filigrana si
imprime l'epopea di Stalingrado. (E vi si ricalca "Vita e destino", la
grande opera di Vasilij Grossman su Stalingrado, gloria di un popolo e insieme
del suo tiranno, e anche sugli inferni paralleli di Auschwitz e dei campi
"di lavoro" russi). Sui suoi personaggi gli intellettuali e i lettori
comuni di tanta parte del mondo leggono i nuovi personaggi: Napoleone e Hitler,
Kutuzov e i marescialli di Stalin, il soldato contadino Platon Karatajev e le
donne e gli uomini difensori del Volga. (Anche il recente
"Stalingrado" dello storico militare Antony Beevor, Rizzoli, viene
pubblicizzato col richiamo a Guerra e Pace). Primo Levi, cui non sfuggiva la
"vergogna del Gulag", vive e racconta la propria storia attraverso
quel filtro. "... i buoni soldati dell'Armata Rossa, gli uomini valenti
della Russia vecchia e nuova, miti in pace e atroci in guerra...". E
l'incontro con il maresciallo Timosenko: "Semjon Konstantinovic Timosenko,
l'eroe della rivoluzione bolscevica, della Carelia e di Stalingrado... Si
intrattenne alla buona con noi italiani, simile al rozzo Kutuzov di Guerra e
pace, sul prato, in mezzo alle pentole col pesce in cottura e alla biancheria
stesa..." (È "La tregua"). Su questa idea non posso fermarmi
qui: se non per concludere provvisoriamente che vi si trova un'altra spiegazione
dell'ostinato e dannato attaccamento di tanti a Stalin stesso, e comunque
all'Urss - alla Russia - e alla resistenza invincibile del suo popolo contro
l'invasore. Non era stato Tolstoj, del resto, a "rendere poetica l'idea
della guerra del popolo" (Grossman)? Nella Seconda Guerra, al tempo delle
incursioni angloamericane (la Raf tenne allora il primo posto) sulle città
tedesche, la propaganda nazista non aveva tardato a sfruttare l'argomento. (Che
ora Bossi è andato a ripetere a memoria ad Aviano). Nel 1943 Goebbels aveva
parlato del "terrorismo aereo... prodotto dalle menti malate dei
plutocratici distruttori del mondo". Gli americani furono a lungo
riluttanti. Il primo gennaio 1945 il generale Eaker disse: "Non dobbiamo
permettere che la storia ci accusi di aver gettato il bombardiere strategico
contro l' uomo della strada". Più tardi, quell'anno, un deputato laburista
inglese osservò polemicamente che i russi facevano bombardamenti
"tattici" e non a "tappeto", e che ciò li avrebbe
autorizzati un giorno ad accusare l'Occidente capitalistico di macchiarsi di
quella viltà. Dal '45 in poi, questo stereotipo (che è tale nonostante sia
parzialmente fondato) si è confermato, sul versante americano: sprofondato com'è
il versante opposto. Gli americani hanno combattuto altre guerre lontane: per
tenere i confini dell'impero, o per difendere una fede civile. La stessa
distanza - malvista dagli altri come il privilegio di chi non subisce la guerra
a casa propria, o ammirata come una generosità che li porta a morire lontano da
casa - appare come una conferma della loro prepotenza: americani, quasi
marziani. Arrivano dall'alto, bombardano: come in Corea (benché ne siano morti
35.000), come in Vietnam (58.000), come, teatralmente, in Iraq, come,
provvidenzialmente, in Bosnia. In Vietnam, erano i B52 del napalm e le falcidie
degli elicotteri. (Un giorno il generale Westmoreland, informato della presenza
di Giap in una località nordvietnamita, le aveva fatto sganciare sopra mille
tonnellate di bombe. Per un uomo piccolo come Giap... Non è un caso che in
questi giorni i vietnamiti abbiamo mandato ai serbi messaggi e auguri in cui si
identificano con loro. Su questa immagine - la bomba in alto, il piccolo
combattente in basso - si modellò il terzomondismo). L'evoluzione della
tecnologia (gli aerei "invisibili", culmine di questa simbolica
sottrazione possente e codarda al corpo a corpo) e dello spirito pubblico, non
ha fatto che accentuare la distanza dal campo di battaglia. In Iraq la
sproporzione è stata madornale: però, dove doveva valere a proteggere le vite
stesse del nemico, approdò a una carneficina, benché a cifre differite. Ma le
stesse ragioni che spingono in questo senso - il progresso scientifico, il
valore assegnato alla vita dei singoli "nostri" - esigono anche di
radicalizzare la differenza fra una guerra che si vuole "giusta", o
piuttosto inevitabile, e una ingiusta. Differenza che non può esaurirsi nel
movente, né nel fine: ma sta altrettanto nel modo in cui viene condotta. Se no,
la generazione "del Vietnam" nei governi rischia di ridursi alla novità
di una sinistra che firma ora lei le cose di destra. Ogni scelta militare è
contemporaneamente una comunicazione rivolta a chi la sostiene, e a maggior
ragione a chi la subisce, cui dichiara per quale idea, per quale convivenza si
sta combattendo. Non sono capace di valutare i termini militari di un problema.
Al tempo stesso sento che non posso eluderlo: non si può restare alla
convenzione per cui, una volta accettata la necessità della guerra, tutto passa
nelle mani dei militari. Con tutta la timidezza, i termini militari della
"guerra" iniziata il 24 marzo, sembrano anche a me, convinto della
necessità dell'impiego della forza per il Kosovo, amaramente insoddisfacenti.
La guerra, una volta intrapresa, esige il prossimo passo con la ineluttabilità
del fatto compiuto. Contati i morti e la devastazione nel campo
"nostro" e "nemico", e tanto più il disastro vergognoso dei
deportati e fuggiaschi: chi di noi, il primo giorno, vi avrebbe acconsentito?
Non io: neanche, credo, il generale Clark. Ora il punto è questo, e duro, perché
non si tratta di non perdere la faccia - fra i privilegi invidiabili della
libertà e della democrazia c'è la disponibilità a perdere la faccia, persino
volentieri - ma di ratificare il deserto del Kosovo, le vittime di cui è
seminato, i cacciati, e l'impunità della gang di Belgrado. In termini
nient'affatto militari, io penso che né gli americani, né noi, possiamo
sottovalutare il costo dello stereotipo della guerra asettica (per chi la
conduce), dei raid e dei bombardamenti aerei, senza faccia e senza nome, salvo
qualche incidente sacrilego, come l'abbattimento dello Stealth, e la danza
tribale sulla sua carcassa della razza di chi rimane a terra. C'è un solo punto
in cui le due promesse ("mai più guerra", e "mai più
Auschwitz") possono ricongiungersi: e sta nel modo in cui il mondo del
"nuovo diritto" sceglie di battersi. Il mondo libero non seppe e non
volle bombardare Oswiecim, e non potrà esserne perdonato. Quanto alla
legittimità, "quando la casa brucia, non è il caso di chiedere la
legittimità dei pompieri" (Günther Anders). Ma non è detto che debba ora
ridursi all'intransigenza del bombardamento celeste. Ha scritto, ferocemente,
Pierre Vidal Naquet: "Fare la guerra senza prendersi i propri rischi, vuol
dire aggravare il fossato fra il mondo dei ricchi e quello dei poveri; non è
combattere, è praticare una specie di tortura aerea: parla, o ti
colpisco...". Joschka Fischer, sul quale pesa la prova più delicata della
nuova classe dirigente europea, ha detto: "Noi siamo la generazione che si
è promessa "Mai più guerra" e "Mai più Auschwitz"".
Così dovrebbe essere, ma è un po' più complicato. Nelle mani dei pacifisti,
sinceri o abusivi, rischia di restare solo il filo del NO alla guerra, a costo
dell'omissione di soccorso. Nelle nostre mani, l'urgenza del soccorso rischia di
delegare per intero il problema ai pompieri, che a volte, per deformazione
professionale, sono incendiari.
Da la Repubblica, 26 aprile 1999, per gentile concessione