La Domenica di Repubblica

 

La mia Norimberga

Sessant’anni dopo, il pubblico ministero del “più grande processo per omicidio di tutti tempi” racconta

Norimberga 1946, il nazismo alla sbarra

 

Il primo ottobre di sessant’anni fa, nel Palazzo di giustizia rimasto miracolosamente in piedi in una città ridotta in macerie, si concludeva con dodici condanne all’impiccagione il processo più celebre del Novecento - Siamo tornati in quell’aula con due testimoni ancora in vita, uno dei pubblici ministeri americani e un giovane inviato molto speciale di Radio Berlino

Arturo Zampaglione

 

New Rochelle (New York)  Per sessanta anni Benjamin Ferencz ha vissuto con i fantasmi di Norimberga. Il sorriso beffardo di Hermann Göring, maresciallo del Reich e comandante della Luftwaffe, suicidatosi con il cianuro alla vigilia dell’esecuzione, lo perseguita di giorno e soprattutto di notte. Le immagini dei gerarchi nazisti alla sbarra si sovrappongono e si confondono, nella sua mente, con quelle dei campi di concentramento di Buchenwald e Dachau, dove vide pile di cadaveri di fronte ai forni crematori e gli occhi della morte sul viso dei bambini. E ancora gli rimbombano nelle orecchie le parole minacciose del generale delle SS Otto Ohlendorf, che visitò in cella subito dopo la condanna all’impiccagione: «La pagherete cara, voi ebrei americani…». «Avevo 27 anni e mi ero appena laureato in legge ad Harvard quando mi fu affidato il più grande processo per omicidio di tutti i tempi», ci dice Ferencz nel suo villino di New Rochelle, vicino a New York, dove abita assieme alla moglie Gertrude e ai suoi ricordi. Come pubblico ministero del processo contro gli Einsatzgruppen, cioè le squadre paramilitari delle SS che annientarono un milione di ebrei, zingari e comunisti, Ben — come si fa chiamare dagli amici — riuscì a far condannare a morte tredici imputati, tra cui il generale Ohlendorf. «Feci il mio dovere, ma quella esperienza lasciò un marchio indelebile», confessa Ferencz, che ormai, alla soglia dei 90 anni, è uno dei pochi protagonisti di Norimberga ancora in vita. Nell’ottobre del 1946 si concluse il primo e il più celebre dei processi di Norimberga per i crimini di guerra. Composto da giudici americani, sovietici, britannici e francesi, cioè dei paesi vincitori della guerra, il tribunale militare internazionale condannò a morte Göring, il ministro degli Esteri von Ribbentrop, l’ideologo della razza ariana Rosenberg, il ministro degli Interni Frick e altri stretti collaboratori di Hitler. Quel processo, assieme agli altri dodici che si svolsero nel Palazzo di giustizia di Norimberga sotto la giurisdizione americana, segnò una svolta nel diritto penale internazionale.

Ben Ferencz, a sessanta anni esatti di distanza c’è ancora qualcosa che la turba di quei giorni di Norimberga?

«Sì, a dispetto del tempo trascorso e della mia età, non riesco ancora ad accettare che i criminali nazisti non avessero rimorsi. Sostennero che le loro azioni erano giustificate, parlavano di legittima difesa, facevano finta di ignorare lo sterminio di milioni di ebrei. Lo sa che cosa mi disse Ohlendorf, che, come comandante delle squadre speciali dello Einsatzgruppe D, fu responsabile della morte, per sua stessa ammissione, di 90 mila persone?»

Che si era limitato a obbedire a ordini superiori?

«No, quella era la linea difensiva degli ufficiali di grado più basso. Il generale sostenne che il Reich aveva bisogno di annientare gli ebrei perché appoggiavano i bolscevichi e si opponevano al nazismo. Ma perché — gli chiesi — avete ucciso anche i bambini? E lui, con tono gelido e distaccato: perché da grandi sarebbe diventati nemici della Germania».

Come si arrivò a Norimberga?

«Già nel 1943 Roosevelt, Churchill e Stalin avevano messo in guardia i nazisti con una dichiarazione solenne: i responsabili delle atrocità verranno processati e puniti. Il Cremlino avrebbe preferito una soluzione più sbrigativa: Stalin ipotizzò l’esecuzione di 50-100 mila tedeschi, ma gli inglesi si opposero. E nell’agosto del 1945 le quattro potenze vincitrici crearono, in una riunione a Londra, un tribunale militare internazionale per processare i gerarchi per tre tipi di crimini: di guerra, cioè per la violazione delle leggi sulla guerra; contro la pace, cioè per l’aggressione bellica; e contro l’umanità, cioè per genocidio. A ispirare lo statuto e la filosofia del tribunale fu soprattutto Robert Jackson, un giudice della Corte suprema americana che si mise in aspettativa per ricoprire il ruolo di pubblico ministero nel primo processo, che si aprì nel novembre 1945».

Perché fu scelta la città di Norimberga?

«I russi premevano perché i processi si svolgessero a Berlino, ma poi prevalse l’ipotesi di Norimberga. Le ragioni? Il Palazzo di giustizia era spazioso, dotato di una prigione nei sotterranei e soprattutto era uno dei pochi ancora in piedi nella Germania devastata dai bombardamenti alleati. La scelta aveva poi un aspetto simbolico: proprio a Norimberga si erano tenute le adunate oceaniche del partito nazista ed erano state firmate le leggi anti-semite».

Qual era l’atmosfera nel Palazzo di giustizia durante i processi?

«Vivevamo in modo spartano e caotico. Ad eccezione degli avvocati difensori, quasi tutti ex-nazisti, che ricevevano dalle autorità militari non solo uno stipendio, ma tre pasti al giorno, caffé americano e una stecca di sigarette alla settimana, tutti gli altri dovevano stringere la cinghia. Nell’edificio c’era un via vai di ufficiali, giornalisti, avvocati, stenografi, interpreti e curiosi. Gli imputati avevano un atteggiamento sfacciato e si trastullavano con le cuffie della traduzione simultanea. Göring rideva e voltava le spalle ai giudici. Io comunque arrivai a Norimberga quando il primo processo era stato già avviato e imposi a me stesso di non avere contatti diretti con gli imputati. Non volevo essere influenzato da considerazioni personali: l’unico che conobbi da vicino fu Ohlendorf, ma solo dopo la condanna».

Dove era stato negli anni della guerra?

«Dopo la laurea nel 1943 fui mandato sul fronte europeo. Partecipai alla battaglia delle Ardenne e fui poi assegnato a un nuovo reparto per i crimini di guerra nel quartier generale del generale Patton. Cominciai a girare con una jeep per le città tedesche appena liberate per scovare chi aveva trucidato i nostri avieri lanciatisi con il paracadute. Andai nei campi di concentramento per mettere le mani sui registri con i nomi dei carnefici e delle vittime».

Fu dunque tra i primi americani a entrare nell’inferno di Buchenwald, Dachau e degli altri campi?

«Sì. Lì vidi corpi affastellati come legna da bruciare e donne scheletriche che non pesavano più di 30 chili. In una lettera a mia moglie, ora conservata nel museo dell’Olocausto di Washington, raccontai della disperazione di una bambina ebrea che aveva perso tutto ed era in fin di vita. Quella immagine è ancora inchiodata nella memoria ed è la ragione del mio impegno contro la guerra e a favore del Tribunale penale internazionale, le cui promesse sono ora ostacolate dagli Stati Uniti. Proprio a Dachau cominciammo a processare i primi nazisti. Io tornai negli Stati Uniti alla fine del 1945...».

… E fu subito reclutato per i processi di Norimberga.

«Sì, e rispedito in Germania. Telford Taylor, un laureato di Harvard che era diventato generale, e con cui feci amicizia dopo che ci lanciammo entrambi con il paracadute da un aereo in fiamme, mi chiese di raccogliere prove contro i nazisti. Andai a Berlino alla testa di un team di 50 americani. Avevo poco tempo e pochi mezzi. Cercai testimoni. Frugai negli archivi alla ricerca dei nomi dei medici che avevano usato cavie umane, dei giudici venduti al nazismo, degli industriali collaborazionisti, dei dirigenti del partito. E poi, quasi per caso, scoprii una copia dei rapporti segreti degli Einsatzgruppen».

Esistono foto terribili di quelle squadre speciali. Seguivano l’avanzata della Wehrmacht nell’Europa dell’Est e avevano il compito di far fuori ebrei e oppositori del nazismo. Scavavano una fossa, adunavano le vittime e le uccidevano con un colpo alla nuca.

«Nei tabulati trovati a Berlino c’erano le statistiche dello sterminio redatte con pignoleria tedesca. In un paio d’anni avevano macellato un milioni di uomini, donne e bambini. Tornai a Norimberga per consegnare il materiale a Taylor, che decise di avviare un processo ad hoc contro i responsabili degli Einsatzgruppen e mi affidò il ruolo dell’accusa. Per me, che ero nato in un villaggio della Transilvania nel 1920, emigrato da bambino a New York e fresco di laurea, era un onore e una sfida. Mi chiamavano “il procuratore con l’accetta”. Purtroppo in aula c’era posto solo per 22 imputati e dovetti scegliere i più rappresentativi, a cominciare da sei generali delle SS. Furono tutti condannati, tredici di loro alla pena capitale».

Era stato lei a chiedere l’impiccagione?

«Non ne avevo fatto cenno, ero convinto che nessuna punizione fosse sufficiente di fronte alla strage di un milione di vittime innocenti. L’importante per me era riaffermare, in quell’aula di Norimberga, i principi del diritto internazionale in modo che non si ripetessero crimini contro l’umanità. Nelle requisitoria ricordai che per gli imputati “la morte era stato uno strumento e la vita un giocattolo”. E sono stato felice quando, mezzo secolo dopo, Antonio Cassese ha citato quelle mie parole nel rapporto all’Onu sul Tribunale internazionale per l’ex-Jugoslavia».


In undici sul patibolo così sfila l’orrore

Franco Cordero

 

Aveva poche chances la congiura e svaniscono nella conferenza meridiana, anticipata perché alle 14.30 arriva Mussolini in visita spettrale. La bomba sotto il tavolo scoppia lasciando illeso il destinatario, 20 luglio 1944; ha dalla sua l’Onnipotente e il popolo; vivo lui, Valchiria nasce morta. In tarda sera parla alla radio, ritto nel lume d’una lampada sul tavolino. Il turbante bianco nella prima fila sono le bende d’Alfred Jodl, lievemente ferito: con quanto orgoglio lo porta; è l’astuto cervello del quartier generale, bavarese, cinquantaquattro anni, viso da faina. Undici anni fa era ancora primo tenente: con l’avvento d’Hitler vola, inseparabile dal burocrate Wilhelm Keitel, alias Lakeitel ossia lacchè, la cui stupida fedeltà canina frutta un bastone da feldmaresciallo; lui diventa Generaloberst (cinque stelle). Due odiati cortigiani. S’era permesso d’obiettare una singola volta, settembre 1942, attirandosi l’ira del padrone i cui favori ha lentamente riacquisito. La sua dottrina discende dall’assioma che Adolf Hitler, genio militare senza eguali, sia infallibile anche quando perde un’armata sul Volga o quattro nella Russia Bianca, giugno 1944. Il servizio include i tè notturni e l’ascolto d’asfissianti monologhi fino alle ore in cui i mattinieri s’alzano. Miracoloso 20 luglio, santifica i due chierici. L’indomani Jodl rinnega esprit de corps nonché confrères consigliando d’abolire lo Stato maggiore, infestato dai traditori. Ai collaboratori spiega che fortuna sia l’«inconditional surrender» preteso dagli Alleati: non esistono vie d’uscita politiche; tutti col Führer, sorti inscindibili; e avendo testa fine, sa benissimo dove stiano andando. Spigolo le notizie da Walter Warlimont, suo sostituto, un cui memorandum, autunno 1941, illumina lo spirito dell’Operazione Barbarossa: come liquidare milioni d’abitanti appena Leningrado cada; muoiano d’inedia nella metropoli ermeticamente chiusa con reticolati, corrente elettrica, fuoco d’artiglieria contro i tentativi d’evasione; e i conti morali tornano, perché sarebbe in ogni caso distrutta dai bolscevichi, senza contare il pericolo d’epidemie, argomento igienico ricorrente nel lessico dei massacri; sta bene, conclude Jodl. Ovvio che narrando gl’interni dell’Hauptquartier (Frankfurt am Main, 1962), l’autore dimentichi l’aneddoto. Glielo rammenta Alan Clark. Sul complotto indaga Ernst Kaltenbrunner, temutissimo capo delle polizie, un ancora giovane austriaco alto due metri, mento quadro, viso lungo le cui cicatrici attestano duelli studenteschi, sorriso mite. Hitler esige vendetta esemplare e ha l’uomo adatto, Roland Freisler: prigioniero in Russia nella Prima guerra mondiale, commissario bolscevico, indi nazista (percorso allora frequente), campione d’un nuovo diritto penale, sottosegretario alla Giustizia, infine presidente del Volksgerichthof (Tribunale del popolo), dove recita laide pantomime: Otto Thierack, Justizminister dai gusti nient’affatto delicati, lo ritiene malato mentale; i gesti confermano la diagnosi. Lunedì 7 agosto, in toga amaranto, inaugura i dibattimenti contro otto imputati: «lurido vecchietto», urla al farfugliante feldmaresciallo Erwin von Witzleben che presentandosi aveva tentato un saluto nazista, «perché tieni i pantaloni con le mani?» (i metteurs en scène gli avevano tolto bretelle e dentiera); la farsa séguita l’indomani. Difensori d’ufficio tirano in ballo Iddio: salvando l’augusta persona, ha giudicato i rei; al capestro, ma non è la solita impiccagione banale. Anima d’artista, Kniébolo (così Ernst Jünger chiama Hitler, dimenticando d’avere contribuito all’epifania diabolica, come l’amico Carl Schmitt) escogita varianti: appesi al gancio, nudi, strangolati da corde sottili; e nessun cappellano tra i piedi. Sarà fatto. Macchine da presa colgono ogni particolare. La sera stessa il film arriva in volo alla Tana del Lupo: spettacolo edificante; Speer diserta adducendo la scusa del lavoro urgente. Sei mesi dopo, Freisler rende l’anima sul palco: gli americani bombardano Berlino; cade una trave nell’aula e resta secco; incolumi i presenti. In dodici mesi aveva emesso 2097 condanne capitali. Fino all’ultimo Keitel e Jodl elaborano, formulano, trasmettono ordini folli o criminali quali i Vernichtungsbefehle intesi alla terra desolata: Kniébolo vuol sradicare i fondamenti d’ogni futuro nella Germania sconfitta; il popolo tedesco «non mi merita». Lunedì 23 aprile portano a nord lo scheletro d’un quartier generale, mentre lui resta nel bunker: sette giorni dopo, come Dio finalmente comanda, apre la catena dei suicidi designando erede l’ammiraglio Dönitz. Mercoledì capitola Berlino: lunedì 7 Jodl firma la resa agli Alleati; l’indomani Keitel ripete l’atto con i russi, così bestione da non capire quanto poco decoroso sia bere champagne al loro tavolo; tornano da Reims e Berlino tranquilli come chi abbia chiuso una partita tra gentiluomini. Mercoledì 23 maggio, ore 9.45, Lowell Rooks, capo della Commissione alleata, scioglie governo d’affari e Oberkommando. Un corrispondente americano studia i pazienti: Jodl siede a schiena diritta; gli affiorano macchie rosse sul viso. Ormai è detenuto, idem Dönitz, Keitel, Speer. A Mondorf, dove tiene corte Göring, nascono dissensi sul rispettivo rango e precedenze. Seguiamo le memorie d’Albert Speer, attore dal passato singolare: giovane architetto, scenografo delle adunate che la regista Leni Riefenstahl tramanda nei famosi documentari, enfantgâté d’Hitler, edifica la Nuova Cancelleria; l’urbanistica che progetta, ispirato dal cliente, è un incubo ciclopico-faraonico; poi manager dell’industria bellica, avendo addosso gl’invidiosi Göring, Himmler, Bormann, opera meraviglie senza le quali la guerra finirebbe almeno un anno prima. A Norimberga allestiva i congressi: il tribunale appare intatto tra le rovine; aspettava i rei; quante volte era passato lì a fianco del monarca, senza presentimenti. Graduati secondo l’età, i test d’intelligenza incoronano Hjalmahr Schacht, vecchio mago finanziere, molto teutonico. L’attuale primo è Arthur Seyss-Inquart, Reichskommissar d’Olanda. Eccelle anche Göring, già crapulone morfinomane, ora sano. Chiusa la fase istruttoria, ognuno riceve l’accusa: è uno scherzo, esclama l’ammiraglio, testa minuscola; Rudolf Hess s’arrocca nell’amnesia; non sono colpe sue, sostiene l’insopportabile Joachim von Ribbentrop, che agli Esteri suonava tamburo, tromba, flauto hitleriani (parole d’un cospiratore, Carl Heinrich von Stülpnagel, Generaloberstimpiccato nello stile che sappiamo, cieco a causa dell’imperfetta pallottola suicida); piagnucola Hans Frank, protogiurista del Reich, poi governatore in Polonia, dove vantava tali stermini che alla carta dei manifesti obituari non sarebbero bastate le foreste locali, frase sua; pari innocenza professa Keitel, soldato esecutore d’ordini. Il dibattimento è rito anglosassone, molto diverso dagli spettacoli nel Volksgerichtshof, ivi rivisto in film. Bene difesi, dispongono del più largo contraddittorio: Göring giostra con l’aggressiva lucidità gangsteristica dei bei tempi; Speer guasta il coro dichiarandosi ex ministro, quindi corresponsabile dell’intero accaduto. Otto mesi, sfilano testimoni, s’accumulano documenti. Kaltenbrunner séguita a chiamarsi fuori: gli esibiscono ordini autografi; non è la sua firma, risponde sorridendo. Frank, psiche volatile, scopre la religione cattolica: sentiva le risate del Signore in collera, confida allo psicologo; non bastano mille anni a dissipare la colpa tedesca, declama uno dei suoi labili Io (li disegna Joachim Fest). Le dichiarazioni finali suonano contrite e deploranti, senza ammissioni. Voce anomala anche stavolta, Speer segnala i pericoli dello Stato industriale autoritario le cui tecnologie moralmente amorfe diluiscono l’apporto individuale. Nell’attesa gli tiene compagnia Dickens. L’ultima udienza, lunedì 30 settembre, porta lunghe letture. Sono i motivi della decisione, omesso il dispositivo; ogni imputato l’ascolta da solo l’indomani, primo Göring: undici capestri, sette pene detentive, tre assolti. Jodl rimane senza fiato (testimone lo psicologo Gustav Gilbert) e forse gli ripassa in mente l’orrendo film visto nella Tana del Lupo. Restano due settimane: Frank, i cui diari riempiono trentotto volumi, le spende scrivendo In vista del patibolo con un asciugamano bagnato intorno alla testa. Fritz Sauckel, fornitore degli schiavi, non capisce perché lui vada sulla forca mentre Speer, che li adoperava, incassa solo vent’anni. Vero, erano complementari, ma nella Götterdämmerung del tredicesimo anno (dal 30 gennaio 1933) l’architetto rischia molto sabotando ordini infernali: era anche più presentabile; infine s’è difeso meglio; qualcosa contano sentimento morale e intelligenza. Esegue le impiccagioni, a presumibile regola d’arte, un sergente texano dal viso serio, John C. Woods, nella notte 15-16 ottobre: Göring possedeva del cianuro ed elude “la vedova”; in ossequio alla privacy i dieci correi vanno sulla botola uno a uno, finendo allineati nella palestra. Apre la sequela Ribbentrop, ore 1.14. L’ultimo è Seyss-Inquart, ore 2.45.


“Visti da vicino erano uomini miserabili”

I ricordi di Misha Wolf che seguì le udienze come cronista e poi divenne capo delle spie della Germania Est

Vanna Vannuccini

 

«Nel novembre del ‘45 arrivai a Norimberga munito di una lettera di accredito del direttore di Radio Berlino e di una del vicecomandante russo Sokolowski. Avevo 22 anni, ero appena tornato in Germania da Mosca, dove la mia famiglia era emigrata durante il nazismo, e avevo cominciato da poco a lavorare per quella radio, che era una delle principali emittenti tedesche». Markus Wolf detto Misha, ex generale di corpo d’armata e capo dei servizi di spionaggio della Germania Est, che per l’Occidente era stato “l’uomo senza volto” fino al 1978 (non rinunciò quel giorno a una passeggiata con un’amica in una strada alla moda di Stoccolma e fu fotografato) seguì il processo di Norimberga come giornalista. Esattamente come una delle sue vittime più illustri, il cancelliere della Germania Ovest Willy Brandt (che dovette dimettersi nel 1974 quando il suo più vicino collaboratore, Günter Guillaume, fu smascherato come spia al servizio di Misha Wolf). «Non sono sicuro, forse Willy Brandt lo incrociai, lui era lì in effetti e gli inviati facevano vita collegiale, si mangiava alla mensa, vivevamo tutti insieme nel castello dei Faber-Castell, quelli delle matite, un po’ fuori città. Norimberga era un cumulo di rovine, era difficile trovare da mangiare, da dormire. Io avevo ancora un passaporto russo e così ebbi l’ambitissimo accredito col bollino blu, invece che rosso come quello dei giornalisti tedeschi, che dovevano arrangiarsi».

Che effetto le fecero gli imputati?

“All’inizio Göring aveva assunto qualche posa, come per far vedere che anche a Norimberga era lui il numero uno. Ma l’impressione più forte che avemmo tutti con l’andare dei mesi è che questi uomini, che avevano avuto un grande ruolo nel grande Reich, non fossero in realtà che figure piccole, miserabili, vigliacche. Non uno, nemmeno Göring, che abbia cercato di difendere l’idea del nazionalsocialismo, tutti cercarono solo di salvare se stessi. Il processo si svolse secondo me in modo giuridicamente molto corretto. Furono mostrati i filmati dei Lager. Le luci nell’aula venivano spente e restavano accese solo quelle sul banco degli imputati. Che tutti distoglievano lo sguardo dallo schermo».

Come tedesco, ancorché antifascista, avrebbe preferito che a giudicare i gerarchi nazisti fossero i tedeschi invece di avere un tribunale dei vincitori?

«Consideravo il processo assolutamente giusto e necessario. Anche data la mia biografia — i miei genitori lasciarono la Germania nel ‘33, erano sulla lista nera della Gestapo — volevo che i capi nazisti fossero chiamati a rendere conto».

Anche i tedeschi in generale considerarono legittimo il processo?

«I tedeschi allora non volevano sapere né di colpe né di crimini. Per me il processo non solo fu legittimo ma anche dimostrò in modo molto convincente la colpevolezza degli imputati. La pubblica accusa americana era eccellente. Furono portati al processo migliaia di documenti, almeno cinquecento testimoni. Io non fui però d’accordo che alcuni, come Schacht, fossero mandati assolti».

Un’opinione come questa poteva dirla alla radio o c’era la censura?

«Il 30 settembre e il 1° ottobre per ordine del comando alleato le sentenze di Norimberga furono trasmesse da tutte le radio tedesche. Mi alternai con gli altri inviati tedeschi dalle zone francese, britannica e americana, a leggere la sentenza; dopodichè ognuno di noi poteva fare un breve commento. Io mi espressi contro l’assoluzione di Schacht».


Le date

La sconfitta – Il 20 aprile del 1945 l’Armata Rossa entra a Berlino, il 30 Hitler si suicida. Il 2 maggio la città è degli Alleati. Altri sei e arriva la resa incondizionata del Terzo Reich.

Il dibattimento – Si apre il 18 novembre del 1945 e termina il primo ottobre del 1946. A giudizio, 24 capi nazisti (catturati o contumaci), imputati di crimini di guerra e contro l’umanità

La sentenza – Dodici le condanne alla pena capitale, quattro gli ergastoli, due le condanne a 20 anni e una a dieci, quattro gli assolti. Un imputato, suicida, non viene giudicato

 

la Repubblica, 24 settembre 2006

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