la Repubblica

La morte dello storico tedesco Joachim Fest

Le battaglie liberal di un conservatore

È stato l’autore di una delle più autorevoli e informate biografie di Hitler – Nelle ultime settimane ebbe una polemica aspra con Grass che riteneva un arrogante – Si era battuto per pubblicare i testi di Nolte di cui non condivideva le tesi sul nazismo

Andrea Tarquini

 

Joachim Fest, il grande biografo di Hitler, massimo intellettuale conservatore tedesco, collaboratore di Repubblica da anni, è morto stroncato da una lunga malattia. Con lui la Germania perde una delle voci più autorevoli, uno degli ultimi padri fondatori del dopoguerra democratico. Quello che Günter Grass ha voluto essere per la sinistra, Fest ha saputo restare fino all'ultimo per il centro destra liberal: la grande voce critica della Memoria. Fest avrebbe compiuto ottant'anni nel dicembre prossimo.  «La morale, la fedeltà all'etica, dovrebbero essere un ovvio automatismo nella cultura borghese. lo ebbi la fortuna di impararlo da mio padre, dalla sua integrità, da come egli soffrì dall'inizio sotto il nazismo. Ma proprio mentre io crescevo, la borghesia voltò le spalle ai suoi valori», ci disse in uno degli ultimi colloqui. La Memoria della grande tragedia tedesca fu l'emozione costitutiva della sua vita, da quando egli nacque a Berlino, l'8 dicembre 1926. Proprio negli anni d'infanzia e giovanili, tra l'autunno della Repubblica di Weimar, l'avvento di Hitler, l'Olocausto e la guerra, si svolge il racconto del suo ultimo libro, Ich nicht, io no. Dedicato al gran rifiuto del padre Johannes, che non volle iscriversi al partito nazista e pagò con repressione e miseria: da stimato preside di ginnasio a disoccupato sorvegliato dalla Gestapo. Quel ricordo lo ha spinto nelle ultime settimane a una durissima polemica contro Grass. Non tanto la tardiva confessione del Nobel di aver servito nelle Ss, ma la sua scelta di aver dato del "nazista" a ogni avversario di polemiche politiche e letterarie nei decenni del silenzio su se stesso, era apparsa a Fest un'espressione moralmente inaccettabile di arroganza da veterosinistra. Affrontare l'umiliazione del degrado, da borghese benestante finito ad essere un ragazzo povero vestito male. Poi l'espulsione dal liceo, le minacce della Hitlerjugend, alla cui iscrizione forzata il padre era riuscito a sottrarlo. Le esperienze d'adolescenza formarono il giovane Joachim presto, spietate. Come il Faust di Goethe si era venduto a Mefistofele, così la borghesia, patria nell'animo dei Fest, aveva tradito se stessa, si era gettata in braccio a Hitler. Amici di vecchia data non li salutavano più. «E poi c'erano gli amici ebrei, che all'improvviso sparivano all'alba nel nulla». Il fratello maggiore, l'adorato Wolfgang, morì sul fronte russo, rimandato in prima linea nonostante la polmonite da un comandante fanatico nazista. Joachim con quasi tutta la sua classe delle superiori, fu volontario nell'esercito. «Lo feci solo per evitare l'arruolamento coatto nelle Ss, ma mio padre andò su tutte le furie. Guai a chi accetta il minimo compromesso con la guerra criminale del tiranno, mi disse». I ricordi di quegli anni tremendi, il dolore degli affetti perduti - da Wolfgang all'amico di famiglia ebreo Herr Meyer, portato via per sempre un mattino dagli uomini con l'impermeabile nero - seguirono lo Joachim adulto nel dopoguerra. Prima una breve stagione d'impegno politico, nella Cdu, poi radio e tv, da storico giovane e brillante. Nel 1973, il grande balzo del successo. Fu chiamato alla direzione della Frankfurter Allgemeine Zeitung. E pubblicò Hitler, forse la migliore biografia del tiranno, il libro che gli dette fama mondiale (e che Repubblica ha di recente riproposto ai lettori). Il grande dramma lo tormentava e lo spingeva al rigore della ricerca storica, spiegò anni dopo uno dei suoi discepoli, Frank Schirrmacher, oggi direttore della Frankfurter. Il dramma di quando la borghesia perde autocoscienza e cultura, cede alle utopie, diventa sedotta e complice dei criminali. «Certo», disse, «ci furono l'umiliazione della sconfitta del ‘18, le pesantissime condizioni imposte dalla Francia per la pace, la miopia colpevole con cui Parigi mise in ginocchio lo sconfitto spingendolo a sentimenti di rivalsa. Eppure, lascia atterriti il fatto che un paese di tanta civiltà, nel cuore dell'Europa, abbia dato al mondo quel personaggio. Un mostro di genialità demagogica e criminale al cui confronto " anche il vostro Mussolini era un signore». Fest fu il Borghese scettico, la coscienza critica della Germania conservatrice, il j'accuse permanente in un paese preso, nei decenni del dopoguerra, dalla voglia smaniosa di voltare pagina, di ricominciare e dimenticare. Una voce scomoda, tanto più che non era una voce di sinistra. Verso gli intellettuali progressisti tedeschi, a cominciare da Grass, nutrì sempre un Muro di diffidenza. Decenni prima delle polemiche degli ultimi giorni, li vedeva vulnerabili ad altre seduzioni totalitarie, dall'Urss al Sessantotto, da Mao al Vietnam e a Cuba. E tra i primi parlò di pericolo di latente antisemitismo di sinistra, in un'Europa in cui l'antisemitismo ai suoi occhi non era mai morto. «Una volta un diplomatico italiano», confessò, «portandomi a passeggio per Roma m'indicò un negozio ebraico protetto dai vostri agenti antiterrorismo. E mi disse: "Vede, gli ebrei riescono sempre nell'intento di farsi notare"». La sua coerenza di conservatore illuminato non piacque sempre allo spirito del tempo, negli anni tra le università di Berkeley, Parigi e Berlino Ovest in rivolta e i Panzer nordviet che espugnavano Saigon. A sinistra molti - da Goetz Aly a Wolfgang Benz solo in Germania - lo accusarono di aver ridotto il nazismo a storia del successo personale di Hitler. O di aver mitizzato Albert Speer, l'architetto del tiranno, cui pure dedicò una biografia. Fest reagiva con indifferenza da grande borghese. Oppure provocando. Come quando nel 1986 decise di far pubblicare dalla Frankfurter il celebre articolo dello storico revisionista Ernst Nolte, che scatenò la Historikerstreit, la grande disputa sul nazismo. Tornavano i conti eterni col passato. «Nolte sosteneva che il nazismo fu una reazione al bolscevismo», spiegò. «Io ritenevo la sua analisi del tutto errata. Ma pensavo anche che in un paese che vuol essere o diventare una normale società liberale, democratica, non si censurano le opinioni degli studiosi. A Londra avrebbero deciso così». Coerenza rigorosa e testarda, come la sua eleganza tradizionale nel vestire. Coerenza, «se necessario contro lo ZeitGeist, lo spirito del tempo», erano il suo credo. Coerenza, per aiutare i tedeschi a ricordare ma al tempo stesso a restare paese alla ricerca della normalità. Il suo incubo era che la Germania riaccolta dal mondo, e specie i suoi giovani, dimenticassero. Continuò a raccontare. In Colpo di Stato, nel 1994, narrò con stile da thrilling la storia del fallito attentato a Hitler, la congiura dei giovani ufficiali decisi al tirannicidio per negoziare la pace. Poi fu il consulente storico de La caduta, il recente film in cui uno straordinario Bruno Ganz, da lui istruito in ogni dettaglio, impersonò il Führer. «Distanza, freddezza, analisi pacata, verifica delle fonti», spiegava spesso, erano il suo credo. Per questo forse ha atteso gli ultimi mesi di vita per pubblicare memorie giovanili. Era anche un tedesco che amava l'Italia, il grande intellettuale che se n'è andato nella casa in stile toscano a un passo da Francoforte. Un viaggio giovanile in Italia fu il suo primo svago nel dopoguerra. Controluce, un libro di viaggio italiano - in cui raccontava corruzione e compromessi del nostro dopoguerra come fecero Il Mondo, L'Espresso e poi Repubblica - fu un'opera scritta con passione. Da un collega de l'Unità che gli dette la notizia abbracciandolo a Palermo, ebbe l'emozione d'apprendere che il Muro di Berlino era caduto. Per Repubblica, commentò più volte gli eventi tedeschi, ma anche i grandi temi internazionali, dal dopoguerra fredda alla sfida del terrorismo. L'era Berlusconi fu una delle sue ultime fonti di amarezza. «L'altra sera abbiamo tanto parlato dell'Italia, in salotto a casa mia», ci narrò anni addietro, mentre il governo del centrodestra cavalcava l'euroscetticismo. «lo e i miei amici, tutti buoni borghesi come me, conservatori illuminati o socialdemocratici moderati, ci confessammo stupore e delusione. Un paese europeo di cultura antica, e alla sua guida un Toelpel». Toelpel, in tedesco, è il buffone pasticcione della commedia dell'arte. Di quel periodo Fest ha visto la fine. Ma ripensando oggi a quelle sue parole, l'impressione è che egli avesse quasi rivissuto in chiave di farsa minore la vicenda di una borghesia che tradisce se stessa.


Littell, un torrente di brividi ed emozioni

Per chi è assetato di immaginazione, spirito, passioni, ecco un romanzo uscito in Francia ed ambientato durante il nazismo “Les bienvieillantes” – Dalla Berlino dell’architetto Speer si passa a Stalingrado, Parigi, Auschwitz: l’antieroe è un ufficiale delle SS fanatico e colto

Marco Fumaroli

 

lo sono di quelli, che diventano rari, che hanno letto e leggono dei romanzi ma non ne scrivono. Da quando certi romanziere e professori del romanzo si sono messi a legiferare (il loro più recente de­creto è «la scrittura»), i lettori come mesi sentono un po' a disagio! Avrei tanta voglia di fondare, come ha fatto Ralph Nader col suo partito di consumatori, il partito dei lettori, dei non romanzieri che hanno sete di romanzi, che non badano a spese per il loro piacere ma che sulla qualità e l'intensità di questo piacere, qualunque sia l' etichetta appiccicata sul prodotto, non transigono. Populismo? Dall'altra parte della barricata c'è un'avanguardia autoproclamata che pratica un elitismo sfacciato, occultato dal battage pubblicitario e dalle cifre di vendita gonfiate. I lettori che leggono per poter parlare di quello di cui parlano tutti sarebbero banditi da questo partito. Vi potrebbero entrare solo i veri lettori, quelli che, in buona fede come i veri amanti, vogliono dei lussi sinceri. E un'esigenza liberale. Nessun genere è escluso, salvo il genere noioso. La noia, soprattutto la noia profonda, non è sopportabile per chi vuole farsi riempire fino all'orlo dall'immaginazione, o dalla vista, dallo spirito o dal fascino, dall'emozione o dalle passioni, dal vigore o dall'eleganza, e se possibile da tutte queste cose insieme. Come hanno cominciato il romanziere o la romanziera? Perché scrivono? Poco ce ne cale, se se la cavano ben e sanno scrivere. La loro autobiografia, il loro diario, la loro corrispondenza, se lo meritano, ci istruiranno sui retroscena. A forza di diete dimagranti di «scrittura» alla francese, ero a un passo dall'anoressia quando è atterrato sulla mia scrivania un'enorme pentolone, Les bienveillantes, cucinate in francese da uno sconosciuto chef americano. Il menù inizialmente mi ripugna. Ma tornandomi la fame, mi ci avvento sopra. Non mi sono più mosso prima della parola «fine». Jonathan Littell non è uno che ricama le parole, al pari di Norman Mailer o di John Le Carré, ma conosce il suo mestiere di romanziere e non risparmia nulla per servire al lettore francese brividi e intui­zioni di cui Balzac e Genet l'hanno colmato, ma di cui ormai è privo. Lo scenario: nientemeno, che lo stato maggiore burocratico-militare dello Stato nazista, mobilitato alla conquista di un impero continentale, intento ad annientare freddamente sulla sua strada le razze presuntamente nocive o superflue e creando di riflesso la sua stessa apocalisse. Dalla Berlino dell'archi­tetto Speer, si passa sul fronte ucraino, caucasico, a Stalingrado, prima di visi­tare la Parigi di Abetz, di ispezionare il campo di Auschwitz e quindi di ritornare nella Berlino di Speer diventato ministro dell'Industria, annichilito sotto le bombe. L'antieroe che nelle sue memorie ci fa comprendere dall'interno la logica follia del regime e le sue colossali crudeltà? Un ufficiale delle SS fanatico ma colto e sensibile che inizialmente crediamo suscettibile di umanità, ma di cui scopriamo poco a poco che in fondo si tratta di un Oreste assassino, di un Tristano sessualmente sfasato, con la sua stella rosa nascosta sotto l'uniforme che rima con la svastica sadica dell'hitlerismo. La vista si appaga fino all'inimmaginabile nella stupidità e nell'orrore, l'immaginazione è titillata da questo autoritratto di polimorfo perverso, ma questo torrente di emozioni è punteggiato da pause opportune: Platone, Stendhal, Lermontov, conversazioni intelligenti, descrizione di radure, racconti di sogni fantastici. La Grande Ruota? Spielberg? Creative writing at its best? Niente «scrittura»? Ebbene, miei cari, mi ci sono buttato, tanto ero affamato di personaggi e di situazioni che si possano vedere, di finzioni che ti fanno toccare con mano, an­che al prezzo di qualche cliché, qualcosa della realtà.

(Traduzione di Fabio Galimberti)

la Repubblica,13 settembre 2006

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