la Repubblica

Ecco il nuovo antisemitismo

Intervista a Elie Wiesel che domani interverrà al Festivaletteratura – “Se neanche l’orrore di Auschwitz è riuscito nell’intento, che ci vorrà per debellarlo?” – “Si odiano gli ebrei prima che nascano, è qualcosa di irrazionale e contagioso”

Antonio Monda

 

New York - Elie Wiesel ha vissuto con grande angoscia l'escalation della crisi in Medio Oriente, e prima di partire per l'Italia, dove interverrà domani al Festival della Letteratura di Mantova, accetta di parlare di guerra, antisemitismo, correttezza politica, cominciando da una riflessione sulla massima di Montesquieu, citata ripetutamente in questo periodo di conflitto, secondo cui il responsabile della guerra non è chi la dichiara, ma chi la rende necessaria. Montesquieu è stato ovviamente uno dei più grandi pensatori del suo tempo - racconta nel suo ufficio dell'Upper East Side di New York -, e dobbiamo a lui l'edificazione di alcuni pilastri della società odierna. Tuttavia la sua frase, condivisibile nella sostanza, oggi appare inevitabilmente legata al periodo in cui viveva. La tragica realtà odierna ci dice che oggi le guerre non vengono dichiarate: il problema che viviamo è quello della guerra scatenata dal terrorismo, dei kamikaze, e del loro culto della morte, che rende le loro azioni simili a quelli delle piaghe che hanno afflitto l'umanità nel passato.

Non le sembra che la reazione israeliana nella recente crisi medio-orientale sia stata sproporzionata?

«Credo che non sia possibile giudicare se non si ha una esperienza intima e diretta di quella realtà: Israele è uno stato minacciato continuamente di distruzione. Cosa dovrebbe fare per contrastare chi non vuole altro che la sua distruzione, che lancia 200 katiuscia al giorno contro i civili e si nasconde dietro i bambini e le persone più indifese? Personalmente mi limito a non giudicare, e spero con tutte le mie forze che in quelle terre ci sia ancora la possibilità di una convivenza pacifica».

Qual è la sua riflessione rispetto alla massima latina: "si vis pacem para bellum"?

«So che in guerra non esiste mai vittoria. Ma ci troviamo a confrontarci con chi celebra la morte. Vogliamo tutti soluzioni politiche e non militari, e sono convinto che la questione essenziale sia nell'educazione. Tuttavia si tratta di un processo lungo, e mi chiedo: ne abbiamo il tempo? Cosa succederà, cosa dovremo patire nel frattempo? Un paio di anni fa sono stato invitato in Norvegia ad una conferenza presieduta dal primo ministro, il cui titolo era "combattere il terrorismo". Abbiamo dibattuto per giorni, ma ho avuto l'impressione che nessuno di noi sapesse in realtà quale fosse la soluzione possibile, se non quella di innestare un processo culturale lunghissimo. Personalmente ritengo che una delle prime cose da fare sia qualificare il terrorista suicida come una persona che commette un crimine contro l'umanità. Prima parlavo di una mia angoscia, che nasce da una conclusione tristissima: il terrorismo si può combattere con il controterrorismo, che è a sua volta una forma di terrorismo. È il grande dramma di questo periodo storico».

Lei si dichiara pessimista sul ruolo della politica e vive con angoscia la soluzione militare: qual è il ruolo che può svolgere la religione?

«La religione può avere un ruolo di straordinaria efficacia, persino risolutiva, ma può essere anche causa di conflitti anche più accesi: il fanatismo è un fenomeno di ogni religione».

Ritiene che ci troviamo in un periodo in cui si assiste ad un risorgere dell'antisemitismo?

«Si, purtroppo, e credo che sia evidente a chiunque. Sta crescendo in maniera inquietante e sorprendente. Ho dovuto ammettere che ero stato molto näif nel 1945, quando pensavo che le vittime dell'Olocausto lo avrebbero cancellato. Ritenevo che fosse l'unica cosa positiva nata dal conflitto mondiale. Ma oggi mi trovo a chiedere: se neanche l'orrore di Auschwitz è riuscito in questo intento, cosa ci vorrà per debellarlo?».

Ritiene che si tratti di un fenomeno eterno?

«L'antisemitismo è qualcosa di irrazionale e contagioso: si odiano gli ebrei prima ancora che nascono. È presente da mi­gliaia di anni, ma non credo che sarà eterno».

Qual è il limite che vede come scrittore tra la libertà creativa e la correttezza politica? Oggi è difficile trovare un romanzo, o un film nel quale il personaggio negativo sia un ebreo o un arabo.

«Non si può generalizzare, ed è necessario giudicare caso per caso. Se si tratta di fiction può essere innocuo come pericoloso. Per quanto mi riguarda tendo a scrivere utilizzando il punto di vista delle vittime».

Cosa pensa della definizione di "fascismo islamico" utilizzata da Bush e prima ancora da Paul Berman? ­

«Non mi convince: sono contrario alle analogie, e nonostante sia il primo a vedere i terribili pericoli del conflitto in corso, ritengo che l'Olocausto sia qualcosa di imparagonabile».

Qual è stata la sua reazione rispetto alla rivelazione di Gunther Grass?

«Sono ancora sotto shock. Me lo sarei aspettato da chiunque, ma non da lui. Voglio aspettare di leggere il libro prima di esprimere un giudizio, ma c'è qualcosa che mi turba profondamente. Grass spiega di essere stato reclutato quando aveva solo 17 anni, ma eravamo nel 1944, prima della battaglia delle Ardenne: Hitler era ancora potente, e in un periodo di guerra quella è un'età in cui non si è giovani. Inoltre stiamo parlando di una "elite" delle SS, dove si sceglieva di andare. Oggi provo solo rabbia e tristezza».

Giovanni XXIII diceva che non bisogna vedere da dove viene un uomo, ma dove va.

«Sono un grandissimo ammiratore di Giovanni XXIII, che considero insieme a Giovanni Paolo II il più grande papa del novecento, ma rispetto alla sua massima mi trovo in disaccordo. La mia tradizione mi insegna che bisogna vedere da dove si viene, dove si va, e al cospetto di chi andrai per fare il resoconto della tua vita».

la Repubblica, 6 settembre 2006

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