DIARIO di Repubblica
L’armistizio con gli Alleati
Quell’otto settembre nella nostra storia
Così divenni partigiano
Giorgio Bocca
Che cosa si ricorda delle giornate decisive come l’otto settembre del ‘43? Subito il tempo: il cielo azzurro di un autunno tiepido, poi le cose minime della quotidianità, il risveglio, la colazione, come eri vestito? In divisa da sottotenente del 2° alpini? Sì certo, avevi giurato fedeltà al re imperatore solo due giorni prima, nella caserma di Cuneo. Chi c’era in casa? Tua madre, tua sorella, tua nonna Maria, la cameriera Bice che arrivava il mattino presto con il pane ancora caldo di forno. Del messaggio di Badoglio che la radio continuava a trasmettere c’è un ricordo breve e confuso, ma quanto bastava per capire che la guerra era finita una buona volta, ci eravamo arresi agli angloamericani. Ma che voleva dire «i nostri reparti reagiranno a qualsiasi attacco di altra provenienza». Perché non dire i tedeschi? Chi altri? Ah Badoglio, furbo e ipocrita sino alla fine. Poi fuori a vedere come finisce una guerra persa, sul viale degli Angeli dove è già arrivata la prima ondata dei fuggiaschi della Quarta armata che torna a casa dalla Francia. Più che una umana vicenda quella fuga era una catastrofe naturale, come una slavina. I reparti che avevano occupato la Provenza e il Nizzardo arrivavano compatti fino ai valichi di Tenda o della Maddalena poi rotolavano giù abbandonando armi e mezzi. In poche ore la grande onda di una divisione si frantumava, si disperdeva nel mercato frenetico con i concittadini usciti che era ancora buio dalle case per comperare o rubare radio, gomme, sigarette, farina. I generali primi nella fuga sulle loro auto con le tendine abbassate, le eccellenze. Vercellino, Operti che il comitato antifascista di Cuneo, i Galimberti, i Dante Livio Bianco cercavano invano di raggiungere. Nel baule dell’auto di Operti il tesoro della Quarta armata, un centinaio di milioni di allora, direzione Benevagienna dove il generale aveva villa e cascina. Li avrebbe usati per negoziare un comando con la Resistenza, dove i comandi non si negoziavano ma si guadagnavano scarpinando. Dietro l’armata in fuga venivano migliaia di ebrei liberati da un campo presso Borgo San Dalmazzo, la maggior parte subito catturati dal maggiore Ss Peiper per spedirli nelle camere a gas. Salvo quelli della sopravvivenza indomita come Mira, la jugoslava incinta dagli occhi azzurri, che arrivò sulla nostra montagna povera, rimase con noi tutti i venti mesi della guerra partigiana, fece il suo figlio e sopravvisse parlando a monosillabi, un’ombra di terrore negli occhi, ma più forte di tutte le sventure. Quel mattino le porte della caserma del II alpini erano sbarrate, ordine del colonnello Boccolari. “Nessuno esca”, salvo i suoi attendenti che dovevano mettere in salvo i vasi di fiori che teneva nell’ufficio. Tutte ferme nelle camerate le reclute del reggimento, appena arrivate. Andavano e venivano dalle brande alle latrine da cui arrivava un odore acre. O si affacciavano alle finestre per capire cosa stava succedendo, respinti dagli urli degli ufficiali che stavano nel cor cortile. Ma non si muovevano, si era su quel filo della lama che da un momento all’altro può rompersi. Salii a dare un’occhiata: sembrava di essere in una incubatrice di bachi da seta disposti sui graticci. Il portone della caserma era sprangato, vi passavano solo le voci che arrivavano da un paese allo sbando, da stazioni gremite di soldati in fuga, molti già vestiti in borghese come se non fossero riconoscibili. Da noi il colonnello Boccolari e gli altri ufficiali “penna bianca” sanno che una colonna tedesca, il reggimento Ss del maggiore Peiper, sta avanzando da Torino ma non sanno cosa fare, aspettano un ordine che non arriverà mai da un comando che non esiste più. Ma qualcuno che l’ordine se lo dà da solo c’è ancora: il tenente Nardo Dunchi ha caricato una carretta di armi e di munizioni, ha fatto aprire con un urlo da toscanaccio il portone e se ne è andato alla montagna di Boves, dove lo attende un altro come lui, Ignazio Vian. Alle cinque della sera il cielo azzurro di quel tiepido autunno viene squarciato dal rombo di un motore, è una Cicogna tedesca, passa bassissima. Il piccolo aereo compie due giri e poi si allontana, ma l’incubo si è spezzato, l’immobilità da incantesimo si è rotta, il nemico è visibile. Le reclute adesso scendono nel cortile e premono sui portoni laterali, non si sa se li aprono o li sfondano, ma sono già fuori, tornano a piedi con le loro divise nuove verso il villaggio e le cascine da cui sono arrivati, i Probo e Costanzo e Maurizio con i loro nomi da martiri della legione Tebana. Noi, gli amici giovani di Duccio Galimberti e di Detto Dalmastro, passiamo nell’ufficio di Duccio che è in piazza Vittorio a cento metri dalla caserma. «Ci ritroviamo in Val Grana», ci dicono, «a Frise, il paese del sergente Durbano che ci aspetta». Io vado a casa mia per prendere il binocolo, un maglione di lana, un paio di calze. La guerra è orrenda ma ti fa riscoprire la divina provvidenza. In qualche modo si camperà, si combatterà, ci si coprirà. In quel tiepido autunno del ‘43 mia madre non aveva ancora capito. Aveva invece capito mia nonna che continuava a preparare la cena ma diceva «E bin la su ai saran i so cumandant». I comandanti dell’eterno ordine militare ci sono sempre nel Piemonte montanaro. L’armata si era sciolta, il comandante Ss Peiper e il suo reggimento corazzato stavano per arrivare, ma sulle panchine del viale degli Angeli c’erano sempre le coppiette e mio zio Mario si stava giocando alla bocciofila la mezza bottiglia di dolcetto. Ce ne andammo a piedi, nelle “pianche” in legno su cui si attraversava la Stura diretti a Caraglio. Le assi cigolavano sotto i nostri piedi, e saliti sull’altra sponda in vista delle montagne sentimmo che avevamo davvero rotto gli ormeggi cittadini. Mia madre no, non lo aveva ancora capito. Mi aveva rincorso per le scale con una maglia e capii che si era trattenuta dal dirmi «non far tardi stasera». Ci saremmo rivisti venti mesi dopo. L’incontro con i mulo Garibaldi che in quei venti mesi non ci avrebbe mai lasciato avvenne all’imbocco della Val Grana. Lì si è sciolto un battaglione di artiglieria alpina. Qualche soldato girava ancora per le tende. Seduto su una pietra, nel polverone rossastro, stava un capitano. Si era tolto il cappello con la penna nera, aveva lo sguardo perso nel vuoto. «Sale su con noi?». Non capiva. «Possiamo prendere quel mulo?». Non rispondeva, era un’anima morta, di un esercito morto. Arriviamo al tramonto alla baita del sergente Durbano a Frise. Sulla porta della chiesa c’era don Graziano il parroco giovane. Alla fontana stavano Nanette e Rosina, tornate da Nizza al loro villaggio con le mani dure di chi ha lavorato ai fiori nelle serre, i seni piatti sotto i maglioni, i capelli tinti, troppo neri, troppo rossi. Intorno, nel silenzio, le montagne di Santo Lucio come le chiamano gli occitani.
Ma la patria morì col fascismo
La controversia/ intervista a Gennaro Sasso sull’interpretazione di quel giorno
“I soldati italiani si denudavano davanti a casa mia chiedendoci vestiti borghesi” – “Sbaglia De Felice nel collocare allora l’estinzione del sentimento nazionale”
Simonetta Fiori
«Ebbi subito la sensazione d’un crollo. La tragedia si materializzò davanti a casa mia, in questo giardino che ora è nascosto dagli alberi». L’8 settembre di sessant’anni fa Gennaro Sasso - studioso insigne di formazione azionista, storico delle idee cresciuto tra Chabod, Croce e Calogero - abitava nello stesso silenzioso villino, in cima all’Aventino, dove oggi ci riceve. La finestra dello studio, tra libri antichi e legni intarsiati, è la stessa da cui poté assistere a uno spettacolo straziante, quasi epico. «I soldati italiani si denudavano, strappandosi di dosso le divise. Qualcuno bussò alla nostra porta per chiedere panni borghesi. Qui dietro, in via Marmorata, i tedeschi puntavano i loro fucili contro le donne in fila per il pane. Con alcuni amici mi avvicinai a Porta San Paolo, vidi un gruppo di resistenti sparare contro i carri armati nazisti. Avevo quindici anni, soltanto da poco - dal 25 luglio - cominciavo a capire. Quelle giornate di settembre, fredde e piovose, segnarono definitivamente la mia scelta, ossia l’infedeltà al fascismo».
Che educazione politica aveva ricevuto?
«Nella mia famiglia erano rappresentate tutte le componenti. Mio padre, un buon borghese - direttore centrale della Banca d’Italia - era politicamente poco significativo. Mia madre veniva da una famiglia dissidente: il padre era seguace di Nitti e il fratello, l’avvocato Werthmüller, un fervente antifascista. Crebbi in un ambiente misto, rimanendo su posizioni acritiche (anche se detestavo i sabati fascisti). Come assai mescolato era il nostro quartiere».
Chi abitava allora sull’Aventino?
«Potevi incontrare Telesio Interlandi, il temibile direttore de La difesa della razza, mentre poco più in là abitava la vedova di Giovanni Amendola, Eva Khun, una signora russa dalle vestaglie eccentriche e dai lunghi bocchini liberty. Qui affianco viveva il presidente del Tribunale speciale dello Stato; dall’altra parte il prete modernista Romolo Murri. Al numero 5 di questa stessa strada abitava il filosofo antifascista Guido Calogero, mio futuro suocero. La sua figura colpiva l’immaginazione di noi ragazzi: i capelli bianchi, nonostante la giovane età; e un alone di diversità per la sua opposizione al fascismo, ma non ne sapevo granché».
Incredulità-stupore-gioiapreoccupazione-smarrimento. In uno dei libri più belli sull’8 settembre, Una guerra civile di Claudio Pavone, così viene restituita la sequenza di emozioni di quella giornata.
«Sì, in me prevalse il senso dello sfascio: crollava lo Stato italiano con i suoi comandi militari. E poi la fuga del Re, una cosa davvero ignobile, e ancora l’Italia divisa in due, un governo al Sud, controllato dagli Alleati, e un altro al Nord, succube dei tedeschi…».
Fu allora che morì la patria, secondo la fortunata formula coniata da Salvatore Satta, più tardi ripresa in sede storiografica
«Renzo De Felice prima, Ernesto Galli della Loggia dopo, hanno evocato a proposito dell’8 settembre la morte della patria, ma mi sembra un’estensione impropria. Allora morì lo Stato italiano con il quale il fascismo s’era identificato, non la patria. Fu il funerale del regime e della monarchia, non del sentimento nazionale. L’ideale patriottico
significa l’appartenenza a una comunità politica. Ma quando è venuto meno questo sentimento nazionale? L.8 settembre o molto prima?».
In un saggio di qualche anno fa, scritto per Liberal, lei ha già risposto: l’8 settembre la patria era già morta, uccisa dal fascismo.
«Lo Stato italiano, uscito fragile e malfermo dal Risorgimento, aveva già subito la catastrofe della grande guerra. Poi è arrivato il regime fascista che ha spezzato il nesso tra nazione e libertà proprio del Risorgimento. Nella parte migliore della società civile, come ben avvertirono Benedetto Croce e Gaetano Salvemini, il sentire politico smise di coincidere con il sentimento patriottico. La patria cessò di essere tale quando a incarnarla fu la dittatura».
L’esaltazione nazionalistica del fascismo ha finito per distruggere il sentimento nazionale.
«Un vero paradosso: il regime che più s’identificava nel concetto eroico della patria è quello che poi l’ha uccisa. Quel che i revisionisti non colgono è la portata dirompente del fascismo: le lacerazioni furono così forti che ancora oggi ci si divide. Poi, ai teorici della morte della patria, vorrei domandare: sarebbe stato meglio continuare a combattere al fianco della Germania nazista?».
L’8 settembre continua ad avere un contenuto simbolico forte. Se per De Felice fu “l’emblema del male italiano”, molti studiosi valorizzano i segni di riscatto patriottico. Massimo Mila parlò dell’8 settembre come «rivelazione a se stesso di nuove possibilità di vita».
«Come vecchio azionista anche per me l’8 settembre significò rivolta. Ma non posso dimenticare la disperazione dei nostri soldati».
Un nuovo senso comune, che rimbalza su giornali e Tv, enfatizza la casualità della scelta, tra i due fronti opposti della guerra civile, con l’effetto di omogeneizzare chi s’armò contro i nazisti con chi combatté per la causa delle Ss.
«Insistere sulla buona fede dei ragazzi di Salò mi sembra un atto subdolo, come se si volesse occultare il vero problema. E cioè che quello tra fascisti e antifascisti fu un conflitto insanabile, che oggi la storiografia non può e non deve ricomporre. È la politica la sede dei riconoscimenti reciproci, non la storiografia».
Il documento - Mario Borsa accusa Mussolini
L’8 settembre 1945 Mario Borsa, direttore del Corriere d’informazione, scrisse un editoriale intitolato Due anni fa. La posizione di Borsa era quella di tutto l’azionismo: l’8 settembre, pur essendo un evento traumatico, non era destinato a rappresentare una specie di peccato originale della Repubblica italiana
8 SETTEMBRE 1943. La data rimarrà storica per molte ragioni e anche per la più spudorata fra le tante falsificazioni storiche di Mussolini. Egli, infatti, ha scritto nella sua storia del Tempo del bastone e della carota: «…La resa a discrezione del settembre 1943 è stata la più grande catastrofe materiale e morale nei trenta secoli della nostra storia. Da quell’infausto mese le sofferenze del popolo italiano sono indicibili e superano l’umano per entrare nell’irreale. Mai un popolo salì più doloroso calvario». Tutto falso. Dalla prima all’ultima parola. Le nostre sofferenze non datano da “quell’infausto mese”: il nostro “doloroso calvario” lo dobbiamo non all’8 settembre 1943 ma al 10 giugno 1940; non all’armistizio che tentò, anzi di salvare il salvabile, ma alla dichiarazione di guerra - la guerra meditata, auspicata, provocata da Mussolini - che doveva gettarci, come ci gettò, nel più nero degli abissi. Le nostre sconfitte in Grecia, in Africa Orientale, in Libia sono tutte venute prima dell’8 settembre; la Sicilia fu vinta e invasa e occupata prima dell’8 settembre.
L’inedito/ Pubblichiamo alcuni brani dal diario del generale
Incontrai gli alleati in segreto a Lisbona
Giuseppe Castellano
Pubblichiamo alcuni brani dal memoriale di Giuseppe Castellano, il generale che firma l'armistizio. Il diario è stato acquisito all'epoca dai servizi segreti americani. Sono 88 pagine, conservate negli Archivi Nazionali del Maryland e oggi desecretate. Il resoconto che Castellano consegna agli agenti dell'intelligence rappresenta un'Italia allo sbando «con un imbecille a capo del governo (Pietro Badoglio, ndr) e un vigliacco (il ministro Raffaele Guariglia, ndr) a dirigere la diplomazia». Il documento (n. 33854 del casellario dell'Oss, serie 92, busta 621, fascicolo 5) è diviso in tre parti.
25 luglio 1943
«Accarezzo l.idea di liquidare Mussolini. La condizione fondamentale è quella di organizzare un colpo di stato e prepararsi al contempo a respingere l’eventuale reazione dei tedeschi. Acquarone (il duca ministro della Real Casa, ndr) non è della stessa opinione. Afferma addirittura che non bisogna parlarne, a meno che la decisione non venga dal re in persona. «Lo sbarco nemico in Sicilia sconvolge l’opinione pubblica italiana ma scuote ancor di più gli uomini al potere, perché capiscono che è l’inizio della catastrofe. Si muovono solo per salvarsi.. «Acquarone continua ad affermare che il re si è finalmente deciso. Intende mettere in atto il colpo di stato il 25 luglio o al più tardi il 26… Si accende la discussione su come catturare Mussolini. Suggerisco che il piano venga messo in atto la mattina di lunedì 26 luglio al Quirinale, dopo l’udienza con il re. Tutti sembrano terrorizzati. Le discussioni avvengono a bassa voce in un angolo della stanza, lontani dal telefono. Perché Senise (ex capo della polizia, ndr) teme che le conversazioni vengano ascoltate, sebbene la cornetta sia abbassata. Una scena piuttosto ridicola… Il tempo passa e io vado da Angelo Cerica (comandante generale dei Reali carabinieri, ndr) per dirgli di predisporre l’arresto di Mussolini: 50 carabinieri a Villa Savoia e un’ambulanza per portarlo via attraverso un’uscita secondaria».
31 luglio 1943
«È di estrema urgenza che un nostro ufficiale venga incaricato di mettere al corrente gli angloamericani, che sono completamente all’oscuro della nuova situazione. I tedeschi infatti si preparano ad attaccarci».
9 agosto 1943
«Insisto sull’urgente bisogno di stabilire un contatto con gli Alleati… sostengo che dobbiamo fare il primo passo con i tedeschi senza ulteriori discussioni, gli Alleati inizieranno ad aiutarci solo in seguito. Suggerisco anche che il governo Badoglio invii una lettera al generale Eisenhower per chiarire i nostri propositi. Mi offro come latore della missiva».
10 agosto 1943
«Il re sostiene che occorre avviare i contatti con gli americani, ma non desidera che l’agente incaricato porti con sé alcun documento».
12-27 agosto 1943
«Lascio Roma in treno con l’ordine di raggiungere Lisbona e stabilire un contatto con l’ambasciatore britannico. Il mio compito è quello di illustrare l’attuale situazione italiana ai governi inglese e americano e di capire le loro intenzioni militari… il mio pseudonimo è Raimondi… non ho alcun documento che attesti l’ufficialità della mia missione. Giungo a Lisbona la sera del 16 agosto… il 19 a casa di Campbell (l’ambasciatore britannico, ndr) incontro il generale Smith che è il capo dello staff di Eisenhower. Sono arrivati da Algeri da poche ore per potermi incontrare, mi salutano con un cenno del capo, nessuno mi stringe la mano. Ci sediamo, il generale Smith inizia a leggere un foglio con i termini
Dell’armistizio. Viene letto poi un secondo documento. Io replico che i punti della discussione sono altri. Il generale Smith mi risponde seccamente: ha ordini di trasmettermi i due documenti e mi chiede di accettarli integralmente e senza condizioni. Durante il viaggio di ritorno mi preoccupo soprattutto di nascondere i documenti e di pensare a un buon pretesto nel caso i tedeschi mi arrestino… sir Campbell telegrafa al Comando dell’aviazione alleata perché non bombardino il treno su cui viaggio. Gli Alleati non intendono umiliarci. La frase “resa incondizionata” è stata mutata in “termini dell’armistizio”. L’atteggiamento alleato è ora favorevole a noi e dobbiamo tenerne conto».
27 agosto 1943
«Di ritorno a Roma… vengo ricevuto dal capo del governo. Gli riassumo i risultati della mia missione e gli leggo i termini dell’armistizio. Ho la sensazione che Badoglio sia un imbecille. Raffaele Guariglia (il ministro degli Affari esteri, ndr) obietta che non possiamo
chiedere l’armistizio perché i tedeschi ci farebbero a pezzi… è evidente che Guariglia è terrorizzato… Ambrosio (capo dello Stato maggiore dell’Esercito, ndr) mi chiama per sapere se ho intenzione di partire per la Sicilia, gli rispondo che i patti devono essere chiari… se le note di Guariglia avessero la minima possibilità di successo non avrei alcun problema a partire, in caso contrario chiederò di rimettere i negoziati nelle mani dei diplomatici che però, a mio parere, non potranno che fallire»
29 agosto 1943
«Mi reco da Badoglio insieme ad Ambrosio… mi chiedono quale procedura si debba applicare per comunicare agli Alleati che la risposta non è né negativa né positiva, rispondo che il mio accordo con Smith prevede solo un sì o un no. Badoglio si leva il cappello e mi butta fuori dicendo: “Queste cose riguardano solo il governo. Castellano
se ne deve andare”. Rimango di sasso. Perché Badoglio ha perso le staffe? È un mistero, non vi è alcun barlume di lucidità in quella mente malata. Pentitosi dello sfogo della mattina Badoglio sembra ora ben disposto… il re invia Acquarone da Ambrosio per consegnargli la risposta… c’è scritto che il governo di Sua Maestà il re d’Italia ha deciso di denunciare il patto di Alleanza che lega l’Italia alla Germania».
(A cura di Attilio Bolzoni e Tano Gullo)
Il documento - I servizi Usa giudicano Castellano
«L'uomo che ha condotto i negoziati con noi è di scarsa cultura e di dubbia moralità». Ecco quello che gli agenti segreti americani scrivono nei loro dossier sul generale che ha firmato l'armistizio. Il rapporto dell'Office of Strategic Services dove è schedato Giuseppe Castellano è datato 5 settembre ‘45 (numero A/60579, serie 108 B, busta 57, fascicolo 472) ed è classificato «secret». Secondo gli agenti, «Castellano era segretamente in combutta con il prefetto di Roma Temistocle Testa, legato ai tedeschi. Mentre conduceva i negoziati dell'armistizio, aveva un unico obiettivo: diventare il plenipotenziario italiano per avere piena libertà di mettere in atto importanti operazioni finanziarie con la collaborazione di Testa». E ancora: «Castellano ha ritardato lo sviluppo positivo della guerra, portando l'Italia al disastro e causando un danno incalcolabile agli Alleati». Ma ci sono altri dossier che riguardano il generale. Uno è del 10 dicembre 1943 ed è firmato da Vincent J. Scamporino, il capo dell'intelligence americana in Sicilia. Il documento (J/124, serie 108, busta 111) ) viene inviato a Washington tre mesi dopo la firma di Cassibile. «Ha un cervello da bambino», scrive Scamporino. «Castellano è allarmato dall'influenza britannica sul movimento separatista siciliano. Ma ci tiene anche a dire che gli uomini chiave della mafia sanno quello che fanno. Il generale ha buone connessioni con la mafia. La sua è da generazioni una famiglia di alto rango in Sicilia».
Quelle truppe a lungo dimenticate
L’esercito/Il ruolo delle forze armate nel sud liberato. Uno studio di Carlo Vallari
Lucio Villari
Lo sbarco in Calabria degli Alleati avvenne, dopo un furioso bombardamento aereo e navale, in una striscia di spiagge prospicienti Punta Faro. Era il 3 settembre, cinquantatré giorni dopo lo sbarco sulle coste meridionali della Sicilia. Le due azioni, militarmente simili, furono politicamente diverse. In Sicilia i nemici, oltre i tedeschi, eravamo noi italiani. In Calabria, nelle stesse ore in cui i soldati dell'VIII armata britannica e della V armata americana, toccavano il "continente", il generale Castellano firmava a Cassibile l'armistizio: gli italiani erano vinti ma dal 3 settembre cominciavano a non essere nemici. Cinque giorni dopo, con l'annuncio ufficiale all'Eiar di via Asiago da parte del maresciallo Badoglio, dell'avvenuto armistizio, gli italiani cominciavano a diventare amici. E in quel mese di meraviglie che fu il settembre 1943, mentre in una parte della Puglia riprendeva forma e legittimità internazionale lo Stato italiano (il Regno del Sud) Churchill annunciava ai Comuni, d'accordo con il presidente Roosevelt, che il governo del re Vittorio Emanuele III era elevato al rango di cobelligerante. Nel discorso inedito di Badoglio che è stato pubblicato su questo giornale il 25 luglio scorso, il termine cobelligeranza si definiva "difficile" da comprendere, ma il suo senso politico era invece chiaro e prezioso. Anche il Regno del Sud avrebbe fornito truppe regolari al gigantesco sforzo degli Alleati in lenta avanzata verso il Nord contro le armate germaniche. Se si scorrono le pagine famose del diario di Benedetto Croce (Quando l'Italia era tagliata in due) si vede che l'impulso morale e politico di molti ufficiali dell'esercito fedele al re e al governo di Brindisi di collaborare alla cacciata dei tedeschi si era tradotto anche in progetti di reclutamento di giovani patrioti per formare un corpo di volontari. Era un ricordo delle guerre del Risorgimento, con la variante che gli inglesi e gli americani preferivano la partecipazione di truppe regolari meglio controllabili. La liberazione di Mussolini e la nascita poco dopo la metà di settembre della Repubblica sociale con Roma (formalmente) capitale, nonché le tragiche notizie delle stragi di migliaia di soldati italiani a Cefalonia e nei luoghi più disparati dello sterminato fronte di guerra in Europa, non fecero che accelerare la costituzione di un piccolo esercito motivato anche politicamente contro l'invasore tedesco per il riscatto della libertà e dell'indipendenza dell'Italia. Fu un salto di qualità etico e politico delle nostre forze armate e fu un elemento fondamentale di quell'evento che si chiamò Resistenza. In altre parole, di questo evento che, al di là di schematizzazioni e interdizioni storiche durate troppo a lungo, ha significato la rinascita dell'Italia e l'alba della nostra democrazia, furono a pari merito protagonisti anche i nostri soldati che si riconoscevano nel re, nel governo Badoglio a Brindisi e poi a Salerno, e in quello Bonomi a Roma nel 1944. Dunque: forze armate e il loro patriottismo al servizio degli ideali della Resistenza e del vero Stato italiano rappresentato (pur tra le polemiche antimonarchiche dei partiti antifascisti e le varie posizioni dei comunisti e degli azionisti sull'esercito regio "reazionario") dal re e poi dal figlio luogotenente. È questa una chiave di lettura della storia di quei mesi che non può essere lasciata inutilizzata con il rischio di alterare la verità storica della lotta di liberazione del biennio 1943-45. La fedeltà della Marina e la partecipazione di reparti con bandiera italiana in rischiose operazioni militari in Campania, Abruzzo, Marche, Lazio non sono un oggettivo dato retorico, ma un contributo soggettivo a una nuova Patria e a un senso nuovo dell'onore militare. E questo contributo ha avuto, in quei mesi cruciali, un avallo politico e "culturale" dall'attiva opera di Benedetto Croce e - bisogna ricordarlo e riaffermarlo - della positiva conduzione strategica e tattica del primo ministro inglese. Il Churchill, beffeggiato e insultato dalla propaganda fascista fin dal 1940, fu in realtà lo statista che più si è impegnato, anche nei dibattiti alla Camera dei Comuni, per indirizzare verso un liberalismo democratico il rinascente Stato italiano. A questo conservatore e all'America rooseveltiana del New Deal deve molto il "settembre 1943" dell'Italia. Queste pagine di storia vanno dunque riaperte. Un avvio di ampio respiro è certamente l'importante ricerca di Carlo Vallari in un volume che è in questi giorni in libreria. Il titolo è Soldati. Le forze armate italiane dall'armistizio alla Liberazione (UTET, pagg. 492, euro 24,50). Vallauri ha lavorato accuratamente intorno alla domanda «Perché solo recentemente, e con decenni di ritardo, s'inizia a ricordare che tra i principali protagonisti della lotta per la liberazione nazionale vi sono state le forze armate regolari italiane?». L'indagine a tutto campo nasce da una documentazione anche inedita sugli scenari politici, militari, psicologici di una storia di italiani che in momenti decisivi hanno difeso valori nei quali ancora oggi ci riconosciamo.
Lì per lì pensammo che non fosse vero
L’esercito/ dal diario di un caporale
Giovanni Giovannini
Anticipiamo un brano da Il quaderno nero, un libro di memorie di Giovanni Giovannini, ex presidente della Fieg, scritto con Cesare Protetti e di prossima pubblicazione presso Scheiwiller. Giovannini era caporale della IV Armata e si trovava a Cannes.
Apprendo la notizia in un piccolo ristorante italiano. Chi me la comunica è Mugnai, il proprietario. Mugnai, il grande cranio lucido, gli occhi un po' atoni, la mascella prominente. Il prototipo dei fascisti all'estero: nella sua mente fascismo e Italia si sono confusi in una cosa sola. (…) Ora nella sala deserta e semibuia, sta attonito, appoggiato a una parete, un'espressione mista di stupore e di dolore nello sguardo. Non posso restare là: a me il cuore trabocca di gioia. Nelle strade c'è una lieve, insolita animazione. Le nostre divise attirano sguardi ora di simpatia ora di derisione trionfante. Non vi presto troppa attenzione. Devo arrivare ad ogni costo a Grasse. (…) Alla stazione di Cannes devo prendere l'autobus, prima tentazione: fra pochi minuti deve passare la tradotta per Mentone. Saltar sopra abbandonando tutto e tutti; e fra qualche ora essere in Italia! Gruppetti di soldati stanno esaminando lo stesso problema. Li dissuado: da un momento all'altro i tedeschi entreranno in azione per impedirci la ritirata e catturarci tutto quanto può loro servire; da un momento all'altro possono avere inizio regolari operazioni di guerra. Che cosa avverrà di noi se ci daremo alla fuga ognuno per conto proprio? (…) Credevamo di trovare la cittadina - sede del Comando di Corpo d'Armata e di diversi reparti di truppa - tutta sottosopra; invece niente. Tutto calmo. È sera. Poca gente nelle strade. Ci dirigiamo svelti verso l'Hotel Victoria, sede del Comando. Davanti a noi un carabiniere lungo lungo cammina lemme lemme. Mentre lo sorpassiamo gli chiediamo per scherzo: «Nulla di nuovo, oggi?» E quello serio, serio: «Niente». Ci fermiamo di botto. Che la notizia sia falsa? Quante volte si è sparsa senza alcun fondamento questa voce negli ultimi giorni! «Ma l'armistizio…; non è vero…?».
«Ah, be’, sì - risponde - ma, a parte quello...». Voliamo via.
25 luglio
Gran Consiglio del fascismo. È approvato l’ordine del giorno di Dino Grandi che invita il re a riassumere le sue funzioni di comandante supremo delle forze armate. Mussolini è costretto a rassegnare le dimissioni e fatto arrestare. L’ex comandante delle forze armate Badoglio è il nuovo capo del governo.
12 agosto
Il generale Giuseppe Castellano parte per Lisbona con istruzioni del capo di stato maggiore Ambrosio per una trattativa con gli alleati. Tre giorni dopo gli anglo-americani intensificano i bombardamenti su Milano, Torino, Genova, Roma e Napoli per fiaccare psicologicamente l’Italia di Badoglio e accelerare la resa
19 agosto
A Lisbona Castellano incontra i rappresentanti di Eisenhower. Le condizioni d’armistizio sono drastiche: resa immediata. L’Italia da parte sua chiede di essere protetta con uno sbarco a nord di Roma che dissuada i tedeschi da ritorsioni contro il Quirinale e il governo. Ma gli alleati non promettono nulla.
1 settembre
IL re Vittorio Emanuele III accetta le condizioni dell’armistizio, i cui termini il generale Castellano gli aveva comunicato in un colloquio il 27 agosto, di ritorno dal Portogallo. La piena adesione del sovrano viene comunicata agli alleati grazie alla radio clandestina consegnata al generale Castellano.
3 settembre
A Cassibile, presso Siracusa, il generale Castellano e il generale Bedell Smith, in rappresentanza del generale Eisenhower, firmano l’armistizio fra gli italiani e gli alleati: saranno restituiti i prigionieri, la flotta italiana si consegnerà a Malta e gli aerei atterreranno nell’Italia meridionale. Gli alleati sbarcheranno presso Roma.
8 settembre
Alle 19,45 Pietro Badoglio annuncia per radio l’armistizio. Nella notte il re e il governo abbandonano Roma e fuggono a Brindisi. Badoglio avverte che le truppe italiane reagiranno «ad attacchi di qualsiasi provenienza». Ma nessun ordine viene inviato ai comandi italiani rimasti al fronte.
Arrivato a Roma da Livorno mi rifugiai a casa dello zio Masino. La moglie, una Sforza, sapeva che nello stesso palazzo c’era un ufficiale italiano che stava per partire per Scanno, in Abruzzo, dove aveva una casa. Lì sarei stato al sicuro per un po’ e avrei potuto tentare di passare le linee e unirmi agli alleati.
Carlo Azeglio CIAMPI (da Il sentiero della libertà, Laterza)
Il mio 8 settembre fu a Porto Valtravaglia, sulla sponda del Lago Maggiore dove abitavo con i miei. Avevo 17 anni. Ricordo il grande stordimento. S’intuiva che era una giornata storica, di svolta, ma nello stesso tempo nessuno capiva cosa sarebbe successo. Un giudizio storico? L’8 settembre fu il giorno del tradimento, l’esempio della cialtronaggine della nostra classe politica.
Dario FO
Quando ho sentito alla radio la notizia dell’armistizio ero con Franco Venturi, che non era ancora diventato il grande storico. Non mi vergogno a dirlo, ma eravamo profondamente patrioti. La patria s’era dissolta con le aggressioni fasciste e le sconfitte militari che ne erano derivate. Si trattava di restituire all’Italia la capacità di pensare al suo futuro.
Vittorio FOA
Il mio 8 settembre fu disperato. Allora la mia casa, al numero 7 del Lungotevere Mellini, era una base del Cln a Roma. Lì avvenivano le riunioni con gli altri del Comitato: Gianni Corbi, Mario Petrucciani, Longo e Trombadori. Dopo l’annuncio dell’armistizio piombarono a casa in cerca di armi. Ma io da offrire avevo solo le poesie patriottiche del Berchet.
Carlo LIZZANI
Ricordo la mia fuga in Svizzera. Con me c’erano Strehler e Livio Garzanti. Insieme a noi lasciava l’Italia anche il Savoia cavalleria. In Svizzera ho vissuto nell’Oberland bernese, a Murren, e lì ho completato i miei studi in medicina, lontano da mia madre che era rimasta in Valganna, ospite in casa di una zia.
Dino RISI
Non ho un ricordo preciso di quella giornata, ma un primo effetto visivo dell’8 settembre fu la massiccia apparizione dei tedeschi. Noi eravamo sfollati a Como, la nostra casa di Milano era stata bombardata. Ricordo bene quell’estate del 1943. Fu allora che presi coscienza di che cos’era il fascismo. L’8 settembre mi spinse verso l’azione concreta.
Rossana ROSSANDA
Quando la radio dette la notizia dell’armistizio mi trovavo a Sanremo. Gli altoparlanti la diffusero per le strade. Ero con gli amici di sempre, Italo Calvino, Gianni Pigati, Maiga, Birone, Gianluigi Turco. A differenza di quanto era avvenuto il 25 luglio, quel comunicato dell’8 settembre ci gettò in uno stato d’animo di grande preoccupazione.
Eugenio SCALFARI
«La mia memoria dell’8 settembre 1943 si intreccia con la realtà dell’esilio. L’8 settembre ero a New York. Ricordo benissimo la scena: con la famiglia, là, davanti a una radio. Una voce quasi dall’oltretomba che però quel giorno ci avvicinava alla prospettiva del ritorno. L’8 settembre fu l’inizio della fine dell’esilio, l’inizio della speranza».
Tullia ZEVI
la Repubblica, 5 settembre 2003