la Repubblica

"In quella valigia ad Auschwitz tutta la tragedia di mio padre"

Il figlio di una vittima dell'Olocausto chiede al museo la restituzione

Battaglia legale per l’oggetto scoperto casualmente in una mostra – L’appello anche su Le Monde: “La rivoglio, è della mia famiglia” – Un tribunale francese dovrà decidere entro la fine del mese. Si rischiano altre richieste. Il governo polacco: se tutti chiedessero gli oggetti di famiglia il museo si svuoterebbe

Anais Ginori

 

Parigi - Questa è la storia di un figlio che vuole tenere vivo il ricordo del padre e di una fondazione che deve proteggere la memoria della Shoah. Il loro incrocio di destini ha generato un triste duello, che ormai sarà risolto per vie giudiziarie. «Sono desolato, non doveva andare così» ammette Michel Lévi-Leleu. Entro la fine del mese, sarà un tribunale francese a decidere chi ha ragione. Se lui, figlio di un ebreo deportato nel 1943, o il museo di Auschwitz-Birke­nau che tramanda al mondo la tragedia dell'Olocausto. Tutto per una valigia. Vecchia e lisa, senza coperchio, con il manico tenuto insieme da uno spago. È l'unico oggetto che Lévi ha  del padre. L'ha ritrovato per caso un anno fa, visitando il nuovo Memoriale della Shoah a Parigi e leggendo l'etichetta sulla valigia: Pierre Lévi. Si è commosso, all'inizio non ci credeva. «E' stato come averlo vicino dopo tutto questo tempo» ricorda. L'ultima volta che Lévi ha visto suo padre, aveva 4 anni. Con l'occupazione nazista, la sua famiglia si era trasferita da Avignone in Alta Savoia, sotto un falso nome, Leleu. Arrestato nell'aprile del 1943 alla stazione, Pierre Lévi era salito sui vagoni per Auschwitz con una valigia e la certezza che non sarebbe mai più tornato. Michel, pensionato di 67 anni ormai nonno, al destino ci crede davvero. Guarda quella borsa vecchia come fosse un oggetto animato che, chissà come, si è salvato dall'orrore e in nome e per conto del padre è tornata. Lévi ha chiesto subito al museo di Auschwitz- Birkenau di riavere la valigia, prestata al Memoriale di Parigi soltanto per la mostra di inaugurazione: «Credo che quell'oggetto aiuti la mia famiglia a capire quanto abbiamo sofferto più di mille libri» racconta ora al telefono dalla casa di Avignone. La battaglia legale, che ieri è finita in prima pagina su Le Monde, è appena cominciata. «All'inizio voleva portarsela a casa, poi l'abbiamo fatto ragionare» racconta Jacques Freidj. Il direttore dell'istituto francese ha proposto che il reperto rimasse in Francia, all'internò della collezione del Memoriale che commemora le vittime del genocidio. «Ci sembrava un giusto compromesso» dice Freidj. «Molti discendenti della Shoah - aggiunge - hanno un rapporto sentimentale con oggetti e documenti. Forse il museo di Auschwitz non ha compreso la situazione umana, avrebbe dovuto usare più tatto». Ma anche per la fondazione polacca è una questione di principio. «Quella valigia fa parte della storia del campo di Auschwitz, è una delle prove dell'Olocausto» è stata la risposta di Teresa Swiebocka, vicedirettrice del museo sorto sulle ceneri del più grande campo di concentramento nazista. Dopo mesi di lettere e reciproche minacce, si è mosso addirittura il governo polacco. La richiesta di Lévi è infatti considerata un grave pericolo per l'integrità del museo. Quello che a un figlio rimasto orfano appare come il più caro dei ricordi, per la fondazione è una testimonianza storica sullo sterminio del popolo ebreo. Inoltre, le domande di restituzioni si stanno moltiplicando negli ultimi tempi e la fondazione teme che il caso Lévi possa creare un precedente. «Se tutti i discendenti delle vittime o gli ex prigionieri della Shoah seguissero questo esempio presto il nostro memoriale scomparirebbe» ha scritto il ministro degli Esteri polacco, cercando di mobilitare diverse personalità della comunità ebraica francese, tra cui l' ex presidente del parlamento europeo, Simone Veil. Senza un accordo, che entrambe le parti giudicano impossibile, toccherà ai giudici scegliere tra un interesse privato legittimo e quello pubblico, altrettanto giustificato. «È probabile che i magistrati riconosceranno la proprietà di Michel Lévi, unico discendente di Pierre» prevede Serge Klarsfeld, il suo avvocato. Lévi è consapevole dell'atroce paradosso di questa vicenda. Ma non vuole indietreggiare. «Dopo quello che ha vissuto mio padre - racconta - è patetico che io debba battermi in questo modo». La valigia è ancora esposta nel Memoriale di Parigi, sotto sequestro fino a sentenza. A Lévi non importa di essere giudicato per quello che sta facendo. «Non è solo un oggetto ma anche un simbolo, che appartiene in primo luogo a me e ai miei nipoti. Questa valigia non rifarà mai più il viaggio verso Au­schwitz».

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3500 – Le valigie – Sono 3500 le valigie ritrovate ad Auschwitz e oggi custodite dal museo. I nomi stampati sulle etichette dei bagagli furono spesso fondamentali per risalire all’identità e al numero delle vittime dell’olocausto.

La pittrice – La stampa internazionale ha raccontato nei giorni scorsi la vicenda di Dina Gottliebova Babbit internata ad Auschwitz e costretta a dipingere da Mengele: sta cercando di riottenere i suoi quadri conservati nel museo del lager

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l'intervista "L'aria densa di ceneri quello è il vero ricordo"

Parla Marek Edelman, eroe del Ghetto di Varsavia

 

Berlino - «Sono ricordi personali, è un momento sentimentale e individuale della Memoria. Ma quel che conta per il mondo non sono valigie o dipinti. Quel che conta è l'aria di Auschwitz, il vento che spira tra quelle baracche e odora ancora di cenere umana». Così Marek Edelman, il grande eroe ebreo della Resistenza antinazista europea, vicecomandante dell'insurrezione del Ghetto di Varsavia, commenta a caldo, il nuovo trend: sopravvissuti all'Olocausto o loro familiari che cercano di riavere i loro oggetti, o gli oggetti dei loro cari, oggetti rimasti lì dimenticati nei Luoghi della Shoah. «Sono persone singole. Al momen­to non mi sembra un fatto importante. Ma certo, è possibile che molte perso­ne vogliano sapere dei destini singoli dei loro cari, o ricordare il loro passato... Certo, è una spinta profondamente umana di chi - in prima persona o nel ricordo dei propri cari - ha vissuto quell'orrore. Vogliono riavere i ricordi, sapere e ricordare, riavere segni dei loro familiari". È una svolta nella Memoria del mondo? «No, neanche per gli ex deportati e le loro famiglie. Anche per loro, la Memoria non è in una valigia o in qualche qua­dro. La memoria è ancora oggi nell'aria laggiù ad Auschwitz. Quell'aria è ancora pesante delle ceneri degli esseri umani annientati a milioni. Per tutto il mondo, la Memoria importante è quella, e deve restarlo». (a. t)

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il personaggio  Addio alla nomade torturata da Mengele

Lo scienziato nazista le iniettò la malaria

 

Bolzano - È morta nella sua casa di Bolzano, a 82 anni, Barbara Richter una zingara Sinti sopravvissuta ai Lager te­deschi ed agli esperimenti del dottor Mengele, lo scienziato nazista morto in Brasile alla fine degli anni Settanta. Sul braccio, Barbara Richter, aveva tatuato il numero che le SS le avevano dato nei Lager di Auschwitz e Raven­sbrueck: Z 1963, dove quella «Z» sta per Zigüner e cioè zingaro. La notizia è data dal quotidiano Alto Adige che ripercorre la storia della donna, originaria della Boe­mia dove la famiglia vendeva tappeti, che finì nei Lager quando era una bambina. Ad Au­schwitz il dottor Mengele sottopose anche lei ai suoi crudeli esperimenti iniettandole tra l'altro la malaria: rimase per settimane tra la vita e la morte. Trasferita in vari campi - Barka, nome sin­to di Barbara - riuscì a fuggire saltan­do da una finestra sul telone di un ca­mion che stava uscendo da un Lager. A lungo si nascose nei boschi dove, con un coltello, cercò invano di cancellare quel numero tatuato sul braccio procu­randosi solo una infezione. Poi incontrò Vinzenz, l'uomo che la nascose e diventò suo marito. Finita la guerra ha vissuto in varie parti del mondo approdando a più riprese a Bolzano dove venne accolta da don Bruno Nicolini che era il il cappellano diocesano dell'Opera nomadi. Schiva, raccontò le sue memorie a Mirella Karpati che le pubblicò sulla rivista Lacio Drom dedicata proprio al mondo dei nomadi.

la Repubblica, 2 settembre 2006

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