la Repubblica

Un museo nel lager degli italiani

Catturati dopo l’8 settembre, vennero usati come schiavi a Berlino – Le tredici baracche adibite a campo di lavoro furono dimenticate per anni. Oggi diventano un memoriale – Il complesso di Treptow-Koepenick fu fatto costruire da Speer e utilizzato dalle SS

dal nostro corrispondente Andrea Tarquini

 

Berlino - Erano più di quattrocento, gli italiani rinchiusi nelle baracche nel sudest operaio di Berlino. Soldati del Regio esercito, sospetti resistenti, giovani catturati per caso nelle retate. Lavorarono in condizioni bestiali come schiavi del Reich, molti non tornarono vivi. Da oggi la Germania li onora con un nuovo museo: le tredici baracche dell' «Italienerlager» a Treptow-Koepenick sono divenute memoriale e centro di documentazione. Fanno parte della «Topografia del terrore", il complesso di mostre, monumenti e luoghi della memoria costruito dopo la riunificazione per non dimenticare l'orrore nazista. «In tutta la Germania non esiste alcun altro luogo commemorativo come questo», dice Christine Glauning, responsabile del progetto. Le tredici baracche di Treptow-Koepenick, l'enorme, verde quartiere operaio dei tempi del Kaiser e di Weimar, sono semi nascoste. Qui furono rinchiusi 2.160 deportati da ogni parte dell'Europa occupata. Almeno 435 erano gli italiani. Fotocopie di documenti ricordano destini individuali: Bruno Ratti di Tregnago, in provincia di Verona, Vittorio Corsi di Roma, Emilio Manfredi di Combio, vicino Lodi, sono solo alcuni dei nomi degli italiani che finirono qui come schiavi di Hitler. La tragedia è una pagina della Seconda guerra mondiale. L'8 settembre, l'Italia governata dai Savoia e dal Maresciallo Badoglio si arrese alle democrazie occidentali. E divenne cobelligerante, con Usa, Regno Unito, Urss, paesi del Commonwealth, Francia libera, forze polacche, e partigiani di tutta Europa, contro i nazisti che occupavano mezzo Stivale. Per Hitler l'ex alleato divenne «uno spregevole traditore da punire come un cane». Decine e decine di migliaia di soldati italiani furono usati come schiavi nell'industria. Malnutriti, senza cure mediche, percossi. Sul loro indennizzo, la controversia è ancora aperta. Le tredici baracche costruite dall'ufficio di Albert Speer, l'architetto del Fuehrer, sorgono a Berlino est. La Ddr, la dittatura comunista, semplicemente dimenticò quel luogo. Eppure, nella capitale, in moti quartieri le SS gestivano almeno una trentina di mini Lager “della porta accanto”. Destinati a centri di raccolta per gli ebrei da inviare poi alle camere a gas di Auschwitz. Oppure a prigionieri: soldati italiani, partigiani francesi o polacchi, civili est europei tra cui donne e bambini polacchi e sovietici. Durante la guerra fredda, alcune baracche ospitavano un centro di vaccinazione della Ddr. In altre sorgono ancora oggi negozi e officine. Col museo, torna a Berlino una memoria di drammi italiani. Gli ultimi soldati ita­liani catturati dal Reich furono fucilati in città pochi giorni prima della capitolazione nazista, quando già i cannoni del Maresciallo Zhukov sparavano sulla capitale e i bombardieri la attaccavano a volo radente. Al cimitero di Zehlendorf, il delizioso quartiere borghese dell'Ovest, davanti alle loro tombe si celebra ogni anno il 4 novembre, la festa delle Forze armate.

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I “mini-lager” – Una trentina, solo a Berlino: erano usati per ammassare gli ebrei da mandare ad Auschwitz, o come campi di prigionia

13 baracche – Nel complesso di Treptow-Koepnick vennero rinchiusi 2.160 deportati da ogni parte dell’Europa occupata

Gli italiani – Di quei 2.160 prigionieri, 435 erano italiani: per questo il complesso fu ribattezzato “Italienelager”

Dopo il ’43 – Complessivamente, gli italiani che dopo l’8 settembre del ’43 finirono schiavi del Terzo Reich furono decine di migliaia


Caccia ai souvenir nazisti sui resti della corazzata di Hitler

Uruguay, polemiche attorno al recupero della Graf Spee. Fu auto-affondata nel 1939 per sfuggire agli inglesi – L’ex gioiello della marina tedesca ora giace sui fondali davanti a Montevideo – Il consorzio di recupero vuole mettere all’asta i pezzi rinvenuti, ma gli acquirenti fanno paura

Larry Rother

 

Montevideo - Per oltre sessanta anni, il relitto affondato della Graf Spee ha riposato indisturbato a venti metri di profondità, nelle acque limacciose appena fuori dalla baia di Montevideo. Ma ora che è in corso il recupero di alcuni frammenti dell'imbarcazione, un tempo orgoglio della flotta nazista, è scoppiata una nuova battaglia sulla proprietà di quei resti e su che cosa farne. Il consorzio di aziende private che ha provveduto al recupero vuole mettere all'asta i pezzi recuperati, dividendo gli introiti in parti uguali con lo Stato, come prescrive la legge. Ma il governo uruguayano, temendo che un'asta possa consentire a gruppi neonazisti di entrare in possesso dei manufatti, minaccia di revocare l'autorizzazione concessa al consorzio e di assumere in prima persona il controllo delle operazioni di recupero. «Ci sono limiti etici riguardo alla promozione di simboli nazisti nei musei. E chi sono i potenziali acquirenti di questi simboli se non dei neonazisti?», dice Miguel Esmoris, direttore della Commissione nazionale del patrimonio culturale, un ente pubblico. I primi oggetti recuperati nel 2004, un cannone e un telemetro, non hanno suscitato grandi clamori, tranne quando il telemetro è stato utilizzato in una sfilata di moda. Ma a scatenare le polemiche è stato il recupero, a febbraio, dell'imponente fregio di coda della nave, un'aquila di tre metri appollaiata su una svastica, e l'annuncio della volontà di metterla in vendita. Operativa dal 1936, la Graf Spee era la più letale di una serie di corazzate sviluppate dalla Germania nazista. Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, la nave si dedicò ad affondare imbarcazioni da trasporto alleate nell'Atlantico meridionale, fino a quando fu individuata da un gruppo di navi da guerra guidato dai britannici, all'imboccatura del Rio de la Plata, nel dicembre 1939. Nella battaglia che ne seguì rimasero uccisi 113 componenti dell'equipaggio. Il capitano della Graf Spee portò la nave al sicuro nella baia di Montevideo, un porto neutrale, ma quando gli fu ordinato di andarsene, preferì affondarla piuttosto che lasciare che la sua innovativa tecnologia cadesse in mani inglesi. Poco dopo, si tolse la vita. «Ho ricevuto e-mail da colleghi europei che dicono che i gruppi neonazisti del Vecchio Continente sono molto interessati ad acquistare l'aquila», dice Roberto Bracco, archeologo marino uruguayano, che ha preso parte ad altri progetti ed è critico verso il consorzio di imprese che si sta occupando del recu­pero della Graf Spee. «Questo dimo­stra che il passato, in particolare il passato recente, va maneggiato con attenzione, e che è necessario coinvolgere la Germania, la Gran Bretagna e la comunità ebraica nella decisione su cosa fare di questi reperti». Alfredo Etchegaray, che guida il consorzio di imprese impegnate nel recupero della nave, obietta che tutti i potenziali partecipanti all'asta verrebbero esaminati scrupolosamente, e che per rispetto alla popolazione ebraica, l'insegna, al momento custodita in un magazzino a Montevideo, è stata coperta in modo da non rendere visibile la svastica. I leader della comunità ebraica locale hanno applaudito queste misure, ma affermano di non essere ancora del tutto tranquilli. Etchegaray spera di usare i guadagni ricavati dalla vendita dell'aquila per continuare le operazioni di recupero della Graf Spee e per finanziare altri progetti. «Tutto que­sto ci interessa semplicemente in quanto storia - conclude - non per schierarci da una parte o dall'altra, La storia è piena di crimini orribili, che devono essere gestiti con maturità, serietà e rispetto»

(Copyright The New York Times­ - la Repubblica. Traduzione di Fabio Galimberti)

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Il varo – Avviene il 30 giugno 1934. La Nave diventa operativa il 6 gennaio 1936 e fino all’anno successivo è impegnata nella guerra civile spagnola

Gli attacchi – Con lo scoppio della seconda guerra mondiale la Graf Spee è in missione nell’atlantico meridionale e riceve l’ordine di affondare le navi alleate

La fine – Danneggiata in battaglia, cerca rifugio nel porto di Montevideo. Il 17 dicembre 1939 il capitan decide di affondare la nave per non consegnarla ai nemici

Una regina dei mari – Dopo la prima guerra mondiale la Germania aveva il divieto di costruire navi da guerra troppo pesanti. Nacque così la Graf Spee, con motori diesel che garantivano velocità, pur mantenendo una notevole potenza di fuoco. La nave era stata costruita con tecnologie d’avanguardia secondo il motto: “più veloce dei nemici più potenti e più potente di quelli più veloci”.

Il libro –  La fuga del Führer - Adolf Hitler non si sarebbe suicidato il 30 aprile 1945 nel suo bunker di Berlino, ma avrebbe cercato rifugio in Argentina. A proporre l’ennesima ipotesi sulla fine del Führer è il giornalista Abel Basti nel suo nuovo libro “Hitler in Argentina”. L’autore assicura di avere le prove che la fuga sia avvenuta con tre sottomarini arrivati fino in Patagonia.

la Repubblica, 26 agosto 2006

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