la Repubblica

L’unico podestà ebreo

La biografia di Remo Ravenna tra fascismo e leggi razziali – Integerrimo avvocato civilista fu amico del quadrunviro Italo Balbo e amministrò Ferrara in modo ineccepibile – Nel 1943 riparò in Svizzera mentre tre suoi fratelli cedevano vittime dello sterminio nazista

Nello Ajello

 

«Non ha profittato della sua carica? Che fesso!», esclamò quasi incredulo Italo Balbo. Quell'epiteto, il quadrumviro fascista lo rivolse con ruvido affetto ad un suo amico ebreo, a nome Renzo Ravenna. Era il marzo del 1938. Ravenna, integerrimo avvocato civilista, dopo essere stato per dodici anni podestà di Ferrara – il primo, e per lungo tempo l'unico israelita che durante il regime rivestisse un simile incarico - s'era appena dimesso, costretto al suo gesto dalla campagna razziale (e poi lo stesso Ravenna sarebbe stato associato all'atroce persecuzione riservata ai suoi correligionari). Ferrara era, allora, insieme a Roma o a Trieste, una «piccola-grande capitale dell'ebraismo italiano». Ma non fu questa circostanza a rendere possibile ciò che - soprattutto oggi - appare un'anomalia, quanto, appunto, l'amicizia fra due personaggi: l'irrefrenabile e popolarissimo ras littorio di Ferrara e il distinto e sobrio e professionista, assai stimato in città, che egli in pieno fascismo aiutò ad assumere, benché ebreo, la massima carica in Comune. Ad illustrare una simile anomalia, carica di un significato che va al di là del pur interessante episodio, provvede un saggio appena uscito da Laterza, firmato da Ilaria Pavan, ricercatrice in discipline storiche alla Normale di Pisa, e intitolato Il podestà ebreo, con un sottotitolo esauriente: «La storia di Renzo Ravenna tra fascismo e leggi razziali» (pagg. 300, euro 18). Fascista tiepido, con un passato di interventista e di combattente decorato, fin dall'infanzia Ravenna aveva professato, nei riguardi di Balbo, una calda, amichevole devozione. E, al riparo dell'autorità di quest'ultimo - indiscussa, almeno sul posto - aveva assolto la sua funzione amministrativa in modi che molti consideravano ineccepibili, sacrificandole anche la cura d'uno studio legale ben avviato. In tema di fede, il podestà era lontano dalla stret­ta ortodossia. Tendeva cioè a considerare il credo confessio­nale alla stregua d'un fatto pri­vato. Proveniente da una famiglia, di commercianti, con un nonno rabbino, s'ispirava a un motto eloquente: «Ebrei in casa e cittadini fuori». I precedenti patriottici lo spingevano a sentirsi un «integrato» a pieno titolo, profondamente italiano: consuetudine del resto non sorprendente all'epoca, specie nei ranghi del ceto medio israelitico. Come dimostrerà alcuni decenni più tardi Renzo De Felice in un'opera dedicata agli ebrei sotto Mussolini, a suggerirne l'adesione abbastanza ampia al regime contribuivano «da un lato il carattere classista del fascismo delle “origini” e dall’altro il carattere spiccatamente borghese dell'ebraismo italiano». Città in larga prevalenza agricola, come sottolineava la natura stessa del fascismo locale e delle lotte che esso condusse, e strettamente legata al Balbo squadrista - indiziato fra l'altro nel ’23 dell'uccisione di don Giovanni Minzoni, il parroco di Argenta - Ferrara venne dunque amministrata dal prestigioso avvocato, fra il '26 e il fatale ‘38. E nell'ufficio podestarile prevalse uno spirito moderato e legalitario, attento soprattutto alla rivendicazione del mito estense con tutto ciò che esso implicava in materia urbanistica. Non a caso, infatti, la postuma identificazione tra fascismo e governo estense si collocava all'apice della propaganda del «gruppo balbiano»,di cui il Ravenna era parte autorevole. Ciò - osserva l'autrice - suggeriva probabilmente alla minoranza semita del luogo una concomi­tanza gradevole, o quanto meno rassicurante: «quanto gli Este si erano dimostrati tolleranti e aperti nei confronti degli ebrei, così il fascismo, che di quella tradizione si proponeva come diretto successore, lo sarebbe stato». A questa interpretazione morbida dei rapporti fra fascisti e minoranza religiosa contribuì, fino all'epilogo, anche quel comportamento duplice che, perfino quando cominciò a profilarsi la catastrofe, le autorità cattoliche assunsero nei riguardi del Podestà ebreo, sottolineando in pubblico le ragioni della «diversità» e perfino dell’apartheid e professando verso di lui, nel privato, una cordialità che sconfinava nell'amicizia. Gli eventi assunsero purtroppo una piega assai diversa. La delusione impregna il racconto di Ilaria Pavan. Le detta le pagine più drammatiche. Ne domina l'epilogo. Ciò che almeno sotto il rispetto amministrativo era la singolarità ferrarese sarebbe stata infranta dai comportamenti più generali cui la cronaca politica conduceva l'Italia in materia razziale, a somiglianza dell'alleato tedesco. Balbo o non Balbo, il percorso era quello, obbligato, perentorio, senza possibile scampo. L'ipotesi di una Ferrara vissuta come un'«enclave» di tolleranza somigliava troppo a un'ingenuità. Va comunque ribadito che questa ingenuità - non insolita a quel tempo negli umori di tanti ebrei italiani verso il regime nel suo complesso - trovava sul posto ulteriori attenuanti. Che Italo Balbo, l'impetuoso ras ferrarese, fosse un fascista sui generis era una convinzione invalsa. I gerarchi più autorevoli erano concordi nel segnalarne, condannandolo l’anticonformismo. Il suo nemico Galeazzo Ciano, per esempio, non gli risparmiava nulla, come si rileva spigolando qua e là fra le pagine del celebre diario. Lo definiva «acido e infido». Ne rilevava l’ostilità antitedesca. Ne sottolineava di volta in volta l'avversione alla «politica dell'Asse», la pervicacia nell'osteggiare la guerra, gli atteggiamenti antirazzisti (consistenti non soltanto nel difendere gli ebrei ma perfino nel richiedere la concessione della cittadinanza italiana agli arabi, abitanti delle colonie). Denunziava, infine, la sua temerità nel definire Mussolini «il prodotto della sifilide», fino ad acuire, nel dittatore la tentazione - per fortuna rimasta tale - di «metterlo al muro». Se la protezione offerta da Balbo ad amici come Renzo Ravenna non costituiva un riparo sufficiente per sottrarlo ai rigori antisemiti, va anche esplorato un deprimente rovescio della medaglia: occorre cioè, chiedersi se la vicinanza a Balbo non abbia addirittura nuociuto al podestà di Ferrara. Lo fa l'autrice di questo libro supponendo che, attraverso lui, s'intendesse soprattutto infliggere una stoccata al suo amico, mitico «trasvolatore degli Oceani» e governatore della Libia. È difficile trovare una risposta. Una biografia così minuziosa dello storico podestà di Ferrara trova d'altronde una ragione più generale proprio nei risvolti che le sono connaturati: da una parte la tardiva consapevolezza che molti ebrei nostrani ebbero di che cosa fosse davvero il fascismo - con quel singolare valore di shock che per loro assunse la campagna antisemita, sul quale s'intratterrà Delio Cantimori nella prefazione al citato saggio di De Felice - e, dall'altra, il ritratto, intravisto di scorcio, di quel fascista problematico per definizione che fu Italo Balbo. II quale, nel libro, è assai più d'un comprimario: anzi, è proprio intorno alla sua figura, almeno fino morte che lo colse nell'estate del ‘40 nel cielo di Tobruk, che si avvolge l'intreccio. L'epilogo del volume coincide con lo svanire d'un sogno troppo a lungo protratto. La fuga in Svizzera del protagonista, nel 1943, lo sterminio di tre suoi fratelli e delle loro famiglie, il disinganno del ritorno a Ferrara con quei processi per «faziosità e malcostume fascista» e per «profitti di regime» che così poco somigliano al comportamento di un moderato e di un galantuomo - un galantuomo «malgrado tutto» - sono il suggello d'una storia molto italiana. Esemplare, patetica, a suo modo romanzesca.

la Repubblica, 4 luglio 2006

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