La Domenica di Repubblica

  l’inchiesta - Vittime dimenticate

 

 Storie italiane sepolte negli archivi dei lager

 

Il soldato arrestato nel luglio ’44 e finito a Buchenwald. Il panettiere triestino spedito a Dachau. L’artigiano trentenne deportato a Mauthausen. Il comunista inviato anch’egli a Buchenwald. Sono quattro dei circa 900mila dossier di nostri connazionali nel mare di fascicoli custoditi dalla Croce Rossa a Bad Arolsen, che la Germania ha deciso di aprire. Siamo andati a scoprirli - Le meticolose carte naziste documentano l’orrore: le esecuzioni di centinaia di prigionieri per festeggiar e il compleanno di Hitler; le collezioni di pelle umana tatuata

 Andrea Tarquini

 

Bad Arolsen - Un impiegato statale, arruolato nel Regio Esercito, fu arrestato a Villa Vicentina il 21 luglio 1944 e finì a Buchenwald. Un panettiere triestino cadde nelle mani dei nazisti il 2 marzo 1943 ad Albona e fu spedito a Dachau. Un milanese classe 1914 fu acciuffato a Verona il 13 marzo 1944 e deportato a Mauthausen. Un comunista fuggito in Francia fu sorpreso a Marsiglia e inviato a Buchenwald anche lui. Quattro piccole storie, quattro drammi italiani nell’inferno del Gulag hitleriano. Quattro storie italiane che riemergono adesso dagli archivi centrali del terrore, custoditi dalla Croce rossa qui nella placida Bad Arolsen. Siamo venuti a scorrerli, a ripercorrere il cammino doloroso della Memoria tra le carte ingiallite dal tempo. Grosse Allee numero 5 è l’indirizzo, il più bel viale alberato prussiano nella cittadina termale dell’Assia del Nord. L’idillio nel verde custodisce terribili ricordi. «I dossier sugli internati militari italiani e sugli altri deportati provenienti dal vostro Paese sono tanti, tantissimi», mi dice il gentilissimo Udo Jost, del servizio internazionale della Croce rossa, mentre mi accompagna tra palazzine intere adattate ad archivi. Un mare di fascicoli, cinquanta milioni di schedature per diciassette milioni di persone vittime dell’apparato repressivo nazista. Discrepanza che colpisce: per ogni nome ci sono spesso più trascrizioni e più fascicoli separati: atto d’arresto, registrazione nel primo campo di arrivo, eventuale certificato di lavoro, eventuale certificato di morte. «Stiamo correndo una corsa contro il tempo per digitalizzare tutto», dice Jost, «ci vorrebbe il doppio del personale, ma abbiamo già inserito nella memoria dei computer il 56 per cento dei dati, salvandoli così dall’usura della carta nel tempo». I nazisti erano meticolosi, fino all’isterismo, mi dice Jost. Questi dossier che la Croce rossa ereditò dopo la guerra, e che dal 1955 gestisce a Bad Arolsen, erano redatti a mano con pazienza da amanuensi. Avevano voglia di mostrare la superiorità della precisione ariana, documentare con freddezza l’orrore. E insieme erano mossi dalla paura. Paura che un qualsiasi sbaglio nelle schedature, se notato da un collega delatore o da un superiore, sarebbe costato loro la carriera, o peggio. L’archivio di Bad Arolsen è gestito dalla Germania, dalle potenze alleate vincitrici della Seconda guerra mondiale, da Benelux, Italia, Israele, Grecia e Polonia. Il governo di Angela Merkel ha deciso di dare il via all’accessibilità degli archivi del terrore anche per gli storici. Non più solo per i sopravvissuti o i loro familiari. Non possiamo citare nomi perché le norme internazionali di rispetto della privacy sono durissime, ma possiamo raccontare esempi di martirio quotidiano degli italiani e degli altri schiavi del Reich da tutta l’Europa occupata. Le schede sugli italiani sono circa novecentomila. Anch’esse di più del totale stimato degli internati militari italiani. Cioè gli oltre seicentomila soldati fedeli alla Corona, a Badoglio e alla Resistenza che dopo la caduta del fascismo scelsero la cobelligeranza con le democrazie occidentali e l’Urss contro l’ex alleato nazista. Ma i fascicoli delle Ss, della Gestapo, del Reichssicherheitshauptamt (Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, vertice e coordinamento supremo del terrore) riguardavano anche ebrei, prigionieri politici, civili arrestati per semplici sospetti, giovani abili deportati come schiavi dell’industria militare. «Le Ss erano precise come un’impresa», nota Jost, e sfoglia i calcoli dei pianificatori nazisti. «Per ogni forzato incassavano dalle aziende dai 4 ai 6 marchi del Reich al giorno. Calcolo presto fatto. Se la Krupp aveva bisogno di mille forzati per armare la Wehrmacht con i suoi cannoni, i forzati forniti dall’apparato repressivo nazista consentivano allo stesso incassi per 5.000 marchi al giorno. Non è finita: il calcolo della redditività era implacabile. Un forzato doveva restare in vita almeno nove mesi in media, per essere un “investimento” redditizio per le Ss e per l’Ufficio centrale nazista». Nell’ingranaggio spietato finì l’impiegato statale e soldato del Regio Esercito arrestato a Villa Vicentina. «Alto un metro e settantadue, snello, naso largo, orecchie piatte, un dente mancante, capelli biondo scuro», registrò l’ufficiale della Gestapo di Trieste che riempì il suo primo dossier. Finì a Buchenwald il 3 agosto 1944, «deportato per motivi politici», precisa la nota. Non si sa se ciò voglia dire cospirazione con la Resistenza o semplice appartenenza alle forze armate. «Sequestrati all’arresto un paio di scarpe, un paio di calzini, una giacca, un pantalone, due camicie, mutande, documenti e carte personali. Consegnati al detenuto a Buchenwald un berretto, un pantalone e una giacca (l’uniforme concentrazionaria, ndr), una camicia, un paio di zoccoli di legno». Il soldato di Badoglio era giovane e forte, fu trasferito da Buchenwald a Mittelbau-Dora, l’impianto segreto dove i deportati, lavorando in condizioni bestiali, costruivano i razzi V1 e V2 e le altre armi segrete con cui i nazisti sperarono invano di rovesciare le sorti d’una guerra già persa. Sopravvisse alla guerra e nel 1964, grazie all’archivio di Bad Arolsen, ebbe i documenti necessari per chiedere risarcimenti alle industrie. Molti di loro morirono di stenti, i più - dicono anche gli appunti e i ricordi degli italiani - speravano solo di arrivare da sopravvissuti alla fine di un giorno dopo l’altro. Ogni mattino l’ansia incerta ricominciava. La sopravvivenza o l’improvvisa condanna a morte, dice Jost con gli occhi bassi sui carteggi, dipendeva dal caso. O dall’umore dei carcerieri, o dalla loro natura. Ogni mattina, all’appello, poteva capitare di essere chiamati in venti - sorteggiati uno su tre, uno su cinque, uno su dieci per baracca - a disinnescare le bombe d’aereo angloamericane inesplose. La sera si tornava in baracca in cinque o sette al massimo. I rischi non finivano mai: la moglie del comandante Koch - quello restato famoso per le foto con cui documentò la costruzione di Sachsenhausen -quando il marito facendo carriera passò a Dachau, sviluppò un hobby singolare. Collezionava tatuaggi su pelle umana. Non il numero di matricola impresso a sangue sull’avambraccio del deportato: era troppo banale. No: collezionava ancore, sirene, navi, donne nude, paesaggi. Tatuaggi veri insomma, quelli che nella vita di “prima” i deportati avevano scelto di portare. Averne uno sulla pelle era la condanna a morte. Bastava che un soldato o un ufficiale Ss se ne accorgesse e facesse rapporto. Per Frau Koch era facile: ci pensavano le Ss a eliminare il detenuto interessante scrivendo poi nel rapporto di un tentativo di fuga. E toccava ai medici nazisti asportare, essiccare e conservare quel campione di pelle umana indegna di vita. Il panettiere di Trieste arrivò nell’inferno già nel marzo 1943. Fu arrestato dalla Sittenpolizei, la buoncostume nazista. Probabilmente per presunti “atti immorali” o “offesa della razza”: bastava un flirt con una tedesca. Finì a Dachau, si ammalò, fu liberato dai soldati americani. Nel 1963 ebbe da Bad Arolsen fascicoli che lo aiutarono a ricevere un certificato d’invalidità. «Si poteva sopravvivere per caso», nota Jost. Come quando un’ispezione selettiva per i pidocchi salvava i pochi prescelti dal conto di una decimazione. E restava poi quale prova del lavoro forzato svolto per le industrie tedesche. I grandi Konzern traevano guadagno anche loro, complici coscienti, dall’apparato nazista: sulla magra paga del forzato, che faceva risparmiare loro miliardi, erano calcolati anche i contributi cassa malattia e pensioni. Non a beneficio del deportato, ma da versare sul fondo per i gloriosi ariani, i soldati tedeschi al fronte. L’artigiano di Verona venne arrestato il 13 marzo ‘44 per atti immorali. Probabilmente, un amore con una tedesca, oppure qualche frase sgradita su Hitler in osteria. Finì a Mauthausen. Per risparmiare carta, il suo dossier fu scritto sul retro delle pagine di schedatura di un detenuto politico spagnolo morto nel 1941. Lavorò per la Steyr, fu liberato dalla US Army, ebbe nel 1964 documenti per fare causa ai suoi sfruttatori. Tutte le aziende tedesche sfruttarono i forzati, dice Jost. Le grandi e le piccole. Così come Stato, province, comuni, e persino le Chiese, nonostante le loro menti critiche finissero anche loro nei lager. Alla fine, nel fondo comune risarcimenti istituito pochi anni fa sotto il governo Schroeder, hanno pagato tutti per evitare il peggio. Risarcimenti, piccoli premi, pensioni integrative. Troppo poco per una vita rubata. Come quella del comunista arrestato a Marsiglia il 9 aprile 1943. Il Befehlshaber der Sicherheitspolizei (ufficiale comandante in campo della polizia di sicurezza) dispose il suo trasferimento immediato alla Gestapo di Parigi, e questa lo fece deportare a Buchenwald. Aveva una valigia con pantaloni, pullover, camicie, pantofole, 40 franchi, effetti personali. Tutto fu sequestrato, tutto venne consegnato al Deutsche Winterhilfe, il servizio per l’aiuto ai civili tedeschi in inverno. Anche il comunista di Marsiglia ebbe la fortuna di arrivare vivo al giorno in cui i GI americani entrarono a Buchenwald. Laggiù, narrano i dossier di Bad Arolsen, si poteva morire per caso. Specie il 20 aprile, compleanno di Hitler. Era vanto d’ogni comandante di lager far uccidere trecento prigionieri come regalo personale al Führer. Ecco il Totenbuch, il libro dei morti, di Buchenwald: «giustiziato», «giustiziato», «giustiziato»… Nome, data di nascita, ora dell’esecuzione: una ogni due minuti. Le donne ai lavori forzati, se concepivano figli, erano condannate all’aborto forzato. A meno che il padre fosse un arianissimo ufficiale tedesco. Il tempo scorre ma non cancella la Memoria, dice Jost sorridendo per la prima volta nel nostro lungo colloquio. «Io sono felice di ricevere qui ogni giorno studenti di scuole superiori tedesche. Li aiuto a ricordare, a capire. E sono felice anche d’un altro fenomeno. I sopravvissuti ci chiedevano di rado informazioni e aiuto, e ancor meno i loro figli: avevano fretta di ricominciare dimenticando. Ora i nipoti sono grandi, e chiedono: hanno voglia di sapere cosa fu quella grande tragedia vissuta dai nonni, che ai loro bambini non fu mai raccontata».

la Repubblica, 28 maggio 2006 

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