la Repubblica

Ratzinger tra la gente di Wojtyla

A Varsavia Benedetto XVI parla degli orrori di Auschwitz ma frena sulla tendenza al mea culpa del suo predecessore

"Riconoscere gli errori del passato ma senza ergerci a giudici”

Marco Politi

 

I primi luoghi che il percorso di Benedetto XVI lambisce, entrando in Varsavia, sono carichi di tragiche memorie. La vettura del Papa rallenta davanti al monumento agli Eroi del Ghetto, dove sta il rabbino capo Szudrich con trenta polacchi «giusti delle Nazioni». Poi è la volta del monumento ai deportati in Siberia e nell'Estremo Oriente. Infine Ratzinger incrocia il memoriale della rivolta antinazista di Varsavia. Ad Auschwitz, spiega ai giornalisti durante il volo, c'è da «imparare come è stato possibile che l'uomo sia caduto sotto la sua dignità, calpestando gli altri». La speranza - auspica - è che proprio da lì nascano un nuovo umanesimo e una nuova visione dell'uomo come immagine di Dio. Il viaggio polacco del pontefice tedesco comincia con un paradosso: atterra in un aeroporto militare e le sue prime parole sono rivolte al picchetto. «Fronte ai soldati!», esclama nel gergo militare polacco. Parla parecchio in polacco Benedetto XVI in questo suo viaggio, alternandolo alla lingua italiana. La folla è contenta. Non sono tantissimi quelli che si allineano lungo le strade del corteo papale. Ma simpatizzano per lui, sventolano bandierine e ogni tanto si sente qualche grido «Viva il Papa» o «Benedetto». Certo fa impressione la "papamobile" che attraversa la città in un silenzio quasi surreale, rotto ogni tanto da qualche applauso, confrontando il tumulto inarrestabile che esplose nel 1979 quando Karol Wojtyla tornò la prima volta in patria. Paragoni da non fare. Ma la fisicità  di Giovanni Paolo II - persino da malato - era così prepotente che a confronto Joseph Rat­zinger nella teca di cristallo della papamobile sembra un'icona appena ravvivata dalla mantellina rossa, orlata di ermellino. «Il nostro Papa era diverso», mormora più di un polacco. Dove, invece, Benedetto XVI appare in tutta la sua personalità è quando usa la testa e la parola. E succede nella cattedrale di San Giovanni, dove bacchetta il clero che si impiccia di «economia, edilizia o politica» - chiara allusione al clericalismo invadente di una fetta di sacerdoti polacchi che dopo la caduta del comunismo si sono autonominati autorità di tutto - e poi, d'improvviso, smonta la carica profetica (e sconvolgente) del grande mea culpa di Karol Wojtyla. Giovanni Paolo aveva avuto coraggio. Nel 2000 aveva chiesto perdono per le colpe dei figli della Chiesa, aveva fatto autocritica per gli errori e gli orrori commessi dalla Chiesa: dall’antisemitismo allo schiavismo, dalle guerre di religione all'Inquisizione, dal caso Galileo alla mancata attenzione al ruolo delle donne, dal sacco di Costantinopoli al massacro degli Ugonotti. Da Varsavia Ratzinger, che mai ha amato l'idea di un mea culpa fatto da un romano pontefice, frena e corregge: «Confessiamo i peccati individuali - ha esclamato in cattedrale tra gli applausi di vescovi e clero - ma conviene guardarsi dalla pretesa di impancarsi con arroganza a giudici delle generazioni precedenti, vissute in altri tempi, in altre circostanze. Occorre umiltà nel non negare i peccati del passato e tuttavia non indulgere a facili accuse in assenza di prove reali o ignorando le differenti precomprensioni di allora». Una vera requisitoria, pronunciata con tono freddo e impersonale. La Chiesa è santa, sottolinea, ma ci sono «uomini peccatori». Guai a immaginarsi solo una comunità - senza-peccato. Come  potrebbe la Chiesa escludere i peccatori vista la missione redentrice di Cristo? E comunque, alla confessione dei peccati va aggiunta secondo Sant’Agostino anche la lode per le opere buone. Convinto l’applauso del clero, che ha letto il monito in chiave polacca come esortazione a non essere troppo giustizialisti con le tonache che hanno collaborato da spie con il regime comunista. Una lista che si allunga. L'ultimo nome in vista è l'assistente ecclesiastico della prestigiosa rivista cattolica Wiez, Michal Czajkowski, su cui è emerso materiale compromettente relativo agli anni bui della repressione anti-Solidarnosc, quando era perseguitato don Popieluszko, poi massacrato da sgherri dei servizi.

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“Un Papa tedesco ad Auschwitz l'attesa di noi orfani di Karol”

L’intervista Parla Tadeusz Mazowiecki ex premier e amico di Giovanni Paolo II.

“La visita di sabato un momento storico”

dal nostro inviato Andrea Tarquini

 

Varsavia - «Secondo me le parole del Papa suonano come un monito contro l'arroganza oggi. Nella situazione polacca è un messaggio importantissimo». Tadeusz Mazowiecki, amico di Karol Wojtyla, poi nell'89 primo premier democratico nell'Impero sovietico che sarebbe poi crollato, commenta l'esordio di Benedetto XVI. Vediamo insieme la diretta tv nel miniappartamento d'un quartiere popolare, dove vive il padre della democrazia polacca.

Che impatto avrà questa visita mentre la destra nazionalpopulista strumentalizza la fede per demonizzare gli avversari?

«Le visite papali di Karol Wojtyla ebbero sempre un effetto positivo a lungo termine. Spero che lo stesso accada con papa Ratzinger».

Quali sono le sue prime impressioni?

«Positive. Ha ammonito contro l'arroganza aggressiva. È molto importante, in un momento in cui una grande aggressività delle opinioni segna la vita pubblica polacca».

Lei da premier costruì la democrazia e il rilancio economico. Non prova amarezza quando voi leader di allora venite diffamati come gente compromessa con il vecchio regime?

«Mi dà un profondo dolore non una questione personale, ma il fatto che la splendida vittoria di una lotta non violenta venga descritta come catastrofe. È una falsificazione».

Il conflitto divide la Chiesa. L'emittente filogovernativa Radio Maryja è accusata di antisemitismo. Il nuovo Papa saprà riportare chiarezza?

«Spero moltissimo che abbia un quadro preciso della situazione. Che gli riferiscano a dovere. Il Nunzio apostolico ha chiesto ai vescovi di prendere posizione. Ma qui ha ricevuto anche critiche. La Chiesa polacca è divisa, non so chi sia più forte».

Quanto è pericolosa Radio Maryja per la democrazia?

«Credo e spero chela democrazia qui abbia radici profonde. La società è molto più pluralista delle sue espressioni politiche. Ma il pericolo esiste. Non nel senso di scivolare verso una dittatura. Ma una democrazia può diventare intollerante. E alcune regole - l’indipendenza di Corte costituzionale e media - vanno rispettate».

Il potere strumentalizza la fede?

«Sono cristiano, non ho da ridire se premier e ministri fanno la comunione. Ma la fretta di farsi comunicare dal papa in diretta tv diventa propaganda. Il passato dovrebbe ricordarci che nello stile tutte le propagande si somigliano».

L'antisemitismo attribuito ai partiti alleati del premier è un problema?

«L'antisemitismo, purtroppo, è usato come strumento della lotta politica».

La Polonia orfana di Wojtyla come accoglie Ratzinger?

«Quando Giovanni Paolo II morì, provai il grandissimo timore di una disaffezione dei polacchi. Soprattutto con un papa tedesco. Invece è andata benissimo, è un miracolo. Lui, come i polacchi speravano, parla in polacco e cita il suo predecessore. Ma ha anche saputo dire che questo non è solo un pellegrinaggio sentimentale. Vuole trasmettere la sua visione sullo sforzo della Chiesa di essere presente nel mondo moderno. Più pessimistica, e forse più realista, di quella di Giovanni Paolo II».

Che significato avrà la visita del papa tedesco ad Auschwitz?

«Un significato grandissimo. Per la riconciliazione, per superare il passato. Vedremo cosa dirà, ma anche se tacesse resterebbe un fatto enorme».

L'Europa come deve comportarsi nel caso polacco?

«Essere nella Ue è un puntello per la democrazia polacca. La Polonia deve saper usare i vantaggi dell'Europa. E l'Europa deve ammonire contro tendenze antidemocratiche, se sono nei fatti e non solo nelle parole».

26 maggio 2006


Il caso Il Papa, gli ebrei e l'impero di Radio Maria

Il veleni di “Radio Maria” l’altra faccia della fede polacca

Per Ratzinger la sfida dell’emittente religiosa che guida il populismo reazionario

Gad Lerner

 

Oggi il vecchio Papa bavarese si sdoppierà. Avvertirà dentro di sé la presenza dell'adolescente Joseph che fu lui stesso, coscritto nella - Hitlerjugend. Insieme varcheranno il cancello di Auschwitz con l'umiltà del pellegrino giunto all’epicentro degli orrori novecenteschi. Dal primo maggio 2004 anche la Polonia democratica ha ottenuto il posto che le spetta nell'Unione dei popoli europei, e sarebbe dunque legittimo ora fare conto su di un'armonia ritrovata. Ma purtroppo il malessere e i veleni sprigionano da dove meno te l'aspetti. Benedetto XVI, teorico delle radici cristiane dell'Europa, si trova a fare i conti con i sottoprodotti più imbarazzanti di tale ricerca identitaria. Nel suo viaggio ha incontrato una Polonia cristiana tutt'altro che pacificata con la sua storia, più clericale che devota, talmente soggiogata dalla retorica tradizionalista da farci dubitare che vi abbiano lasciato traccia duratura le formidabili aperture di Karol Wojtyla e il cattolicesimo liberale dei fondatori di Solidarnosc. Qui siamo davvero nel cuore d'Europa, e in particolare di quell'Europa cristiana che tiene tanto in ansia papa Ratzinger. So­lo che è un cuore ferito. Afflitto da fobie che a ben vede­re si rivelano come uno specchio esasperato delle nostre medesime paure, diffuse a vasto raggio per il continente. Fobie a noi molto familiari: dal complottismo all'anticomunismo, dall'antiélitarismo al populismo, dal clericalismo all'ostilità antieuropea, dal disprezzo nei confronti degli omosessuali alla denigrazione dei codici del «politicamente corretto». Certo le condizioni economiche e le tragedie storiche della Polonia colorano tutto ciò di tinte più fosche. La destra cattolica enfatizza le «insidie esterne» (nemici storici come Russia, Germania, lobby ebraica, cui si sommano massoneria, banche e commissione europea). Ma soprattutto miete consensi col progetto della «decomunistizzazione» antiestablishment. In pratica mette sotto accusa buona parte della classe dirigente artefice di un quindicennio di faticosa transizione all'economia di mercato. I padri fondatori della democrazia polacca, a cominciare da Tadeusz Mazowiecki, vengono processati di volta in volta per collaborazionismo con lo straniero o per complicità con l'ancien régime comunista. L'offensiva inquisitoria ha coinvolto persino numerose diocesi, dove viene riesumato il fantasma dei sacerdotispia. Costringendo papa Ratzinger a una netta presa di distanze (che solo il narcisismo di Vittorio Messori ha potuto leggere come una critica a Giovanni Paolo II, «proprio in Polonia»). Dunque le assonanze con gli argomenti dei populisti di tutta Europa, e di casa nostra, si manifestano impressionanti. Ma decisiva in Polonia si evidenzia la frattura culturale interna alla Chiesa e al mondo cattolico. Il populismo reazionario polacco parla infatti con la voce di Radio Maria, non con lo slang della tivù commerciale. Guarda caso i leader della destra al governo, dagli omofobi gemelli Kaczynski all'antieuropeo Lepper all'antisemita Giertych, vengono comunemente definiti come politici «radiocomandati». Ovvio che costoro dovessero prendere le difese del padre redentorista Tadeusz Rydzyk, potentissimo direttore di Radio Maria, anche dopo il recente commissariamento dell'emittente, imposto dal Vaticano a una renitente Conferenza episcopale polacca. Senza la forza ideologica e militante (ma ormai anche finanziaria) di Radio Maria, è evidente, non ci sarebbe go­verno di destra in Polonia. E allora la deriva identitaria precipitata fino al punto di destare l'allarme del Papa, sollecita un interrogativo che riguarda pure la situazione italiana. Il fenomeno inquietante di Radio Maria - denunciata per il suo antisemitismo da Marek Edelman, l'ottantacinquenne eroe della rivolta del ghetto di Varsavia - scaturisce dalla crisi del cattolicesimo polacco: compresso per decenni dalla dittatura comunista, impossibilitato a vivere l'esperienza conciliare, penalizzato nelle sue componenti democratiche e liberali. Radio Maria nasce dall'implosione di Solidarnosc, cioè di uno straordinario movimento innovativo che aveva realizzato una fusione tra diverse identità popolari e intellettuali. Un movimento capace di sconfiggere il totalitarismo comunista nel nome della solidarietà, proponendosi come alternativa di progetto sociale nell'epoca dei Reagan e delle Thatcher. Con tutte le evidenti differenze, un modernissimo processo fusionale che precede e richiama nelle sue componenti l'aspirazione dell'Ulivo. Certo, tra i fondatori di Solidarnosc c'erano pure i tradizionalisti gemelli Kaczynsld che oggi guidano il rigurgito antieuropeo della Polonia. Ma la guida del movimento era condivisa fra i sindacalisti dei cantieri di Danzica, i teologi del cattolicesimo liberale riuniti intorno all'arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla, i dissidenti marxisti Kuron, Michnik, Mozelewski. La crisi del cattolicesimo liberale polacco, favorita dalle chiusure integraliste di una parte dell'episcopato, ha prodotto la frantumazione identitaria di oggi con tutte le pericolose tentazioni autoritarie che ne derivano. Il pericolo evocato dagli spettri del passato risorti nel cuore ferito dell'Europa, fino all'assurdo di un nuovo antisemitismo senza ebrei, chiarisce l'importanza della posta in gioco. Se il cattolicesimo liberale e democratico, sottoposto al fuoco incrociato di una durissima battaglia politica e culturale, non riuscirà a portare a compimento il suo incontro con le altre componenti riformiste - come invece è accaduto in Italia - gli effetti implosivi potrebbero rivelarsi devastanti nell'epoca dei nuovi populismi tradizionalisti. La modernizzazione della politica contempla una relazione strettissima con l'incontro delle culture e con l'apertura delle esperienze religiose. La Polonia è a noi più vicina di quanto non sembri.

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la polemica Sosta mancata nel Ghetto forti proteste a Varsavia

Il Pontefice atteso al memoriale. Il Vaticano: non era previsto

 

Cracovia - Arrivando a Varsavia, il Papa è passato senza fermarsi accanto al monumento che ricorda l'insurrezione degli ebrei del ghetto contro i nazisti. La polemica e il malumore sono esternate da organizzazioni ebraiche, alla vigilia della visita di Benedetto XVI ad Auschwitz. Il pontefice sarebbe stato atteso al monumento dall'ambasciatore israeliano. Ma anziché sostare, "Papamobile" e scorta hanno solo rallentato. Secondo il portavoce della Santa Sede, Joaquin Navarro Vals, era programmato che il corteo papale passasse accanto al memoriale del Ghetto, ma non che vi si fermasse. Sullo sfondo delle accuse di antisemitismo rivolte a esponenti della maggioranza di governo in Polonia, la preghiera che il Pontefice pronuncerà oggi ad Auschwitz diventa ancor più cruciale ed importante per il rapporto tra cristiani ed ebrei.(a. t)

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Il Papa: “Wojtyla presto santo”

La promessa alla sua Polonia. Navarro: tempi canonici.

dal nostro inviato Marco Politi

 

Cracovia - Un rombo di migliaia di voci corre tra gli abeti intorno al santuario di Kalvaria. Papa Ratzinger alza gli occhi e guarda verso gli uomini e le donne assiepati tra gli alberi, che gli gridano qualcosa, ritmando e martellando una sola frase. Il Papa fatica a capire, poi si illumina nel volto, allarga le braccia all'italiana come per dire «ma è troppo!». Perché da mille gole risuona un solo urlo: «Wir lieben Dich - Wir lieben Dich». Ti amiamo, ti amiamo. Proprio così. I polacchi riscoprono la lingua degli antichi nemici per gridare un messaggio d'affetto al successore di Wojtyla. E come se non bastasse, risuonano dalla foresta gli ottoni di una marcetta bavarese, accompagnata dal battere ritmato di migliaia di mani, nel più puro stile delle feste paesane tedesche. Sorpreso da questo inaspettato calore, Benedetto XVI (incoraggiato dolcemente dal cardinale Dziwisz) si lascia andare per la prima volta a improvvisare. Cosa fin qui impensabile nei rigidi binari delle sue apparizioni. «Anche io, come dice il caro cardinale Stanislao - proclama scatenando nuove ovazioni ­ spero che la Provvidenza ci conceda presto la beatificazione e canonizzazione di Giovanni Paolo II». Dunque Wojtyla santo presto. Anche se saranno seguite le tappe del procedimento ecclesiastico. Tutta la giornata di sabato è stata un pellegrinaggio di Ratzinger sui «luoghi cari» al suo predecessore. Di primo mattino ha celebrato messa nella sua cappella in arcivescovado, poi si è recato a Wadowice, sua città natale, ha pregato nella basilica dell'Immacolata dove Wojtyla è cresciuto come cristiano, ha visitato le stanze del suo appartamento, ha parlato agli uomini e donne della cittadina nella piazza del mercato, che l'adolescente Lolek (Karol) attraversava ogni giorno. «Chi vuole comprendere un poeta, dovrebbe recarsi nel suo paese», ha esclamato Ratzinger, citando il suo connazionale Goethe. Tra frenetici applausi il Papa ha mostrato alla folla un quadro raffigurante Wojtyla, scandendo forte: «Voglio rendere grazie a Dio per il pontificato di Giovanni Paolo II». Al cardinale Dzwisz, che gli ricordava che «tutto è cominciato qui», Benedetto XVI ha risposto esaltando la «coerenza di fede, il radicalismo della vita cristiana, il desiderio costante di santità», di Karol Wojtyla. Da Wadowice il pontefice è passato al santuario mariano di Kalvaria Zebrzydowska, dove Wojtyla pregava nei momenti più difficili, poi alla basilica della Divina Misericordia di Lagiewniki, fondata dalla mistica di suor Faustina Kowalska. E ancora, si è fermato in preghiera nella cattedrale del Wawel. Già venerdì sera, giungendo a Cracovia, aveva voluto vedere le stanze di Wojtyla in arcivescovado. Un viaggio del cuore. Navarro svela che Ratzinger, recandosi al capezzale di Wojtyla il giorno prima della morte, si inginocchiò e baciandogli la mano disse: «Santo Padre, come sono grato per quanto ho imparato in questi venticinque anni». Nel tardo pomeriggio sui campi Blonia di Cracovia il Papa è stato accolto da cinquecentomila giovani, che per lui hanno inventato il refrain: «Benedetto-Dio-ti-ha-benedetto» e urlato «Resta con noi». Ma lui non ha rinunciato ad un monito: «Più volte Gesù è ignorato, è deriso, è proclamato re del passato», però d'altra parte «non vi lasciate illudere da coloro che vogliono contrapporre Cristo alla Chiesa». Papa Ratzinger varcherà oggi i cancelli del lager di Auschwitz. «Non era nella bozza del programma del viaggio - confida il portavoce Navarro - ma il Papa ha detto "Non posso non andare ad Auschwitz"». Tra gli ex prigionieri il pontefice incontrerà personalmente anche Salomea Kanikula-Weclawik, deportata a quattordici anni e sottoposta dai medici nazisti ad esperimenti clinici, che la fanno soffrire ancora oggi. La visita rappresenta il punto culminante di questo pellegrinaggio, ma anche una specialissima prova per un pontefice tedesco. Compirà un gesto per esprimere la responsabilità della sua nazione nella macchina di sterminio che ha portato alla Shoa e al massacro di innumerevoli uomini e donne di tante nazionalità? Willy Brandt sentì il bisogno di inginocchiarsi a Varsavia. Benedetto XVI «verrà da figlio della Germania», anticipa Navarro. Si sa che pronuncerà una preghiera di pace in lingua tedesca.

28 maggio


 

Il Papa ad Auschwitz: “Dio, perché hai taciuto?”

Benedetto XVI: "Da tedesco dico: mai più l'orrore della Shoah". Critiche le comunità ebraiche: “Non parla delle responsabilità del suo popolo”

Quei silenzi di Ratzinger

Marco Politi

 

Dal cuore delle tenebre Benedetto XVI lancia la domanda lacerante: «Dov'era Dio ad Auschwitz? Perché ha taciuto?». Un interrogativo drammatico, che il pontefice tedesco affronta con la forza intellettuale e la finezza che gli sono proprie, avendo il coraggio di rivolgersi direttamente al Signore per chiedergli di non permettere mai più che si ripetano simili orrori. La barbarie di ieri serva da monito per impedire gli orrori di oggi, commessi dai nuovi corifei della violenza e dell'odio, perpetrati da chi abusa del nome divino per uccidere innocenti. La memoria di questo inimmaginabile cumulo di crimini contro Dio e contro l'uomo sia d'impegno per favorire pace e riconciliazione, sapendo che violenza genera solo violenza. Convincendosi che la vittoria è del perdono e del ravvedimen­to, non dell'odio. Benedetto XVI si è recato ad Auschwitz e Birkenau come figlio del popolo tedesco e confessa apertamente di sentirne tutto il peso. Per questo, dall'inferno dei lager, gli sale rafforzata e convinta l'invocazione alla pace e nel silenzio di Dio, acutamente, egli vede anche una sfida ai cuori degli uomini e delle donne perché nell'ora della prova non si lascino affondare nel fango dell'egoismo, della paura, dell'opportunismo. Ogni riga del discorso da lui pronunciato è soppesata e cesellata fino all'ultimo, al punto che lo stesso tipo di carta usato nelle copie distribuite dai giornalisti rivela che Joseph Ratzinger è stato a lavorare sul testo, quando già era partito da Roma. C'è un passaggio nel suo intervento, pronunciato dinanzi al Memoriale di tutte le vittime provenienti da ventidue nazioni, che assume un significato cruciale. «Noi non possiamo scrutare il segreto di Dio. Vediamo soltanto frammenti e ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia». E un pensiero tipico di Benedetto XVI. Ma se il mistero di Dio è tale per definizione per credenti e non credenti, non così per la Storia. È dai tempi di Tucidide che gli uomini giudicano fatti, omissioni, scritti e pensieri di chi ha partecipato in qualche modo alle vicende storiche. Si tratti del re o del semplice fantaccino. Alcune delle parole di Ratzinger ad Auschwitz - luogo simbolico dell'Olocausto, della barbarie nazista e di tutto ciò che si è fatto o non fatto per arrestare la follia di Hitler e del suo sistema - aprono interrogativi su cui vale la pena di riflettere. E anche alcuni dei suoi silenzi. Il Papa tedesco non parla mai di antisemitismo. Eppure è un veleno fluito attraverso secoli di storia. Negli anni Trenta il primate polacco. August Hlond (candidato alla beatificazione) proclamava: «Il problema ebraico resterà aperto finché ci saranno gli ebrei… Sono l’avanguardia dell’empietà, del bolscevismo, della sovversione». Si può dimenticarlo? Si può ignorare la virulenza dell’antisemitismo popolare diffuso in Germania e in Austria ben prima che l’imbianchino Hitler salisse al potere? E poi un altro interrogativo tira l’altro: fino a che punto Ratzinger può mettere tra parentesi l’antigiudaismo cristiano che ha nutrito l’odio antiebraico sfociato nella «soluzione finale » perseguita dal nazismo? Sarebbe sbagliato, con una persona di livello intellettuale come Benedetto XVI, semplificare il suo discorso. Ma proprio perché è un pensatore sottile, non guardare le sfumature dei suoi interventi o le sue omissioni sarebbe fargli torto. Fatto sta che la parola antisemitismo non c’è e l’unico accenno alla Shoah è stato inserito all’ultimo momento poche ore prima di andare ad Auschwitz. Fa problema anche la descrizione del popolo tedesco come fuorviato dal nazismo, manipolato da una banda di criminali, in ultima istanza ingannato. Lo si voglia o no, finirà per essere letto come una forma di deresponsabilizzazione. Nessuno pensa certo a colpe collettive, ma l’impressione è che l’intervento di Auschwitz rimuova mezzo secolo di riflessione autocritica in Germania e nella Chiesa sul ruolo e la responsabilità che ciascuno ha potuto avere nell’aprire la strada al sistema sfociato nella macchina di morte dei lager. «Abbiamo fatto abbastanza per impedire l'ascesa del nazismo? Abbiamo tollerato in qualche modo o favorito l'estendersi dell'antigiudaismo». Sono due delle domande cruciali che in Germania e nella Chiesa circolano da decenni. Non se ne trova traccia nel pellegrinaggio del pontefice tedesco ad Auschwitz. Poiché tutti conoscono la ferma posizione contro l'antisemitismo di Ratzinger e il suo profondo legame con l'ebraismo, porsi questi interrogativi è ancora più giustificato. È come se ci fossero blocchi di Storia che qualcuno nella gerarchia cattolica fatica a elaborare. Come se dinanzi alla radicalità dell'Olocausto ci fosse in certi strati ecclesiastici la tentazione di inserire il progetto nazista di liquidazione degli ebrei nel novero più ampio delle «altre persecuzioni», contro le vittime più diverse. Alla fine emerge la sensazione che la coraggiosa stagione wojtyliana degli atti di pentimento sia finita per davvero.

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L’analisi La Chiesa s'interroghi sul suo antisemitismo

Le scuse del Papa tedesco e quel silenzio sulla Chiesa

Ratzinger non affronta i rapporti tra Pio XII e il nazismo – Benedetto XVI ha scelto di portare sulle sue spalle il fardello delle colpe della Germania

Peter Schneider

 

Berlino - Vedendo qui da Berlino il Papa venuto dalla Germania andate ad Auschwitz, ascoltandolo pronunciare il suo discorso, credo si debba dire che nel complesso egli si sia mosso con dignità e modestia. Credo che non lo si debba e non lo si possa accusare di non aver detto molto; forse avrebbe potuto dire di più. Ma è quasi impossibile che di fronte ad un Papa tedesco ad Auschwitz non si levino voci pronte alla critica facile. Arrivando ad Auschwitz, il papa doveva evitare molte trappole. Soprattutto, aveva di fronte il dilemma, se presentarsi soprattutto come papa, o come tedesco. E se l'è cavata bene. Perché non ha ceduto a quella che sarebbe stata una facile tentazione: giungere ad Auschwitz e porre in rilievo in primo luogo il suo ruolo di capo della Chiesa cattolica. Ha saputo dire, al contrario, che riteneva di dover andare ad Auschwitz in quanto tedesco, non soltanto quale Pontefice. Davanti agli occhi del mondo, così, si presentato portando sulle spalle ben altro fardello di colpe di quello, - le pur pesanti colpe di Pio XII con i suoi silenzi - che avrebbe comunque portato se fosse venuto soltanto o soprattutto quale Papa. Per quei tedeschi e in generale per quegli europei che, come me, non si riconoscono in una fede religiosa, mi ha colpito e mi ha un po' sorpreso il fatto che egli abbia tanto parlato del silenzio di Dio. Che si sia, chiesto con tanta insistenza perché Dio non era là ad Auschwitz, allora. È una frase che, per i non credenti come me, non trova risposta. Oppure che potrebbe quasi farci pensare a una prova della non esistenza di Dio. Non voglio arrivare adesso a frettolose risposte da laico. Ma se ci si chiede, da credente, perché Dio non era ad Auschwitz, penso che per coerenza logica ci si dovrebbe allora anche chiedere perché non c'era la voce della Chiesa. Perché c'era il silenzio della Chiesa di papa Pio XII. E non è finita: interrogarsi con dolore sul silenzio di Dio ad Auschwitz potrebbe, a rigore, evocare anche il grande nodo dell'antisemitismo cattolico. La formulazione usata da Benedetto XVI, la sua descrizione di un crimine senza paralleli, pone invece la questione del fatale attaccamento dell'uomo al materialismo, della perdita della religione, del tentativo dei nazisti di distruggere ed annichilire la religione. Il concetto e il termine di antisemitismo invece, purtroppo, mancano dal suo discorso. Avrebbe potuto menzionare l'antisemitismo, e se l'avesse fatto allora avrebbe dovuto parlare per coerenza logica dell'antisemitismo della Chiesa. Certo, ci si può chiedere se fosse Auschwitz il luogo giusto per sollevare quel dolorosissimo, scomodo problema. E al tempo stesso, viene da chiedersi con non minore forza dove, se non proprio ad Auschwitz, si dovrebbe parlare dell'antisemitismo cattolico. Forse Benedetto XVI avrebbe potuto dire un po' di più su questo tema, ma il suo stesso predecessore Karol Wojtyla al fondo non lo ha fatto, e lui non ha voluto spingersi ad andare oltre Wojtyla. Tutta la sua visita in Polonia sembra essere una conferma che egli intende muoversi assolutamente sulle orme del papa di cui è l'erede. Nel complesso, l'intervento del Papa ad Auschwitz è stato degno e meritevole di molto apprezzamento. Credo che egli, con il suo discorso nel campo della morte, abbia tolto acqua al mulino di molti di coloro che sono contrari al Papa tedesco. Difficile dire, ora, per me che non sono uomo di Chiesa, che cosa questa giornata significhi per la Germania. Ratzinger in questo senso si è mostrato all'altezza del compito. Non si può paragonare il pellegrinaggio di Benedetto XVI ad Auschwitz all'inchino di Willy Brandt al Ghetto di Varsavia. Lo dico non solo perché quello di Brandt fu un gesto spontaneo e improvviso, o almeno Brandt riuscì a presentarlo così. Ma anche e soprattutto perché quello di Brandt fu un gesto irripetibile. Non si poteva chiedere proprio al papa di replicare un gesto irripetibile. Per la Germania e per i tedeschi di oggi questa visita significa forse un'emancipazione dal ruolo del "popolo colpevole". O diciamo una pausa. Il Papa non rappresenta la Germania, ma la Chiesa. Ma al stesso tempo questo Papa e un tedesco. Parlare di emancipazione dal ruolo dell'accusato non vuol dire cancellare le colpe dei colpevoli. Dal ruolo dell'eterno accusato si può affrancare chi vive e cresce oggi, ma le colpe delle generazioni che compirono quei crimini restano e resteranno. E resta la differenza tra la colpa e la responsabilità. Anche i tedeschi certamente non colpevoli, nati e cresciuti dopo la guerra, hanno e avranno il dovere della Memoria. Da dopo l'Olocausto, ogni tedesco che nasce e cresce deve fare i conti con quel passato. A differenza an­che di generazioni di appena pochi anni più giovani, come,ad esempio quella di Helmut Kohl, la generazione del Papa venuto dalla Germania non ­ebbe la fortuna che l'ex cancelliere definì "die Gnade des spaeten Geburt", la grazia di essere nati troppo tardi per essere adulti o quasi adulti sotto Hitler e in guerra.

(testo raccolto da Andrea Tarquini)

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il caso Intervista del presidente iraniano Ahmadinejad allo Spiegel

“La Germania è prigioniera delle bugie dell’Olocausto”

 

Berlino - Nella giornata in cui il papa tedesco Benedetto XVI ha ricordato oggi al mondo nell'ex campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau gli orrori del nazismo e del genocidio degli ebrei, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad - in una lunga intervista al settimanale Der Spiegel - è tornato a mettere in dubbio l'Olocausto invitando al tempo stesso i tede­schi a non essere più prigionieri del loro senso di colpa. «Basta. Perchè oggi il popolo tedesco dev'essere umiliato per il fat­to che nel corso della storia vi è stato un gruppo di persone che hanno commesso crimi­ni in nome dei tedeschi?», ha detto Ahmadinejad nell'intervista anticipata dallo Spiegel. Ribattendo all'osservazione dell'intervistatore, se­condo il quale «Vi è una forma di vergogna collettiva per tutto quello che i nostri padri e nonni hanno compiuto in nome dei tedeschi», il leader iraniano ha poi detto: «Come può una persona che a quel tempo non esisteva affatto essere responsabile giuridicamente. Perchè al popolo tedesco dev'essere attribuita così tanta responsabilità? Il popolo tedesco oggi non ha alcuna colpa, è prigioniero dell'Olocausto». A più riprese Ahmadinejad ha messo in dubbio l'Olocausto da lui definito «un mito e una leggenda». E ha contestato il diritto all'esistenza di Israele, paese che a suo avviso andrebbe cancellato dalla carta geografica. «La mia visione è molto chiara - ha detto il presidente iraniano – se l'Olocausto c'è stato, allora l'Europa deve trarne le conseguenze e non dev'essere la Palestina a pagarne il prezzo. Se l'Olocausto invece non c'è stato allora gli ebrei devono ritornare nelle terre da cui traggono le loro origini».

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l'intervista ­ Parla il rabbino aggredito dagli estremisti venerdì a Varsavia

“In Polonia oggi si rischia una deriva antisemita”

dal nostro inviato Andrea Tarquini

 

Auschwitz-Birkenau ­«Sì, sono io il rabbino Michael Schudrich, quello aggredito dal giovane estremista. È potuto accadere perché il partito del capo dello Stato si è alleato al governo con partiti in cui alcune persone esprimono apertamente idee antisemite. Ma in un mondo in cui accadono queste cose, il Papa ha detto cose giuste. E il suo discorso più importante è stata la sua presenza ad Auschwitz». Il leader della comunità ebraica polacca è positivo verso Benedetto XVI ma lancia moniti sul futuro della Polonia.

Che significa l'aggressione contro di lei, proprio mentre il Papa è in Polonia?

«L'aggressione significa solo che se si lascia entrare al governo forze estremiste, alcuni dei cui leader sono aperta­mente antisemiti, allora i giovani estremisti, gli uomini di mano, si sentono legittimati e hanno voglia di agire».

Il governo che ha accolto il Papa è antisemita?

«Legge e giustizia, il partito del presidente e del premier, non è antisemita. Ma per garantirsi la governabilità ha stretto un'alleanza con forze che hanno antisemiti nei loro ranghi. Ecco il risultato: violenza. È un prodotto delle scelte del governo, ed è una situazione che pone al governo una sfida».

Quanto è pericoloso l'antisemitismo nella Polonia visitata dal Papa?

«Diciamo che grazie a Dio comunque vivo in Polonia e non in Francia».

Teme per il futuro?

«In Polonia siamo entrati in un nuovo periodo. Ma io non ho paura. Ho paura piuttosto per il futuro della Polonia, non per gli ebrei. La battaglia contro l'antisemitismo è una battaglia per il futuro del paese»

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Auschwitz, il grido di Ratzinger “Dio, perché hai permesso questo?”

Ma il Papa tedesco salva la Germania. “Fu usata da criminali”- Benedetto XVI nel lager nazista: “Per me è difficile essere qui” – Nel discorso non ha usato la parola “antisemitismo”

dal nostro inviato Marco Politi

 

Auschwitz - Il viso assorto, segnato da un'ombra di smarrimento, Joseph Ratzinger varca a piedi il cancello dell'inferno. Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi), mentiva la scritta. Invece era la porta verso lo sterminio e l'annullamento della dignità umana. Ratzinger, le mani giunte, passa tra i fili spinati di Auschwitz. Le baracche hanno l'aspetto anonimo come allora. Il Muro della Morte si erge livido. Poco distante è lo stanzone scuro del forno crematorio, che il Papa non visita. Più di un milione di ebrei, centocinquantamila polacchi, ventitremila rom, quindicimila sovietici sono diventati cenere nella fornace. Tedeschi erano i capi, i soldati, i medici con i loro esperimenti indicibili sui deportati, tedesca la lingua degli ordini urlati. Era un dovere di fronte a Dio e a quanti hanno sofferto - dirà poco dopo -«essere qui come successore di Giovanni Paolo II e figlio del popolo tedesco». Trovarsi in questo luogo di orrore, di «accumulo di crimini contro Dio e contro l'uomo, che non ha confronti nella storia - confessa papa Ratzinger - è particolarmente difficile ed opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania». È il luogo della memoria, è il «luogo della Shoah». Dinanzi al Muro della Morte il Papa prega in silenzio, poi china profondamente il capo mentre il vento gli agita le vesti, e offre una fiamma votiva. Tra le pareti di mattoni la figura di Ratzinger appare schiacciata. Di colpo è scomparsa l'atmosfera festante del mattino, quando ha celebrato messa al Campo di Cracovia tra le ovazioni di oltre un milione di persone. Nel cortile lo attende in fila una schiera di deportati. Il pontefice scende nella cella della morte di Massimiliano Kolbe. Una tana di pietra, dove gridare era inutile e i condannati stavano accovacciati come bestie. A fior di labbra il pontefice mormora: «Preghiamo per Massimiliano e i martiri tutti». «Oremus» risponde il seguito, cui si è unito il presidente polacco Kaczynski. Nel lager, ammette Benedetto XVI, «vengono meno le parole, resta solo uno sbigottito silenzio». E dal silenzio prorompe il grido del Papa tedesco: «Perché Signore hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?». Joseph Ratzinger china il capo. «Ci inchiniamo profondamente nel nostro intimo davanti all'innumerevole schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte». Al Monumento per le vittime dei 22 popoli il pontefice ascolta turbato il canto del Kaddish, pianto del popolo ebraico. Lui stesso rivolge una preghiera al «Signore della pace», in tedesco. Chiede che «chi vive in concordia, si mantenga nella pace» e «quanti sono in conflitto, si riconcilino nuovamente». Parlando in mezzo al campo di Birkenau Benedetto XVI fa di più. Chiede a Dio di non permettere mai più una cosa simile. «Sono qui - dichiara - per implorare la grazia della riconciliazione da Dio e dagli uomini che qui hanno sofferto». La grande domanda «Dov'era Dio in quei giorni?» sia pungolo per l'oggi e il domani. Il grido di angoscia di Israele sofferente, sottolinea il Papa, è il grido di muto di quanti ieri, oggi e domani, soffrono per amore di Dio e per amore della verità e del bene. Anche oggi emergono «forze oscure»: l'abuso del nome di Dio per giustificare la violenza cieca contro gli innocenti e il cinismo che non conosce Dio e schernisce la fede. Nuove minacce, insiste, nascono dalla ragione staccata da Dio. Nuove vittime soffrono «sotto il potere dell'odio e la violenza fomentata dall'odio». Ratzinger invoca: «La violenza non crea pace, ma suscita altra violenza». E la riflessione sul silenzio di Dio arrivi a tutti, perché «i nostri cuori non siano soffocati dal fango dell'egoismo, della paura, dell'indifferenza e dell'opportunismo». Dinanzi alle lapidi dei popoli perseguitati Benedetto XVI passa in rassegna le vittime esemplari. Gli Ebrei, che i capi criminali del Terzo Reich volevano «schiacciare nella totalità»: annientare il popolo di Abramo per uccidere il Dio del Sinai e strappare così anche la radice della fede cristiana. I Polacchi, sei milioni periti nel conflitto, programmati per diventare «popolo di schiavi». I Rom, destinati a «scomparire» come materia inutile. I soldati russi, innu­merevoli vite sacrificate per combattere il terrore nazista, ma usate per una missione ambivalente: «liberando i popoli da una dittatura, li sottomettevano alla dittatura di Stalin e dell'ideologia comunista». I tedeschi (oppositori del nazismo) , testimoni di un «bene che anche nel nostro popolo non era tramontato»: Ratzinger li ringrazia poiché «non si sono sottomessi al potere del male» ed evoca Edith Stein, ebrea e cristiana, che accettò di morire con il suo popolo. Un passaggio nel suo discorso desta l'attenzione degli ascoltatori. È quando parla della nazione tedesca «su cui un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di recupero dell'onore della nazione, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell'intimidazione cosicché il nostro popolo poté essere usato e abusato come strumento della loro smania di distruzione e dominio». Sembra un velo steso su milioni di connivenze, pavidità, acquiescenze ed errori (anche nella Chiesa), che hanno spianato la strada al nazismo. Non risuona mai nel suo discorso la parola antisemitismo. Il Papa scava, invece, nel mistero del silenzio. del Dio, che può apparire tolleranza davanti al trionfo del male. Inutile cercare di svelare questo segreto. «Sbagliamo – esorta - se vogliamo farci giudici di Dio e della storia». Restano, quando Benedetto XVI si lascia alle spalle i forni crematori, le parole dell'Antigone di Sofocle da lui pronunciate: «Sono qui non per odiare insieme, ma per amare insieme». Di colpo dopo la pioggia spunta sul lager un arcobaleno.

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Parla Claudio Morpurgo, presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane: “Il problema non è solo dov'era Dio, ma dove erano gli uomini”

“Un' analisi riduttiva del nazismo, non fu solo opera di Hitler e dei suoi”

Alessia Gallione

 

Dice che quella del Papa ad Auschwitz era una vista molto attesa dagli ebrei italiani. Ma Claudio Morpurgo, il presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, si definisce «perplesso»: «Per il futuro è preoccupante la riduzione della responsabilità del popolo tedesco rispetto al nazismo. Sarebbe stato importante attribuire un'accezione più complessiva al silenzio dell'uomo per costruire un domani in cui certe pagine non possano più ripetersi».

Morpurgo, come giudica il discorso del Papa?

«Ne colgo il valore simbolico. Un Papa tedesco che varca i cancelli di Auschwitz dà un segnale importante, che trova riferimenti nell'idea di riconciliazione proprio nel luogo della Shoah. Forti sono anche i passi sull'importanza della memoria e sul richiamo a come con l'uccisione di Israele in realtà si voleva uccidere Dio. Ma...»

Ma?

«Mi pare riduttiva l'analisi sui nazismo. La Shoah non è stata solo il prodotto dell'opera di Hitler e dei suoi accoliti».

Si aspettava una condanna più dura?

«Quella del Papa è un'analisi parziale e lacunosa. Il rischio è ridurre la responsabilità del popolo tedesco e di tutti quelli che hanno agito nel nome dell'ideologia antisemita. E la stessa portata della Shoah, che sono anche le leggi razziali, un processo che ha avuto dei leader, ma anche tanti acquiescenti spettatori. C'è un altro punto, poi, che mi ha colpito».

Quale?

«li silenzio di Dio è un tema conosciuto alla teologia ebraica, ma per noi il problema non è tanto dov'era Dio, ma dov' erano gli uomini. Da Auschwitz è nata la nuova Europa e sarebbe importante leggere questa visita anche come un impegno a costruire una vera società multiculturale».

Cosa rappresenta questa visita per il cammino di riconciliazione?

«Il problema non è fare passi avanti o indietro quanto compierli autenticamente tutti insieme. Da parte dell'ebraismo italiano c'è la volontà di capire».

Per il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, il Pa­pa «non ha colto la centralità di Auschwitz come simbolo del martirio ebraico».

«Siamo rimasti colpiti dalla mancanza di riferimenti specifici all'antisemitismo. Forse, il pontefice avrebbe dovuto soffermarsi con più chiarezza sul carattere particolare della Shoah. Edith Stein è una martire, ma presenta una storia di convertita al cristianesimo che non può descrivere puntualmente il dramma dello sterminio degli ebrei».

Crede che esista un nuovo pericolo antisemita?

«Questa visita dovrebbe essere interpretata come una condanna del rinascente antisemitismo. In Polonia c'è un antisemitismo senza ebrei, alla base del dibattito culturale e politico. Basti pensare a Radio Maria o a esponenti di governo che a fini politici utilizzano slogan antisemiti. In Italia? Bandiere di Israele bruciate, cimiteri violati: sono le punte di un iceberg, che mostra una pericolosa rinascita dell'antisemitismo che, spesso, viene dissimulata sotto le vesti dell'antisionismo».

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il personaggio L'ex leader di Solidarnosc

Lech Walesa “A noi polacchi è piaciuto”

 

Auschwitz - La Polonia divisa dalle tensioni politiche ha avuto da Benedetto XVI messaggi giusti al momento giusto, anche se i polacchi soffrono ancora per la morte del suo predecessore. Ce lo dice al telefono Lech Walesa, il fondatore di Solidarnosc.

Come leader della svolta e come simbolo dei polacchi come ha vissuto la visita dell'erede di Giovanni Paolo II?

«Mi è piaciuto molto che il Papa abbia fatto un pellegrinaggio tutto sulle orme del suo predecessore. Ne sottolinea la grandezza. Per questo è piaciuto a tutti».

Solo un messaggio di memoria, di ricordo di Karol Wojtyla?

«No, non solo in un pellegrinaggio sentimentale. Benedetto ha voluto dirci che nei nostri tempi bisogna essere più attivi nella ricerca dei Valori. Credo che questo messaggio sia giunto alla Polonia nel momento giusto, e proprio per questo piace alla gente».

La visita ha avuto un ruolo anche nella complessa situazione politica, con le accuse dei nazionalisti contro i padri della rivoluzione democratica, anche contro lei stesso?

«Guardi, la situazione italiana è ancora più complessa. Pensi alla riluttanza del vostro ex premier ad accettare la sconfitta...». (a.t.)

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l’intervista Marek Edelman, il partigiano ebreo che guidò l'insurrezione:

“Allora Pio XII taceva, oggi un discorso forte”

L'eroe del ghetto di Varsavia “Ha scelto le parole giuste”

dal nostro inviato Andrea Tarquini

 

Auschwitz - «È stato un discorso di grande forza, sentimentale ed emotiva. il Papa è venuto ad Auschwitz, e là sulla terra ancora bagnata dal sangue dei morti ha detto che Dio allora non era là. Che cosa doveva dire di più? Quando io affrontavo i nazisti in armi al Ghetto di Varsavia, a Rama Pio XII taceva. E oggi vedo il Papa tedesca svegliare le  emozioni ad Auschwitz». Marek Edelman, il vecchio partigiano ebraico che guidò i l'eroica insurrezione del Ghetto di Varsavia contro la Wehrmacht, non condivide le critiche al discorso di Benedetto XVI. Non vuole avallarle.

Come le sono apparse le parole del Pontefice? Non ritiene che avrebbe potuto o dovuto dire qualcosa di più?

«lo mi pongo l'interrogativo, ma rispondo can una domanda: Cos'altro poteva dire? La massima voce dei cattolici ha detto che Dia non era là. Questo è più che abbastanza. Ed è stato, con una scelta giusta, un discorso carico di sentimenti e di emozioni; con un omaggio a tutti i morti».

Non le sembra che parlare così estesamente di tutti i morti apra il rischio di minimizzare l’unicità della tragedia dell'Olocausto subito dal popolo ebraico?

«No, io proprio pensando all'unicità dell'Olocausto dico che è giusto parlare anche degli altri morti, ricordare tutti gli esseri umani assassinati là allora insieme agli ebrei. Tutte vittime innocenti dell'orrore nazista».

Il Papa però ha detto che allora in Germania il potere era caduto in mano a una banda di criminali. Non c'è il pericolo in tal modo di minimizzare responsabilità e colpe dei tedeschi?

«Difficile interpretare ogni parola. Però, certo, tutto fa pensare, da tempo, che il popolo tedesco sapesse. E che nella sua stragrande maggioranza era molto felice sotto Hitler. D'altra parte è anche verissimo: il potere era in mano a una banda di criminali. Ma bisogna aggiungere che migliaia e migliaia di persone aiutarono i criminali».

Perché papa Ratzinger non ha parlato della Shoah come male assoluto?

«Al tempo. Ha usato il termine Shoah. E comunque ha detto che Auschwitz fu il Male. Che ad Auschwitz Dio non c'era e fu violato, come fu violato l'uomo. Anche in questo senso non doveva dire di più. Evocare sentimenti ed emozioni è l'essenziale, è la scelta giusta, ad Auschwitz è per tenere vivo Auschwitz nella memoria del mondo. Lo ha fatto poi, con la sua presenza, scegliendo di andarvi».

Perché è il Papa venuto dalla Germania?

«Ai miei occhi, Benedetto XVI ad Auschwitz non è un tedesco, è il papa, è il capo della Chiesa. È anche un tedesco, certo. Lo ha ricordato egli stesso, dicendo implicitamente a suo modo che è giusto guardarlo in quel momen­to e in quel luogo come un figlio della Germania. È importante. Insisto: queste scelte, e il discorso, sono una eccezionale sequenza di emozioni per la Memoria di oggi».

È un passo sufficiente per il dialogo ebrei-cristiani ed ebrei­ tedeschi o no?

«Vedremo se avrà un grande ruolo o invece no. Comunque lui ha getto più volte, questa domenica e in tutti questi giorni che il dialogo è irrinunciabile».

Ma ad Auschwitz non ha usato la parola "antisemitismo".

«Auschwitz non è stato solo l'antisemitismo. È stato il genocidio; L'assenza silenziosa di ogni idea di un Dio, appunto. Ricordiamoci a raffronto il momento terribile del silenzio di Pio XII. Da allora, da papa Giovanni in poi, con Wojtyla, ora anche con Ratzinger, la Chiesa ha saputo capire e mostrare di aver capito».

Poche ore prima, il rabbino capo di Polonia veniva aggredito in strada Varsavia. Quanto è pericoloso l'antisemitismo oggi?

«Sono gruppi aggressivi, ma piccoli. Non bisogna lasciarsi spaventare. Bisogna rispondere loro fermi, ma calmi. lo sono certo che non hanno l'ap­poggio della società: non sono al potere come Hitler e non ispirano felicità e voglia di obbedienza. L' antisemitismo è uno strumento politico usato da circoli nazionalisti. Nemici non solo degli ebrei, ma della Polonia e dell'Europa, dell'idea moderna di mondo civile. Sono certo che cambierà, andrà bene».

Che effetto avrà la visita del Pa­pa ad Auschwitz sul teso clima, polacco, con rigurgiti antisemiti, nazionalisti, antieuropei?

«Credo che in Polonia dopo la visita del Papa più gente saprà capire. La Polonia resta divisa, la Chiesa resterà magari divisa. Ma adesso la Chiesa e i cattolici sono chiamati più di ieri a scegliere, a schierarsi col Papa tedesco venuto ad Auschwitz a evocare le emozioni e i sentimenti».

29 maggio


La Shoah e le colpe dei tedeschi

Lucio Caracciolo

 

Nel marzo 1990 Margaret Thatcher convocò nella sua residenza di campagna a Chequers un distinto cenacolo di storici della Germania. L'augusta compagnia, di cui facevano parte i pesi massimi dell'accademia inglese e americana - da Hugh Trevor-Roper a Norman Stone, da Gordon Craig a Fritzstern e a Timothy Garton Ash - doveva rispondere alle pressanti domande che tormentavano il primo ministro britannico: "Chi sono i tedeschi?", "I tedeschi sono cambiati?". "Una Germania unificata aspirerà a dominare l'Europa dell'Est?". Il timore della "signora di ferro" come dei molti germanofobi in Gran Bretagna e altrove, era che la Germania ormai avviata un'unificazione fosse condannata a ripetere prima o poi errori e orrori del passato. Perché, come scriverà più tardi, "per sua stessa natura la Germania  rappresenta una forza destabilizzante in Europa". Il verdetto dei germanisti sembrò confermare la profonda convinzione della signora Thatcher circa l'esistenza di un eterno "carattere nazionale" tedesco. Infatti, secondo quanto riportato dalla stampa britannica, gli studiosi evocarono alcuni tratti "che costituiscono un aspetto immutabile del carattere tedesco. In ordine alfabetico, aggressività, angst, brutalità, complesso di inferiorità, egotismo, tracotanza, sentimentalismo". Questo determinismo. germanofobico - tuttora assai diffuso in Gran Bretagna e in diversi paesi europei, sotto la spessa crosta (del geopoliticamente corretto - torna alla mente di fronte alle polemiche suscitate dal discorso di papa Benedetto XVI nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Papa Ratzinger si è professato "figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di ricupero dell'onore della nazione (...), cosicché il nostro popolo poté essere usato ed abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio". E più avanti aggiunge: "Ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia". Per insistere sulla necessità della “riconciliazione” fra i popoli. Se queste parole intendono respingere l'accusa tipicamente germanofobica di una colpa collettiva dei tedeschi nella Shoah, che addirittura potrebbe riverberarsi sui tedeschi di oggi, esse hanno un fondamento e una spiegazione. Non si possono mettere stillo stesso piano i nazisti e i loro concittadini che furono incarcerati o uccisi dal regime. Tantomeno si può indulgere alla teoria nemmeno troppo sottilmente razzistica che estende a tutti i tedeschi, da Federico il Grande ai nostri contemporanei, un "carattere nazionale" perverso e soprattutto "immutabile". La colpa collettiva è estranea alla nostra civiltà giuridica. Quando dopo Waterloo si tentò di accusare i francesi in quanto tali dei “crimini” di Napoleone, fu lo stesso Congresso di Vienna (1815) a respingere la tesi. Gli stessi alleati si guardarono bene dall'utilizzare tale categoria contro i criminali nazisti. Il tribunale di Norimberga nel processo contro I. G. Farben stabili quanto segue: "È impensabile che la maggior parte dei tedeschi sia maledetta per aver compiuto crimini contro la pace. Questo equivarrebbe a sancire il concetto di colpa collettiva, da cui deriverebbe per conseguenza la punizione di massa, per la quale non vi sono precedenti nel diritto internazionale (...)". Presa alla lettera, la "piccola frase" di Benedetto XVI si basa però su un falso storico: e cioè che il nazionalsocialismo fosse opera di una cricca criminale che "usò e abusò" dei tedeschi. Tutti ricordano - o dovrebbero ricordare - come Hitler giunse al potere e quanto diffusa e fanatica fosse fino all'ultimo minuto la devozione popolare per il Führer. Ciò che rende tanto più degni di ammirazione quegli eroi tedeschi­comunisti, socialdemocratici, liberali, democratici cristiani ma anche schietti conservatori - che non si piegarono, anzi combatterono da isolati e clandestini la loro battaglia in difesa dell'onore della Germania e della sua libertà. Non solo Edith Stein, ebrea tedesca di religione cristiana, vittima della furia nazista, cui si è riferito il papa. Tuttora oggetto di controversie storiografiche è la questione circa il grado di consapevolezza e quindi di corresponsabilità morale dei tedeschi nello sterminio degli ebrei (ma anche degli zingari, degli omosessuali e di tutta l'umanità "inferiore" contro cui si accanirono i più o meno volenterosi carnefici di Hitler). Alcune analisi recenti mettono in luce come la conoscenza della Shoah fosse più diffusa di quanto si credesse inizialmente e di quanto molti tedeschi volessero ammettere persino a guerra perduta, anche di fronte alla visibile documentazione dell'orrore. Tanto che durante gli ul­timi mesi di guerra girava in Germania la voce che i bombardamenti aerei sulle città tedesche fossero una rappresaglia per Auschwitz (non lo erano). Né d'altronde si poteva dubitare del programma razzistico, visceralmente antisemita, proclamato a tutto tondo da Hitler - ad esempio nel discorso radiofonico del 30 gennaio 1939 in cui prometteva di liquidare una volta per sempre la questione ebraica in Europa. Il papa non è uno storico. È  un supremo testimone di fede. Ma quando esprime giudizi storici - come ha fatto ad Auschwitz - le sue parole vanno pesate per tali. Specie se poi lo stesso Benedetto XVI ci invita paradossalmente a non giudicare. Quasi che la riconciliazione e il perdono, che giustamente gli stanno a cuore, possano basarsi su altro che sulla consapevolezza critica del passato. Forse ad Auschwitz il papa aveva in animo soprattutto la riconciliazione germano-polacca. Il clima politico fra Varsavia e Berlino, aizzato dalle componenti xenofobe dell'attuale governo polacco e dagli integralisti di Radio Maryja, potrebbe spiegare questa intenzione papale. Infatti il suo discorso è stato accolto con favore dalla stampa polacca (meno da alcuni giornali tedeschi, che si aspettavano un mea culpa o meglio un nostra culpa). Che esso possa costituire anche un contributo al dialogo fra cattolici ed ebrei, fra Vaticano e Israele, questo è molto improbabile. La storia giudicherà.

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"Dal Papa una lezione per i tedeschi"

Fa discutere la "assoluzione" del popolo colpevole solo di aver lasciato prendere il potere ai nazisti in Germania - Consensi e polemiche sulle parole del pontefice ad Auschwitz

dal nostro corrispondente (a. t.)

 

Berlino - Molti giornali tedeschi, all'indomani della visita di Benedetto XVI in Polonia e soprattutto ad Auschwitz, parlano di momento storico e di gesto importante. Ma non mancano critiche al disagio per il silenzio decennale del Vaticano sul terrore nazista. Critiche e rilievi più frequenti sulla stampa di altri paesi, che però invita ad apprezzare il carattere comunque storico del pellegrinaggio nel campo della morte. Per Bild, il quotidiano popolare che è il media cartaceo più letto in Germania, l'immagine del piccolo, fragile papa tedesco che entra sotto il portone di Auschwitz con la scritta Arbeit macht frei è un evento storico, un momento indimenticabile nella storia dell'umanità». Ma secondo la più famosa testata del gruppo Springer, il gesto del Papa deve insegnare e ricordare ai tedeschi di oggi a che cosa porta il regno della violenza e spingerli a fare di tutto per la pace e per la riconciliazione. La Frankfurter Allgemeine sottolinea nel suo titolo di apertura della prima pagina che «Benedetto XVI ha pregato ad Auschwitz per la grazia della riconciliazione». L'autorevole quotidiano liberalconservatore di Francoforte pone in rilievo che il papa si è presentato come «figlio del popolo tedesco» e pubblica all'interno il testo integrale del suo discorso nel campo di sterminio nazista. La stessa scelta è stata fatta da Die Welt, quotidiano conservatore di qualità del gruppo Springer. La Sueddeutsche Zeitung, quotidiano liberal della ricca Monaco (la capitale della Baviera da cui viene il Pontefice) pubblica sotto la testata la foto a colori di Benedetto XVI che varca il cancello di Auschwitz e titola «Un tedesco chiede perdono». La Sueddeutsche pone in rilievo anche il ruolo del Papa nel difficile rapporto tedesco-polacco: egli, nota, ha raggiunto il cuore dei polacchi. Il Tagesspiegel, di Berlino, titola «Rompighiaccio Benedetto» e dedica molta attenzione proprio al ruolo positivo del viaggio del papa per un miglioramento delle non facili relazioni bilaterali tra la Polonia e la Repubblica federale. Una nota decisamente critica si coglie sulla Berliner Zeitung Giberal di Berlino Est), secondo cui il papa ha parlato del silenzio di Dio ma non del silenzio delle persone, e chi si aspettava da lui scuse è rimasto deluso. Un altro quotidiano dell'ex ddr, le Dresdner neue Nachrichten, critica il fatto che «il Vaticano provi tuttora imbarazzo a parlare dei suoi silenzi sotto il terrore nazista» e osserva che per questo molti si attendevano delle scuse. Il giornale cristiano belga. La Croix nota che Benedetto XVI è stato comunque «molto più esplicito di Wojtyla» nella condanna dei crimini contro il popolo ebraico. Toni molto critici in Spagna: secondo El Mundo, il papa «esenta il popolo tedesco dalla sua responsabilità nel nazismo». Ed El Paìs nota come «Ratzinger ha avuto parole di comprensione per i suoi compatrioti colpevoli solo di aver permesso l'arrivo di Hitler al potere». Sobrio ma severo Le Monde: critica l'approccio più filosofico che storico del papa verso l'Olocausto e definisce inaccettabile per ogni ricerca storica la tesi che il nazismo sia stato solo opera di una banda di criminali.

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“Bel discorso con una frase di troppo quella sul gruppo di criminali”

Per il filosofo tedesco Habermas l’intervento del Papa ad Auschwitz è stato perfetto tranne che in un passaggio

dal nostro corrispondente Andrea Tarquini

 

Berlino - Peccato che un discorso così meditato, chiaro e profondo sia stato reso irriconoscibile da una singola frase. Una frase di troppo, quella sul «gruppo di criminali». Ecco, riassunte nella sostanza, le risposte di Juergen Habermas a Repubblica sulle parole pronunciate ad Auschwitz da papa Benedetto XVI.

Quale è stata la sua prima reazione?

«Domenica sera, quando ho appreso dalla televisione che il papa aveva parlato ad Auschwitz quale "figlio del popolo tedesco", mi sono commosso. Era la risposta giusta a una difficile situazione. In quel Luogo della Colpa e dell'orrore senza pari, il capo di una chiesa la quale rivendica un­ ruolo universale non poteva nascondere la persona di Josef Rat­zinger e il particolare della sua origine tedesca dietro l'istituzione del Papa e del Papato. Specialmente in momenti di questo tipo non è concesso cancellare con un tratto di penna la propria identità nazionale».

È arrivato subito al suo giudizio per la frase di troppo?

«Dopo le prime notizie ascoltate in tv, ero predisposto positivamente alla lettura del discorso, l'indomani mattina. E in realtà, in ognuna di quelle righe ben ponderate e formulate con precisione, incontriamo non solo il teologo, ma anche l'uomo Ratzinger. È  un testo privo di ridondanze nonostante la sua lunghezza, e privo anche di punti deboli. L'autore non si sottrae alla questione di Giobbe - la questione dei deicidio, che il suo collega Johann Baptist Merz ha posto al centro del discorso su Dio riferendosi ad Auschwitz. E non fornisce una risposta frettolosa: dice "il nostro grido levato verso Dio deve essere allo stesso tempo un grido nel nostro cuore"».

Ma veniamo alla frase di troppo. Quel giudizio, secondo cui “gruppo di criminali” avrebbe assunto il potere abusando il popolo tedesco, le suona come una assoluzione della Germania e dei vasti consensi a Hitler?

«Mi colpisce quella frase, che è una frase di troppo. Vi si parla di un "gruppo di criminali" che avrebbe trasformato il popolo tedesco "in strumento della sua rabbiosa voglia di distruzione e dominio". Forse Joseph Ratzinger ha derivato e fatto sua questa visione del periodo nazista dall'ambiente familiare, dall’onesta famiglia cattolica dei suoi genitori. Ma lo stesso Willy Brandt, in una occasione analoga, non esitò a inginocchiarsi, in quanto figlio del suo popolo. Dopo la guerra proprio la nostra generazione deve porsi la domanda, come sia stato possibile che un regime criminale fin dai suoi primi giorni si appoggiasse su un così ampio consenso della popolazione. Dopo sei anni di ricerca storica, questa domanda comincia appena a porsi con chiarezza».

Dunque è deluso dal discorso?

«E'un peccato, che un discorso così ponderato e riflettuto, tanto chiaro quanto profondo, sia stato reso irriconoscibile da una singola frase. Certo, ogni frase si presta a molteplici interpretazioni. Probabilmente si trova anche per questa frase un'interpretazione innocua. Ma per decenni, frasi dal contenuto simile hanno nutrito un'apologetica menzognera nella retorica pubblica nel nostro paese. In quanto tedesco, Ratzinger lo sa. Naturalmente io non gli attribuisco una simile intenzione. E tanto più incomprensibile mi è allora perché, in un luogo che non tollera nessun malinteso, egli non abbia evitato una frase così suscettibile di creare malintesi».

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il caso - La stampa di Israele: "Bene ma poteva fare di più"

 

Gerusalemme - La stampa israeliana ha dato una valutazione positiva del discorso del Papa a Auschwitz. Haaretz ha scelto di titolare: «Non potevo non venire qui», sul Maariv il rabbino Rosen ha osservato: «Il Papa ha detto che è per lui difficile come tedesco e cristiano essere in questo posto (Auschwitz. Per lui è una frase molto grande, meno per noi». Ostile invece Yedioth Aharonoth: «Non ha chiesto perdono e non si è inginocchiato davanti ai forni crematori, non ha chiesto perdono a nome della Germania o della Chiesa tedesca».

30 maggio


Ratzinger: "Mai più antisemitismo"

Il Papa si corregge sulla Shoah e ricorda: ”Sterminati 6 milioni di ebrei” – In Vaticano voci di un possibile vertice con il patriarca Alessio II di Russia entro il 2007 – La frase “Non dimentichi l’odierna umanità Auschwitz, dove il regime nazista ha tentato di eliminare Dio! Non ceda alla tentazione dell’odio razziale, all’origine delle peggiori forme di antisemitismo”

Marco Politi

 

Città del Vaticano – Papa Ratzinger fa l'errata corrige al suo discorso pronunciato ad Auschwitz, dove non aveva mai menzionato la parola «antisemitismo», suscitando irritazione negli ambienti ebraici, disagio in settori del cattolicesimo interrogativi nel mondo laico. Durante l'udienza generale il pontefice ha ricordato che «nel campo di Auschwitz-Birkenau, come in altri simili campi, Hitler fece sterminare oltre sei milioni di ebrei». Confermando implicitamente la centralità di Auschwitz nel programma nazista di cancellazione del popolo ebraico, Benedetto XVI ha aggiunto che nel lager morirono «anche circa 150.000 polacchi e decine di migliaia di uomini e donne di altre nazionalità».  «Domenica ad Auschwitz, invece, il Papa aveva citato Giovanni Paolo II mettendo l'accento sui sei milioni di polacchi uccisi durante la guerra (ma gli era stato fatto notare da parte ebraica che ben tre milioni erano ebrei). Ieri Benedetto XVI ha esclamato: «Non dimentichi l'odierna umanità Auschwitz e le altre "fabbriche di morte" nelle quali il regime nazista ha tentato di eliminare Dio per prendere il suo posto! Non ceda alla tentazione dell'odio razziale, che è all’origine delle peggiori forme di antisemitismo! Tornino gli uomini a riconoscere che Dio è Padre di tutti e tutti ci chiama in Cristo a costruire insieme un mondo di giustizia, di verità e di pace!». Il pontefice ha concluso con un'appassionata esortazione: «Tutti i cristiani devono sentirsi impegnati a rendere testimonianza per evitare che l'umanità del terzo millennio possa conoscere ancora orrori simili a quelli tragicamente evocati dal campo di sterminio di Auschwitz- Birkenau». La correzione di rotta di Ratzinger rende ancora più incomprensibili le ragioni per cui nel lager ha evitato di menzionare l'antisemitismo e ha inserito la parola Shoah solo all'ultimo momento. Fra i motivi ha certamente giocato l'atteggiamento dell’episcopato polacco, che in vista del viaggio papale in Polonia non deve avere sensibilizzato il pontefice sull'urgenza di condannare l'antisemitismo di ieri e di oggi. Ma Josef Ratzinger non aveva bisogno di essere allertato. Nel 1998 - quando lui era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede - Giovanni Paolo II aveva firmato un documento sulla Shoah, definendola una «macchia indelebile»del XX secolo e deplorando «errori e colpe dei figli della Chiesa». Lo stesso Wojtyla nel 2000 aveva pronunciato un solenne mea culpa a proposito del peccato di antisemitismo. La correzione di rotta dimostra che Benedetto XVI è attento all'opinione pubblica e non ha seguito l'atteggiamento dei media ufficiali cattolici, che hanno reagito con sufficienza alle critiche. Senza l'integrazione di ieri papa Ratzinger rischiava di riportare tutta la questione indietro di mezzo secolo. Pochi giorni prima della sua morte Giovanni XXIII aveva composto, infatti, una preghiera in cui, precorrendo di quarant'anni Wojtyla, affermava rivolto a Dio: «Perdonaci per la maledizione che abbiamo ingiustamente attribuita al loro nome di Ebrei. Perdonaci per averTi una seconda volta crocifisso in essi, nella loro carne, perché non sapevamo quello che facevamo». Ieri, inaugurando la nuova libreria Dehoniana accanto al Vaticano, il cardinale Kasper ha sottolineato che «non esiste una responsabilità collettiva del popolo tedesco sullo sterminio degli ebrei, ma non esiste nemmeno una assoluzione collettiva». Benedetto XVI guarda ora avanti. A novembre incontrerà a Istanbul il patriarca ecumenico Bartolomeo I e voci insistenti dal Vaticano indicano che entro il 2007 vi sarà finalmente il vertice con il patriarca Alessio II di tutte le Russie.

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Antisemitismo: Ieri il Papa ha usato esplicitamente questa parola: non lo aveva fatto nel suo discorso ad Auschwitz

Vittime ebree: Benedetto XVI ha ricordato i sei milioni di ebrei sterminati durante la Shoah: la cifra non era stata fatta in Polonia.

I Polacchi: Ieri è stato specificato che ne morirono 150mila ad Auschwitz: cifra inferiore a quella delle vittime ebree.

I Tedeschi: Nessun riferimento alla responsabilità dei tedeschi, altro punto contestato del discorso tenuto ad Auschwitz

Il futuro: Il Papa ha sottolineato il valore della testimonianza per evitare nel futuro il ripetersi di orrori simili alla Shoah

la Repubblica, 1 giugno 2006

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