la Repubblica
Omosessuali e camicie nere
I gay al confino nell’Italia fascista: un’inchiesta di Goretti e Giartosio
Il campione prescelto è la città di Catania teatro della repressione rievocata da due testimoni. Portati a San Domino, nelle isole Tremiti, i condannati sono isolati dai politici e sottoposti al dileggio. La pena massima prevista era di cinque anni ma non li fecero tutti. A parte qualche borghese si tratta in prevalenza di operai e artigiani
Nello Ajello
Catania, 20 gennaio 1939, anno XVII Era fascista. Un esposto, a firma del Regio Questore, viene inviato al Prefetto. «La piaga della pederastia in questo capoluogo», vi si legge, «tende ad aggravarsi e generalizzarsi perché giovani finora insospettati risultano presi da tale forma di degenerazione sessuale». La conclusione è drastica. «Ritengo pertanto indispensabile, nell'interesse del buon costume e della sanità della razza, intervenire con provvedimenti più energici perché il male venga aggredito e cauterizzato nei suoi focolai. A ciò soccorre il Confino di Polizia da adottarsi nei confronti dei più ostinati». Segue un elenco di soggetti da perseguire. Le procedure marciano spedite. In gennaio entrano in carcere, in attesa del confino, venti cittadini. Il loro numero salirà presto a quarantacinque. Interrogati, quasi tutti ammettono di essere «pederasti», dizione che domina nel linguaggio ufficiale, mentre quello confidenziale affonda nel dialetto siciliano: «arrusi». Scortati nelle "sale celtiche", vengono sottoposti ad accertamenti comprensibilmente intimi. Si esamina anche il sangue, nell'ipotesi che presenti un colore speciale. Fotografati con minuzia, gli arrestati si dimostrano tuttavia «persone comuni, non mostri». Questa difficile riconoscibilità fisiognomica non milita però a loro discolpa, così come il non essersi macchiati di specifici delitti non li sottrae alla pena. Anzi. Non essendo formulabile a loro carico un'accusa legalmente plausibile, essi non hanno diritto alla difesa: niente reati, insomma, niente avvocati. Per paradosso, il fatto che l'addebito che gli si muove è introvabile nei Codici, induce a considerarlo più grave d'ogni altro: un certo Rosario - noto come «Sara 'a Turca», e varie volte condannato per delitti comuni - viene dichiarato «più pericoloso quale pederasta che ladro». L'ingresso d'un omosessuale nei commissariati è segnalato da commenti salaci del tipo: «Ecco la bambina!». Oppure, più tardi, al confino: «È arrivata 'a bellezza 'e Catania». Altri epiteti, signorina, femminiello, rientrano nella prassi. Ciò che accadeva sessantasette anni fa nel secondo capoluogo siciliano viene ora assunto come un test dell'apartheid sessuale in uso nel nostro paese durante la ventennale dittatura. Lo fanno due narratori e saggisti, Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio, in un volume dal titolo La città e l'isola - Omosessuali al confino nell'Italia fascista (Donzelli, pagg. 276, euro 13,50). Nell'intero territorio nazionale erano in uso procedure analoghe di arresto, detenzione e irrogazione di pena. Almeno trecento (ma probabilmente molti di più) furono i cittadini italiani "confinati" per omosessualità. Ma il fatto che gli autori abbiano concentrato la loro ricerca su una realtà locale ne accresce il sapore. Risalta in queste pagine l'antropologia d'un grande centro del Sud filtrata attraverso un tema atroce. Ci si offre uno "spaccato!' di vita, venato di una solidarietà che ne rafforza l'efficacia. Goretti, quello dei due autori che scrivendo usa la prima persona, fuga ogni dubbio in materia. «In questa storia, è bene dichiararlo, io sono partigiano. Sto dalla loro parte». Nessun tentativo di attenuare la tetraggine - o almeno la malinconia - degli episodi. Mai una chiosa ilare. Meno che mai un compiacimento ridanciano. Sullo scadere degli anni Trenta si registrò da noi una svolta brutale, in corrispondenza con l’ “omofobia” trionfante nella Germania nazista. Mentre lì si registrava l'assassinio di migliaia di omosessuali, l'imitazione italiana conosceva metodi meno ultimativi, ma a loro volta odiosi. Per ricostruirli, nel volume ci si serve principalmente di due testimoni coevi ai fatti, designati - come tanti altri in queste pagine - con nomi di fantasia: Filippo e Salvatore. Ora anziani, i due erano stati fra i confinati omosessuali del '39. Il maggiore d'età è Filippo, classe 1911, di professione sarto. L'altro, in origine tornitore di mobili, s'è conquistato sulla scia della sua passione per il melodramma vari nomignoli: Carmen, Tosca, Butterfly. Con il loro aiuto, gli autori ricostruiscono l'ambiente giovanile che si raccoglie intorno all'«arvulu russo» (l'albero grosso, un tronco secolare che si staglia nei pressi del porto) e una sala da ballo per soli uomini posta in piazza Sant'Antonio. E rievocano il «nucleo primigenio» dell'omosessualità locale, costituito dalle figure storiche del «triangolo rosa» catanese. A parte qualche borghese, per entrambe le fasce d'età si tratta in prevalenza di operai, sarti, contadini, camerieri, calzolai, barbieri. Sempre al femminile si declinano i soprannomi appioppati a ciascuno, spesso modellati sul loro mestiere Carmela «'a Chianchéra», cioè la macellaia; Federico «'a Scarpara», Girolamo «a Carbunara», Silvano «'a Caprara», Vito «'a Panittera» - oppure su caratteri o dettagli fisici: Raffaele «'a Leonessa», De Luca «Collo de muzzuni» (collo di bottiglia), Luca detto «'a Fonguta» per la bocca grossa, Luciano inteso come «Cincillà» perché somiglia a un animaletto irrequieto, Agatino «'a Placidina», Liborio «a Stunata». E così via. Condannati a cinque anni, pena massima prevista per il confino, i quarantacinque "arrusi" di Catania raggiungono la colonia di San Domino nelle Tremiti dopo una breve permanenza a Ustica, Favignana o Lampedusa. Gli si profila subito una discriminazione: nessuno di loro viene "ospitato" a san Nicola, dimora dei confinati politici. San Domino, che li raccoglie in esclusiva, è inteso in sostanza come «un confino dentro un confino». Gli antifascisti in punizione possono prendere case in affitto, mentre a loro è precluso. In base a una testimonianza vissuta - e ci si crede un po' a fatica - gli autori sostengono che ai confinati per omosessualità vengono applicati campanelli ai polsi e alle caviglie. Motivo: «Quando la gente vi sente arrivare, scappa». Ciascun camerone è sorvegliato da due carabinieri, i quali all'imbrunire ne chiudono la porta e se ne vanno a dormire a san Nicola. «L'isola è un deserto, la morte civile».- I divieti non si contano. La mazzetta, cioè la diaria prevista - quattro lire, poi cinque - non basta ad assicurare il cibo, anche perché, scrive un confinato, «con l'aria pungente più si ha fame». Il desiderio di arrotondare la mazzetta, d'altronde, alimenta lo strozzinaggio. Negli alloggiamenti penetra la pioggia. Rispetto a tanta segregazione, la vicina San Nicola - domicilio confinario a sua volta orrendo - viene considerato quasi un'oasi. Per cominciare, lì sono presenti i «masculi». Non è come a san Domino, dove per gli omosessuali coatti «le correnti erotiche più intense si concentrano sui carabinieri». Oppure, ricostruiscono gli autori, «in mancanza di maschi veri e propri gli "arrusi" - per così dire - meno "arrusi"» fanno «da surrogato». Gelosie, inimicizie, patetici antagonismi, denunce delazioni e risse segnano i rapporti fra compagni di sventura. Agli antifascisti in punizione nell' altra isola, questi segregati “sessuali” non sempre ispirano la dovuta pietà: un ex confinato politico, intervistato nel volume, li descrive con un'acredine perfino sguaiata: «Elegantissimi, azzimati, i capelli fluenti. Si tenevano a braccetto chiamandosi con nomi di donne e lanciando intorno occhiate languide e assassine. Non potevano parlare con noi e si limitavano a lanciare sospiri, sorrisi e canzoni d'amore... Quando scoppiò la guerra furono tutti graziati e partirono inneggiando al capo del governo e mai voci più argentine acclamarono il suo nome e cantarono le lodi in suo onore. E pensare che noi credevamo di esserci guadagnate le loro simpatie facendo sapere ch'eravamo per il libero... culto in libero Stato!». L'ora della liberazione scoccò, per quei confinati atipici, nella tarda primavera del '4O, allorché la loro pena venne commutata in due anni di ammonizione. Non che il cuore del regime si fosse intenerito. Fu un semplice colpo di fortuna. Il 28 maggio, in un provvedimento emesso con il benestare del duce, il capo della polizia fascista, Arturo Bocchini, spiegò che a San Domino dovevano «essere inviati internati politici pericolosi»: per gli "arrusi" di Catania, quindi, non c'era più posto. Ci si sarebbero aspettate, da parte loro, unanimi grida di gioia. Certo che quel giorno (come ricorda il "politico" appena citato) i più esultarono. Ma ci furono anche «femmenelle che piangevano, quando venimmo via dalle Tremiti», testimonierà un catanese rievocando quell'addio. Ecco un sentimento che sorprende, un'ultima nota desolata.
la Repubblica, 4 maggio 2006