la Repubblica
Liliana, una sopravvissuta. Nel ’43, a tredici anni da Milano a Birkenau. Una bambina di allora ricorda il dramma della persecuzione e l’orrore infinito dell’Olocausto
di Ottavia Borella
Tornare e non essere creduti: questo fu l'incubo ricorrente
per i sopravvissuti ai lager nazisti. Lo fu anche per Liliana Segre, deportata a
13 anni ad Auschwitz. Quel che aveva da raccontare era così spaventoso e
lontano, da ogni realtà conosciuta che anche le persone più care dubitavano
dei suoi racconti. Fu così che decise di non parlarne più per quarantacinque
anni. Al compimento del suo sessantesimo anno, capì che era giunto il momento
di testimoniare. Lo sentiva come un dovere verso coloro che non potevano più
farlo, un dovere essenziale affinché quel che era accaduto non venisse
dimenticato. Da allora Liliana Segre va nelle
scuole e racconta. Da allora Liliana Segre va nelle scuole e racconta. «Una
sera di fine estate del 1938 - inizia così il suo racconto - mio padre mi disse
che, siccome eravamo ebrei, non avrei più potuto frequentare la scuola pubblica
di via Ruffini. Avevo 8 anni. Avrei dovuto iniziare la terza elementare. Non
riuscivo a capire cosa fosse cambiato, non mi ero mai sentita diversa dalle mie
compagne di scuola e dalle bambine con cui giocavo al Parco Sempione. Appartenevo
ad una famiglia borghese assolutamente qualsiasi: mio nonno parlava milanese e
amava tutto quello che riguardava la sua città; mio padre e mio zio erano stati
ufficiali nella Grande Guerra. Non si parlava di ebraismo, la mia famiglia era
agnostica». Nel settembre del'43, con l'occupazione nazista dell'Italia del
nord, alle leggi razziali italiane, che pur erano state severe e umilianti, si
sostituirono le leggi spietate di Norimberga, che non prevedevano più soltanto
la discriminazione ma il genocidio. Fu allora che il padre di Liliana (i suoi
genitori, vecchi e malati, avevano ottenuto l'assicurazione che non sarebbero
stati deportati in quanto «impossibilitati a nuocere al grande Reich», mentre
vennero in seguito buttati, su un carro bestiame e poi uccisi ad Auschwitz),
decise di tentare con la figlia e i due vecchi cugini Ravenna la fuga verso la
Svizzera. «Con enorme disagio e difficoltà, in mano a contrabbandieri
senza scrupoli, attraversammo a piedi la montagna. Ma quando il 7 dicembre, in
un’alba plumbea terribile giungemmo ad Arzo, il primo comune del Canton
Ticino, l’ufficiale del comando svizzero non ci lasciò entrare. Non ci fu
nulla da fare, fummo rimandati alla frontiera italiana. Le guardie della
Repubblica Sociale ci arrestarono.» Carcere di Varese e poi, quello di
Como. Dopo un paio di settimane furono trasferiti al carcere di San Vittore,
dove Liliana almeno poté dividere la cella con il padre. «Quaranta giorni nel
5. raggio, riservato agli ebrei. Anche se il carcere era duro, non
c'era l'ora d' aria, le latrine erano spaventose, era meraviglioso essere di
nuovo insieme». Verso la fine di gennaio del 1944 arrivò l'ordine di
deportazione. Il 29 ci fu il drammatico appello: vennero letti i nomi di intere
famiglie, più di 650 persone. «Ascoltammo il susseguirsi dei nomi in tragico
silenzio e poi rientrammo ognuno nella propria cella. Quel giorno Rino Ravenna,
il nostro anziano cugino, si suicidò gettandosi, dal ballatoio del terzo piano». La mattina del 30 gennaio, i detenuti del Quinto raggio si prepararono ad
affrontare il viaggio con un ultimo decoro borghese. Ognuno aveva cercato di
sistemarsi al meglio, le mamme avevano lavato i bambini e le signore più
anziane avevano indossato persino il cappello. Per uscire dal carcere,
l'interminabile fila attraversò un raggio di detenuti comuni che, nel ricordo
di Liliana, furono straordinari, di un'umanità indimenticabile. «Mentre
passavamo si affacciarono dalle loro celle. Ci gridavano parole di conforto e di
speranza. Pregavano per noi e ci gettavano come viatico quelle poche cose che
avevano con loro. lo ricevetti sulla testa un pacchettino di biscotti e, quando
alzai gli occhi per vedere chi me l’avesse lanciato, un uomo grande e grosso
mi gridò in dialetto milanese che ero una “brava tusa”, di farmi coraggio e
di ricordarmi di lui. Si chiamava Bianchi e io non l'ho mai dimenticato, sarà
stato un ladro o forse anche un assassino, ma fu tanto meglio di quei milanesi
asserragliati dentro casa che non aprirono le finestre, vedendoci passare, per
direi una parola di conforto». Attraversarono sui camion una Milano tetra e
deserta per arrivare alla Stazione Centrale. Non ci furono intrasportabili:
tutti a bastonate e a calci vennero caricati sul treno e in un attimo i vagoni
vennero sprangati e piombati. «Ci guardammo intorno, e' era solo un po' di
paglia per terra e un secchio per gli escrementi, che ben presto si riempì
debordando. All'inizio si sentiva piangere, gridare, alcuni chiedevano aiuto, i
più fortunati pregavano. Nei giorni seguenti, invece, ci fu un silenzio
solenne, si sentiva soltanto il rumore del treno, che implacabile ci avvicinava
all'inferno a cui eravamo destinati e che ci allontanava sempre di più dalle
nostre vite. lo e mio padre trovammo un angolino di parete a cui appoggiarci e,
stretti l'una all'altro,
non avevamo più bisogno di parlare: fu silenzio per sei giorni, gli ultimi
della nostra vita insieme». La mattina del 6 febbraio, il treno di fermò
definitivamente alla rampa di arrivo di Auschwitz, e lì, con la stessa violenza
con cui erano stati caricati, in un attimo furono sbattuti fuori. In un attimo
furono divisi gli uomini dalle donne. «lo non sapevo che non avrei mai più
rivisto mio padre e mi auguro che anche lui non sapesse. Ci lasciammo con un
abbraccio e io gli feci dei piccoli cenni da lontano perché non fosse troppo
disperato». Liliana, ormai sola, passò la prima e più feroce selezione, sfilò
davanti a un drappello di SS che, con un cenno della testa, decidevano chi
poteva entrare nel campo e chi invece doveva essere passato per il camino. «Entrai
a Birkenau, uno dei campi del circondario di Auschwitz, con trenta ragazze
italiane che come me, per quel giorno, erano state risparmiate. Ci fu tolto
tutto: fummo spogliate, rasate e ci venne tatuato un numero sul braccio. Delle
ragazze francesi, arrivate qualche settimana prima, ci spiegarono che quell'
odore dolciastro che permeava il campo era l'odore della carne bruciata,
ci dissero che la ciminiera fumante sullo sfondo era il crematorio, che quel
sapone nero che ci era stato dato era fatto con il grasso dei nostri morti».
Incominciò così, per la tredicenne Liliana Segre, la sua vita di
prigioniera-schiava, quell'inferno che durò per 15 lunghi mesi, fino al 1
maggio del 1945 quando, dopo essere stata mandata in altri campi man mano che i
russi avanzavano, fu liberata al centro della Germania. «Ebbi la fortuna di
diventare operaia in uno stabilimento per la guerra, e tentai in ogni modo di
sopravvivere.
Da la Repubblica, 4 maggio 1994, per gentile concessione