la Repubblica

Quel lager inventato

Il caso Wilkomirski, lo scrittore che finse di essere ebreo e di essere stato ad Auschwitz – Il suo libro “Frammenti” raccontava il dramma di un bambino deportato dai nazisti – Poi si scoprì che l’uomo aveva falsificato la sua identità e il suo passato. Un confronto con il caso Irving

di Alon Altaras

In questi tempi di negazianismo di Stato (Iran) e di studiosi o presunti tali (Irving), è utile e interessante riflettere su un singolare caso nella storia della letteratura della testimonianza: il casa Wilkomirski. Nel 1995 la casa editrice tedesca Surkampf pubblicò un libro intitolata Frammenti, scritta da un cittadino svizzero, musicista di mestiere di nome Benjamin Wilkomirski. Essa racconta l'infanzia dell'autore trascorsa nei lager di Majdanek e Auschwitz e il successo arriva immediato. Frammenti viene tradotto in dodici lingue fra cui inglese, francese, italiano ed ebraico, e gode di ottime recensioni su giornali importanti nei rispettivi paesi. Il Guardian lo trova «uno dei maggiori libri sulla Shoah», Le Monde non risparmia elogi e in Israele due scrittrici affermate come Batia Gur e Ruth Almog celebrano l'autenticità delle memorie frammentate di questa bambina che, per sua sfortuna, ha passato anni d'infanzia nei lager più tremendi. Nel 1996 Wilkomirski diventa una celebrità, viene invitato ai convegni sulla Shoah, tiene conferenze in tutto il mondo, anche in Israele, riceve premi importanti delle organizzazioni ebraiche che si occupano della memoria della Shoah e si presenta come un "ambasciatore" di tutti i bambini a cui la tragedia ebraica nei lager ha rubato l'infanzia. Nell'edizione tedesca un grande storico come Daniel Goldhagen non esita a donare alla quarta di copertina un positivissimo giudizio. Questa successo, però, in Svizzera non convince un giovane scrittore di origine israeliana, Daniel Ganzfried, che su richiesta di un settimanale svizzero comincia a indagare sul passato di questo caso letterario della testimonianza. Le scoperte di Ganzfried sono clamorose: il vero nome del nostro autore non è Benjamin Wilkomirski, ma Bruno Doessekker, il quale non trascorse l'infanzia nei lager, bensì in Svizzera, adottato da bambino da una coppia benestante di Zurigo. Nel libro Frammenti, dove sono tracciati nove anni fra il 1939 e il 1948, il nostro autore racconta di essere nato a Riga, di essere arrivato a Majdanek e, se non bastasse questa sofferenza, ad Auschwitz. Finita la guerra, prosegue il suo racconto, giunse in un orfanotrofio di Cracovia e solo nel 1947 approda in Svizzera, a Zurigo. In realtà, come ci insegna l'inchiesta di Daniel Ganzfied pubblicata sul giornale Weltwoche nel 1998, Wilkomirski nacque nel 1941 nella città di Biel, venne messo dalla madre biologica, Grosjean di cognome, in un orfanotrofio di Adelboden e poi, nel 1947, fu preso in adozione dalla coppia Doessekker. Dopo la verifica dei fatti è chiaro, almeno in Svizzera, che l'autore di Frammenti non è di origini ebraiche, non ha mai visto – se non da turista - un campo di concentramento e ha adottato il nome ebraico di un noto violinista. L'illustre casa editrice Surkampf si trova in grande imbarazzo e chiede allo storico Stephan Mechler di verificare i fatti denunciati su Weltwoche. Dopo un'indagine, anche Mechler conviene che l'autore di Frammenti si è inventato l'infanzia nel lager e per fugare ogni dubbio riesce a contattare il padre biologico del presunto Benjamin Wilkomirski, alias Bruno Doessekker. Quest'ultimo, fra l'altro, non offre alcuna spiegazione valida delle sue invenzioni, continuando a ripetere d'essere Benjamin Wilkomirski. Aggiunge di aver negato la vera identità per molto tempo e, solo negli anni Ottanta, dopo una profonda crisi e una terapia psicologica, di essere stato capace di ripescare dalla memoria la sua vera infanzia di bambino perseguitato dai nazisti. I problemi di identità così diffusi nel caso di soggetti adottati hanno avuto, in questo caso, uno svolgimento assai più radicale. La sete di identità ha portato l'adulto Bruno a inventarsi origini non sue, sofferenze che non gli appartengono e una fama letteraria che non merita. Alla Fiera del Libro di Francoforte del 1999, la casa editrice tedesca Surkampf decide di rendere noto che il libro di questo autore svizzero non è testimonianza e lo ritira dagli scaffali delle librerie. È singolare che Yedioth Ahronoth, il giornale maggiormente diffuso in Israele, in quel periodo pubblica un'intervista con l'autore lasciando aperto il giudizio se il libro sia una pura invenzione o un'autobiografia autentica. In Italia del caso si occupano giornali come il Corriere della Sera, Avvenire e Resto del Carlino, ma il libro, edito da Mondadori, continua a circolare come opera di testimonianza, mentre gli altri editori europei, Calmann-Lévy in Francia, Picador in Inghilterra, Schocken negli Stati Uniti, lo ritirano come i tedeschi. C'è uno strano, ma prevedibile collegamento fra persone come lo storico Irving e mitomani come Bruno Doessekker. Tom Segev, lo storico e giornalista, israeliano di Haaretz (in Italia è stato pubblicato il suo Il settimo milione, che si occupa dei sopravvissuti in Israele), alla fine del novembre 2000 incontrò Irving a Londra, quando si svolse il processo che vide protagonisti la storica americana Debora Lifstet, che lo aveva accusato di negazionismo, e Irving stesso, il quale l'aveva querelata per tale accusa. In quell'occasione, racconta Irving, il figlio di Rudolph Hesse gli mandò una lettera di incoraggiamento e un articolo sul caso Wilkomirski. Il figliò del criminale nazista aggiunse che Frammentiè «un altro esempio del modo di operare dell'industria della Shoah» e Irving non esitò a mettere questa lettera sul suo sito dedicato al negazionismo. Il ripensamento di Irving dichiarato al processo di Vienna risulta, a guardare le date, sorprendentemente recente. Un libro molto importante, frutto della vicenda Wilkomirski è L'homme qui avait duex tètes, (Editions de l'Olivier, 2000). L'autrice, Elena Lappin, nata a Mosca nel 1954 e vissuta in Israele, oggi risiede a Londra dove dirige la rivista Jewish Quarterly. Anche lei fu tra coloro che premiarono Wilkomirski e il suo libro. L'homme qui avait duex tètes è preziosissimo per chi voglia come prendere il personaggio Bruno Doessekker. Senza aver avuto prima il coraggio di confrontarsi con chi l'aveva smascherato, stavolta l'autore di Frammenti è disposto a farsi intervistare dalla Lappin, la quale nota che nei loro incontri lo scrittore-mitomane si commuoveva, piangeva, tremava ogni volta che parlava dei campi, della Shoah e della sua presunta sofferenza. Lappin vede nel caso Wilkomirski il problema di una persona che ha fatto uso della sofferenza ebraica e della Shoah per disturbi psicologici e problemi di identità. Nella sua casa in campagna trova un archivio ben documentato sui campi e sulle memorie dei sopravvissuti, senza dubbio utilizzati dal musicista Bruno per diventare lo scrittore Wilkomirski. Frammenti è un libro pieno di difetti di costruzione e di scrittura e se non fosse stato etichettato come la testimonianza di una infanzia piena di vuoti di memoria, non avrebbe trovato il successo momentaneo che ha invece riscontrato. Come romanzo, queste 127 pagine valgono molto poco, ma il danno arrecato alla grande letteratura della memoria (Primo Levi, Imre Kertész, K. Zetnik, Ida Fink, Jorge SemprunJ è notevole. Nelle prime settimane del febbraio 2006 sul Guardian si scopre che lo scrittore americano James Frey, autore del bestseller Un milione di piccole schegge, un'autobiografia sulla vita piena di droga e di alcol, si è inventato non pochi dettagli per rendere il suo libro «pieno di picchi drammatici, perché volevo che avessero la tensione giusta di una grande storia». Scrive di aver letto Guerra e pace durante i tre mesi in carcere. In realtà ci aveva passato poche ore. Il libro, dopo gli elogi ricevuti dalla celebre conduttrice televisiva Oprah Winfrey alla fine del 2005, è diventato un vero e proprio bestseller. Ma all'inizio di quest'anno un sito Internet ha verificato l'autenticità di molti dettagli e avvenimenti riportati nel libro, risultati falsi. Frey allora ha definito il suo bestseller una «verità soggettiva», sostenendo che un libro di memorie non deve rispettare esattezze storiche. «In questo mio libro», continua, «ci sono fatti che riguardano la mia vita con l'aggiunta di alcuni ornamenti». I casi di Wilkomirski e Frey non presentano la stessa gravità, ma entrambi fanno il gioco di una certa cultura postmoderna in cui il dato storico, la biografia di una persona, sono possibili frutti dell'abilità di scrittura. La verità, l'onestà, non sono ingredienti che Bruno Doessekker e James Frey usano per raccontare la loro vita.

la Repubblica, 13 marzo 2006

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