la Repubblica
la
memoria - Vita nel
lager
Sachsenhausen
il Male quotidiano
Karl-Otto
Koch, nazista della prima ora, comandante Ss del campo di concentramento, aveva
raccolto in un album 500
fotografie che illustravano le attività di tutti i giorni degli aguzzini e
delle loro vittime. Alla fine
della guerra quel documento sconvolgente finì negli archivi della polizia
segreta sovietica. Oggi la Russia lo restituisce alla Germania
L’alto
ufficiale non era soltanto un uomo crudele, responsabile di violenze bestiali. Era
anche corrotto e
per anni rubò approfittando del proprio potere. Denunciato dal suo superiore
diretto venne arrestato nel 1942 e impiccato nell’aprile di tre anni dopo, un
caso forse unico tra i suoi pari
di
Andrea Tarquini
Berlino
- L’album
del comandante di Sachsenhausen, Karl-Otto Koch, è emerso a Mosca quasi dal
nulla, come un antico ricordo familiare ritrovato che risveglia la memoria.
Cinquecento fotografie in bianco e nero. Con le Leica e le Zeiss Contax, i
soldati Ss di Koch le scattarono ubbidienti e precisi, come si conviene a
zelanti esecutori. Accadde tra il 1936 e il 1937: herr Koch volle
documentare la costruzione del “suo” lager. Cinquecento foto, le istantanee
della banalità dell’orrore. Dopo la disfatta del Reich, nel 1945, l’album
finì non si sa come negli archivi segreti della Nkvd. Ora lo Fsb,
l’intelligence della Russia di Putin, lo sta restituendo alla Gedenkstätte
Sachsenhausen, il museo del lager alle porte di Berlino. In agosto le foto
saranno esposte in una mostra e resteranno raccolte in un libro-catalogo, perché
il mondo non dimentichi. «Lo Ss-Standartenführer Karl-Otto Koch era un
nazista della prima ora», ci spiega il professor Günter Morsch, direttore del
museo di Sachsenhausen. «Era ansioso, insieme ai suoi camerati, di documentare
il momento storico e glorioso dell’èra nazista, il “Nuovo Ordine”, come
loro lo stavano vivendo e costruendo. Fieri, orgogliosi ariani, uomini
dominatori: guardateli nelle istantanee. Ecco la novità terribile dell’album:
ci mostra il loro volto, scava nei loro animi». Guardiamole, una dopo
l’altra, le foto che pubblichiamo. Ecco la prima: un gruppo di detenuti
costruisce le baracche di Sachsenhausen. Ecco una delegazione di giornalisti
svedesi ricevuti da Koch e dai suoi ufficiali: diligenti e addomesticati, gli
scandinavi prendono appunti sull’umanitaria detenzione di sovversivi ed
elementi antisociali. Ecco gli internati, la schiena curva, che trasportano
alberi per le baracche. Ecco ancora Koch con il suo staff: Stubaf, Baer,
Wichmann, Roemhild, Maier. Ecco infine l’arrivo dei nuovi internati, il primo
passo decisivo della loro umiliazione, del loro annichilimento. I nemici del
Reich consegnano i loro abiti civili e ricevono l’uniforme da deportato che
non smetteranno più. Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate. La scoperta
dell’album ha un valore documentario eccezionale, dice Morsch. Gli archivi
tedeschi, israeliani e di tutto il mondo sono pieni di foto agghiaccianti
sull’Olocausto. Ma rarissime sono invece le immagini che ci narrano come
l’universo concentrazionario hitleriano fu costruito. L’orrore vissuto come
quotidiano da chi lo gestiva entusiasta e convinto. «Koch apparteneva alla
prima generazione di militanti nazionalsocialisti. Aveva vissuto la disfatta
nella Prima guerra mondiale, poi la guerra civile sotto la Repubblica di Weimar.
Era quella la sua memoria: più che animato dal fanatismo fideista dei nazisti
più giovani, era carico di un odio da guerra civile contro i nemici del Reich».
La prima generazione di nazisti: costruendo Sachsenhausen, i “veterani” del
primo dopoguerra ebbero la loro prima ambita riscossa. Prima fase del terrore
L’odio dei fieri ariani verso i prigionieri ci è tramandato dall’altro
lascito di Sachsenhausen: guardate i disegni dei detenuti. Nazisti in alta
uniforme seviziano prigionieri inermi, internati ridotti pelle e ossa giacciono
ormai moribondi. Koch fu tra i più devoti seguaci di Theodor Eicke, il primo
comandante generale dell’amministrazione dei Lager. «A Koch», mi spiega il
professor Morsch, «Eicke affidò non a caso il progetto Sachsenhausen. Fu la
fine della prima fase del terrore nazista e l’inizio della fase due». I primi
lager, come Oranienburg, erano piccoli e provvisori: al massimo ospitavano
“appena” tremila prigionieri. Comunisti, socialdemocratici, centristi,
religiosi critici. Gente che magari dopo sei mesi o un anno, se non era morta di
stenti, veniva rimandata a casa come un relitto terrorizzato. Sachsenhausen no,
Sachsenhausen fu il salto di qualità dell’orrore. Fu il primo Lager a
dimensioni industriali. Fu il lager, spiega Morsch, da dove Eicke e gli altri
ufficiali dirigevano l’amministrazione concentrazionaria in tutto il Reich. A
Sachsenhausen nacquero le prime unità Totenkopf (testa di morto) delle Ss. A
Sachsenhausen partì il progetto del campo per detenzione prolungata. «Fu la
prima svolta: internare a lungo nemici d’ogni sorta, le altre razze, gli altri
popoli. Fu il primo luogo in cui le Ss della vecchia generazione, Koch e
camerati, esercitarono la loro crudeltà bestiale». In piena libertà, da fieri
ariani. La fase tre del Terrore — la «soluzione finale», la Shoah —
sarebbe venuta poco dopo. Testimonianze agghiaccianti Le istantanee dell’album
narrano tutto nei dettagli. Guardiamo le pose arroganti e fiere di Koch e dei
suoi ufficiali, raffrontiamole con le teste basse e gli occhi spaventati dei
loro prigionieri. «Koch e il suo gruppo erano convinti che il nazismo fosse
un’èra nuova nella storia. Si sentivano protagonisti e testimoni, volevano
vivere l’emozione appieno». A Sachsenhausen cominciarono gli assassini di
prigionieri presentati nei verbali come «uso legittimo delle armi da fuoco per
bloccare un tentativo di fuga». L’ex deportato Harry Naujocks lasciò al
mondo, con le sue memorie, agghiaccianti testimonianze su violenze e pestaggi
quotidiani,
sull’umiliazione di chi doveva solo sgobbare curvo, su chi veniva ucciso per
caso e per gusto, o perché scelto come nemico da eliminare. A Sachsenhausen
cominciarono a diminuire le razioni di cibo. E con la costruzione del campo
iniziò lo sfruttamento industriale della manodopera internata. Le aziende
civili collaborarono pronte. La Kemper und Seeberger di Berlino fu la prima a
fornire a Koch materiali e progetti per le baracche, che gli internati
costruirono per se stessi lavorando all’aperto anche d’inverno. I forni
crematori vennero più tardi, dopo il 1939 e il 1940. Li fornì la premiata
ditta Kori. Koch fece carriera, come molti altri Eickemänner, gli uomini
del camerata Eicke. Gli toccò comandare Majdanek, poi Buchenwald. Ma lui e gli
altri Eickemänner, i veterani della prima leva nazista, erano corrotti
nel fondo, spiega il professor Morsch. Corrotti nella morale, come mostrarono
con la loro bestiale crudeltà contro i prigionieri. Ma corrotti anche nelle
tasche. Per anni Koch rubò sistematicamente approfittando del suo potere.
Rubava i denti d’oro, i gioielli e altri averi dei detenuti, e forse non solo.
Si sentiva sicuro e forte. Aveva sottovalutato il rischio di farsi anche dei
nemici tra i ranghi del regime. Il principe von Waldeck, un altro ufficiale Ss,
era il suo superiore diretto e divenne il suo rivale. Lo denunciò a Himmler
rivelando le sue ruberie. Koch finì male: carriera stroncata con le sue mani,
anche sotto il regime che adorava. Fu arrestato nel 1942. Tre anni dopo,
nell’aprile del 1945, mentre gli aerei angloamericani dominavano i cieli e
l’Armata rossa puntava su Berlino, venne condannato a morte da un tribunale
delle Ss e impiccato. Forse fu un caso unico di ufficiale nazista condannato dai
nazisti, dice Morsch. Di lui resta solo quell’album, che soldati o ufficiali
sovietici trovarono dopo la fine della guerra a Sachsenhausen. Lo portarono a
Mosca non si sa come. Da lì, nel nuovo mondo del dopo-guerra fredda, l’album
è tornato a casa. Gli uomini di Koch finirono in Siberia. Negli anni Cinquanta
alcuni vennero rilasciati sotto Krusciov. In parte quando Konrad Adenauer,
fondatore della democrazia postbellica, compì il primo viaggio in Urss
inondando il Cremlino di crediti e alta tecnologia. In cambio riportò a casa
decine di migliaia di prigionieri di guerra. Altri furono “restituiti” alla
Ddr. Entrambi gli Stati tedeschi della guerra fredda processarono almeno una
quindicina di ex uomini di Koch. Proprio a Bonn, nel 1957, i veterani di
Sachsenhausen furono gli imputati del primo importante processo a criminali
nazisti tenuto dalla Repubblica federale. Al di qua e al di là del Muro, lunghe
pene detentive e poi vecchiaia in disonore e in miseria chiusero quelle fiere
vite ariane. Nessuno di loro è sopravvissuto, solo l’album del comandante
Koch resiste al tempo.
“E Stalin tacque per nasconderei propri crimini”
di
Giampaolo Visetti
Mosca
«Fino
all’avvento di Gorbaciov, l’Olocausto fu ignorato in Unione Sovietica. Gli
ebrei ammazzati dai nazisti durante l’occupazione tedesca venivano citati come
russi caduti durante la Guerra di liberazione. Solo ora comincia a prendere
corpo un vero e proprio archivio della Shoah». Alla Gerber è una signora
minuta e gentile. Figlia di una famiglia ebrea sterminata a Kiev, storica e
scrittrice, dissidente perseguitata ai tempi dell’Urss, deputata democratica
ai tempi della perestrojka, leader della difesa dei diritti umani in
Russia, ha dedicato la vita a far emergere la verità sul massacro degli ebrei
russi in Germania e nei Paesi dell’Est. Oggi presiede la Fondazione Holocaust
di Mosca, l’unica istituzione dell’ex Urss che raccoglie testimonianze e
reperti della Shoah. «Per mezzo secolo», dice, «è stato quasi impossibile
trovare documenti delle persecuzioni sul territorio sovietico. Stalin prima tradì
gli ebrei per dimostrare amicizia a Hitler, poi per nascondere i propri pogrom.
I comunisti, successivamente, hanno cancellato l’Olocausto per coprire le
proprie stragi e per non ammettere la diffusa complicità popolare nella Shoah.
Il Male in Russia fu la normalità, ma poi tutti se ne sono vergognati».
Esiste
in Russia documentazione fotografica sui lager nazisti, o sulle fucilazioni di
massa degli ebrei?
«Nemmeno
una foto. Il comunismo, a differenza del nazismo, non è crollato alla fine
della Seconda guerra mondiale. Sul territorio sovietico non furono mai costruiti
lager. I nazisti non avevano bisogno di nascondere nulla. Le fucilazioni
avvenivano sotto gli occhi di tutti. L’Urss ha poi distrutto tutti i documenti
compromettenti».
Perché
invece si sono salvate le immagini dei gulag?
«I
gulag non erano finalizzati allo sterminio di un popolo. Erano campi di
prigionia, le persone erano ridotte in schiavitù. Ma erano essenzialmente
luoghi di lavoro. Non è morta il novanta per cento della loro popolazione, come
nei lager».
Hitler
e Stalin hanno ridotto l’abominio a normalità, a ordinaria occupazione
quotidiana degli aguzzini: come ha potuto verificarsi una tale concomitanza?
«È
stato un fenomeno strano, unico nella storia. Non c’è una spiegazione
razionale. La violenza razziale era vissuta come un diritto. Hitler negli anni
Trenta studiò i metodi repressivi di Stalin. Li ammirava e li adottò,
rendendoli poi più sofisticati. Stalin, alla fine degli anni Trenta, inviò
funzionari in Germania a studiare l’organizzazione dei lager. Sapevano
entrambi di essere gli architetti di un’industria della morte, ma il clima era
simile a quello che si crea oggi quando una delegazione straniera visita una
fabbrica o una centrale elettrica».
Cosa
cambiò per gli ebrei dopo l’invasione tedesca dell’Urss?
«Iniziò
anche qui lo sterminio sistematico degli ebrei. Stalin di fatto li consegnò ai
nazisti. Per non incrinare l’amicizia con Hitler, prima del tradimento, la
propaganda sovietica dipingeva la Germania come la nazione più illuminata e
tollerante del mondo. Nessuno immaginava l’Olocausto. I nazisti furono accolti
dagli ebrei, discriminati in Urss, come dei liberatori. Nessuno, avvisato in
extremis, fuggì».
Perché
le autorità sovietiche non sfruttarono la Shoah per convincere milioni di ebrei
russi a combattere contro i nazisti?
«Storicamente
la Russia è un paese antisemita. Stalin conosceva gli umori profondi del
popolo. Lasciò che i tedeschi facessero il lavoro sporco, contando sulla
complicità sociale. Tra il 1941 e il 1945, sul territorio sovietico, sono stati
uccisi oltre tre milioni di ebrei. Tutti fucilati: non è stato necessario
costruire nemmeno un carcere».
Come
reagiva la gente davanti alle esecuzioni di massa?
«Le
racconto quanto avvenne a Kiev, alla mia famiglia. Dopo l’invasione, i
tedeschi pubblicarono subito un giornale antisemita in lingua russa. Poi
iniziarono lo sterminio in un quartiere. Portavano gli ebrei sulle rive del
Dniepr e li fucilavano. A migliaia. All’inizio non accadde nulla. Dal terzo
giorno in poi si riuniva la folla per assistere alle esecuzioni. Facevano la
coda per assistere allo spettacolo, contavano i cadaveri, ammirati come fossero
bottino di caccia. Nell’Olocausto troviamo sempre tre categorie: vittime,
carnefici e spettatori».
Quale
è stato l’atteggiamento dei russi dopo la sconfitta della Germania nazista?
«Sotto
l’Urss non si è mai parlato dell’Olocausto degli ebrei. Vassilij Grossman e
Ilija Ehrenburg compilarono il libro nero sullo sterminio, ma non riuscirono a
pubblicarlo. Nel 1948 Stalin iniziò a combattere la battaglia persa di Hitler,
perseguitando i cosiddetti “cosmopoliti”, ossia gli ebrei. Poi li accusò di
collaborazionismo con i tedeschi. Alla strage seguì una strage,
nell’indifferenza collettiva».
Perché
Stalin, nonostante i russi avessero liberato Auschwitz, perseguitò gli ebrei
anche dopo il 1945?
«L’Urss
era al disastro economico. Montava il malcontento popolare. Iniziava la Guerra
Fredda. L’attenzione della gente andava sviata. La liberazione di Auschwitz fu
taciuta. Si puntò sulla presenza dannosa dei ricchi ebrei, dati in pasto alla
rabbia dei poveri russi. Per anni il Kgb assicurò che ogni presunta spia Usa
era ebrea».
E
dopo la morte di Stalin?
«Cambiò
poco. La nomenklatura comunista rimase intimamente antisemita. L’Olocausto è
stato sempre ignorato, o minimizzato. Non era un argomento ufficialmente
proibito, ma si consigliava di evitarlo. L’aria è cambiata con Gorbaciov, ma
pure con Eltsin».
Com’è
il clima oggi?
«Il
popolo russo resta povero e deluso, ha ancora bisogno di un colpevole, di un
capro espiatorio. La Russia continua a ignorare la Shoah. Non vuole ammettere
che milioni di sovietici, in particolare nei Paesi baltici e in Ucraina,
eseguirono le stragi di ebrei ordinate dai nazisti. Per questo il terreno per
l’antisemitismo resta fertile».
Ritiene
che le autorità siano responsabili?
«Putin
non è antisemita, non c’è un nuovo Hitler russo. Si tollera però la
presenza di decine di gruppi e piccoli partiti che alimentano e sfruttano
l’odio contro gli ebrei. Negli strati marginali della popolazione gli episodi
di violenza antisemita si moltiplicano, senza essere contrastati né condannati
con la necessaria fermezza. La voglia di riabilitazione di Stalin porta con sé
il recupero di Hitler. Per anziani e giovanissimi sono due leader che hanno
portato ordine. Così in Russia gli ebrei ormai sono meno di un milione. E chi
può se ne va».
la
Repubblica, 5
marzo 2006