la Repubblica:  

Quello sciopero del '44. 

Lo schiaffo al nemico tedesco dalle sinistre in clandestinità. Le riunioni a rischio della vita, i non facili rapporti fra le anime del fronte antifascista. Le migliaia di volantini che furono stampati in segreto nella "capitale della Resistenza". Una marcia comune di socialisti e comunisti nelle città occupate. A Mussolini i portavoce raccontano la sorpresa e l'imbarazzo dei dirigenti.  

di Adolfo Scalpelli

Fu lunga, laboriosa, difficile, snervante la preparazione dello sciopero generale del primo marzo 1944. La vita clandestina dell'«esercito delle ombre», costantemente braccato dalle polizie fasciste della Repubblica sociale italiana, insidiate dai delatori e dagli agenti provocatori, spiato dall' apparato repressivo dell'occupante nazista, non consentiva di muoversi liberamente. Ogni riunione, ogni incontro era a rischio anche della vita. Ogni giorno si rinnovava la scommessa con la sopravvivenza. Uno stress che attanagliava gli uomini con l'angoscia di essere alla fine individuati. E all'interno del movimento antifascista le quotidiane battaglie dei partiti sulla tattica, sulle azioni, sulle forme di lotta. E, ancora, i rapporti non facili tra i partiti di sinistra dello schieramento unitario antifascista, il Partito comunista e il Partito socialista di unità proletaria. Era partita bene agli inizi di quel freddo gennaio 1944, l'in- tesa di marciare insieme, socialisti e comunisti, per la preparazione dello sciopero generale nelle grandi città del Nord occupato dalle divisioni tedesche. Persino sulla data il 21 febbraio, si era trovata l'intesa. Era nato d'un giorno con l'altro - troppo rapidamente per essere frutto di un accordo - un Comitato segreto di agitazione per il Piemonte, la Lombardia e la Liguria, si era strappato il consenso allo sciopero persino ai rappresentanti della Democrazia Cristiana e il Comitato di liberazione Alta Italia avrebbe fatta sua la decisione di portare anche questa volta la guerra dentro le fabbriche. Qualcosa era però andato storto nei rapporti tra comunisti e socialisti. Il 26 febbraio a uno Psiup che aveva manifestato per più atti di avere molte sue frange riluttanti a muoversi dopo aver preso l'impegno a preparare lo sciopero, il Pci scrisse una lettera che richiamava il «partito fratello» alle sue responsabilità con toni in qualche parte persino minacciosi: «È evidente che se un sabotaggio dello sciopero dovesse verificarsi da parte socialista, noi dovremmo mettere in chiaro le responsabilità di fronte alla  classe operaia». Ma il 1 marzo, quando gli stabilimenti si fermano, la polemica é già lontana, i dissapori si sono opportunamente risolti e non si è badato ad altro che a gettare nella lotta tutto il peso delle organizzazioni. Già alla metà di febbraio i comunisti clandestini del Nord, insediati a Milano capitale del governo della Resistenza, avevano approntato e stampato il materiale da distribuire alla vigilia e durante lo sciopero. Anche i tipografi lavoravano nell' ombra, di notte, tra mille sotterfugi e precauzioni. Sorpresi a stampare appelli o incita- menti alla lotta si poteva aprire per essi, se avessero avuto fortuna, la via del Lager. «Sciopero! Sciopero» era il titolo di trentamila manifestini del Comitato segreto di agitazione Lombardia distribuiti nella sola Milano. Insieme a questi ne erano stati stampati quattromila per i ferrovieri, quarantamila a cura del Comitato di agitazione delle tre regioni, trentamila firmati insieme da comunisti e socialisti. In sostanza, c'è scritto in una relazione dei dirigenti del Pci del Nord «nello spazio di cinque giorni sono stati distribuiti circa 200.000 manifestini, si può dire che fu una vera invasione, e tutto avvenne senza un minimo incidente ai compagni». Come in tutte le grandi operazioni ci fu un episodio beffardo. I tranvieri usarono un tram per fare il giro della città e trasferire ai vari depositi il materiale clandestino occorrente. La mattina del 27 febbraio una vettura, che aveva a bordo anche i dirigenti clandestini della categoria, correva sui binari carica di due quintali di manifestini. Sotto ceste di verdura e sacchi di pasta, c'era il carico prezioso, ma soprattutto pericoloso. Quando la vettura esce dal deposito Ticinese si trova la strada tagliata da una colonna di soldati tedeschi che stanno trasferendo armi pesanti da un luogo all'altro della città. I tranvieri scendono dal tram per ottenere il passaggio del loro veicolo iniziando un fitto parlamentare con l'ufficiale tedesco. Essi trasportano, gli dicono, le vettovaglie per la mensa dei dipendenti e se non si arriva in tempo a cucinarle per quel mezzogiorno i tranvieri potrebbero anche scendere in sciopero. La discussione, hanno raccontato i testimoni e i protagonisti dell'episodio, si fa serrata. Passano dieci minuti interminabili per chi sta sul tram in attesa, col cuore in gola, ma alla fine l'ufficiale fa arrestare la colonna e aprire un varco perché la vettura possa passare. Più che il pasto di mezzogiorno sono salvi i volantini in trasferta. Il carico può arrivare ai depositi. E il 1 marzo alle ore dieci gli stabilimenti sono bloccati. Ma già all'entrata del mattino c'erano stati segni premonitori di una giornata speciale. Non il solito ritmo di lavoro. Le operazioni molto più lente, la produzione stentata. Alle dieci, cessa del tutto. Iniziava quella grande avventura degli operai che per sei giorni, con alti e bassi, slanci e riflussi, mise in agitazione i governi di Salò e di Berlino. Aziende grandi piccole e medie senza distinzione si fermano. Segno dei successo della rivolta operaia il fatto che il «Corriere della Sera» non venne stampato, né fu sempre in edicola nei giorni successivi. I tram non circolano e senza tram Milano è paralizzata. Se le vecchie sferraglianti vetture restano nei depositi vuol dire, al di là di ogni dubbio, che lo sciopero è in atto e a popolazione  lo sa e le menzogne fasciste non hanno gambe. Dai depositi riescono ad uscire parecchie vetture, ma sono guidate da uomini delle milizie fasciste e da qualche volontario. Sono armati, spavaldi e incapaci. Terrorizzano la popolazione alla quale impongono con poco successo di salire sui veicoli. Il risultato sarà una catastrofe di incidenti e danni: 167 vetture fuori uso e l'azienda tenterà invano di far pagare le riparazioni ai tranvieri in sciopero. Nelle cronache clandestine di quelle giornate si smentisce il vecchio detto secondo cui «mentre la verità mette i calzari la menzogna ha fatto il giro del mondo». Ognuno sa che lo sciopero è riuscito, che le fabbriche sono silenziose. Troppe migliaia di persone sono coinvolte direttamente o indirettamente in quella rivolta civile. Di bocca in bocca circolano i nomi delle fabbriche in cui la classe operaia, «il moderno principe», è potente e organizzata come in un fortilizio. Tante di quelle aziende oggi non ci sono più, resta un perimetro, forse muri dalle occhiaie vuote, pareti diroccate, distese di sterpaglia o sono sorti anonimi quartieri abitativi dove un giorno si fondeva l'acciaio o si creavano sofisticati strumenti elettromeccanici di precisione curati con amore da operai che amavano il loro lavoro come e forse più della stessa famiglia. Breda, Magnaghi, Brown-Boveri, Alfa Romeo, le due Marelli, la Cge, la Motomeccanica, Falck, OM, Innocenti, Olap, Pirelli, Osva, Allocchio Bacchini, Bianchi, Geloso, solo alcuni nomi, alcune ragioni sociali del grande firmamento industriale milanese, del Gotha del lavoro italiano. Potevano i nemici non dare qualche risposta? Furono brutali come sempre e l'iniziativa fu tutta quanta in mano all’apparato repressivo nazista che aveva creato una sezione apposita per sopprime i reati contro la produzione. I reparti tedeschi entravano nelle fabbriche e, in un alternarsi di comportamenti, minacciavano, usavano blandizie, promesse e violenze, tantomeno di essere suadenti e comprensivi ma preferivano picchiare o arrestare. Da qualche parte si è tentato di trattare  operai  hanno conferito con le direzioni aziendali cercando di lasciar fuori dai colloqui gli ufficiali tedeschi, qualche miglioria è  strappata in tema di salari e  mense. Al fondo della vicenda, però, tutti sanno che c'è una questione politica insormontabile, l'antifascismo irriducibile della classe operaia italiana e le trattative sono ardue, le questioni economiche sono lo schermo, il paravento: dietro c'è la volontà di lottare per la fine della guerra, per la sconfitta di nazisti e fascisti. Diventa grottesco l'episodio che si verifica alla Cge, una grossa azienda elettromeccanica di precisione. Il castigo, la punizione per questi operai così privi di riconoscenza per la bontà padronale, consiste nel privarli della minestra a mezzogiorno e del caldo delle stufe accese durante il lavoro. Ma la situazione non cambia, lo sciopero va avanti. I partiti che hanno organizzato la lotta non tacciono e non sottovalutano il trionfo della battaglia. Nelle relazioni esaltano questo schiaffo dato in piena faccia al nemico che non sa prendere decisioni uniformi. E il Pci soprattutto era particolarmente orgoglioso che allo sciopero ci fosse stata anche la partecipazione di un'alta percentuale di «colletti bianchi», impiegati della Montecatini, della Edison, della Cassa di risparmio delle provincie lombarde. «L'influenza del nostro partito - essi scrivono - penetra profondamente anche fra queste masse». Gli informatori di Mussolini si fanno al contrario portavoce della sorpresa, dell'incertezza, dello sconvolgimento dei ranghi fascisti scrivendo i loro rapporti che sono altresì disseminati di sciocchezze. Uno dei motivi di riuscita dello sciopero, stando a chi scrive la sua relazione alle 20.30 del 1 marzo, è che «la massa obbedisce ai comunisti per una specie di attesa messianica del Barbison come è popolarmente chiamato Giuseppe Stalin. Nel Barbison bisogna avere fiducia, il Barbison metterà a posto tutto e tutti: anche gli inglesi e gli americani ... ». Ma all'interno del mondo fascista milanese, che tuttavia risultava esser informato da giorni su ciò che si stava organizzando, c'era sgomento, sfiducia e recriminazione sulla fatalistica passività di fronte all'offensiva operaia, tanto che lo stesso informatore scriveva che «se si fosse proceduto ad una violenta offensiva polemica (a base soprattutto di mani- festini) contro la preparazione dello sciopero, sarebbe forse stato possibile mettere i dirigenti in imbarazzo e gettare nell'animo della massa apatica ed inerte turbamento, sfiducia, disorientamento sì da sconsigliare, la progettata azione. A mancata insomma una controffensiva». I fascisti attoniti e smarriti avevano perso il ricordo delle grandi battaglie condotte dagli operai italiani. Non ricordavano, soprattutto, che un anno prima lo sciopero iniziato anch’ esso alle dieci di un giorno di marzo all'urlo delle sirene, era stato uno scossone formidabile alla stabilità del regime fascista e il preludio alla, caduta di Mussolini. Questo sciopero del'44 aveva anch'esso peculiarità incancellabili: erano l'unico esempio di sciopero generale avvenuto in una parte d'Europa dominata dall'occupazione nazista. Una lotta definita “insurrezionale”, cioè una prova generale dei futuri giorni della liberazione. Ed era magnificamente riuscito.

Da la Repubblica, 3 marzo 1994, per gentile concessione

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